Proviamo a gettare uno sguardo sull’ormai celeberrimo Decreto Dignità (ufficialmente denominato “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”), tralasciando commenti giornalistici e futuribili sviluppi[1] e concentrandoci sul testo nudo e crudo che – giova ribadirlo – acquisirà una veste definitiva appena con la conversione in legge, che potrebbe riservare spiacevoli sorprese.
Una premessa d’insieme: l’articolato è abbastanza breve (12 articoli), l’italiano usato relativamente comprensibile… e quest’ultima è già una notizia, visto il groviglio di richiami – sempre criptici – cui siamo stati abituati in passato.
Il testo è suddiviso in quattro parti: le prime due, maggiormente corpose, sono dedicate a precariato e delocalizzazioni (apprezzabilmente intese in senso lato), la terza alla piaga del gioco d’azzardo, mentre la quarta è un fritto misto.
Il Titolo I (artt. 1-3) è incentrato sul contrasto del fenomeno al precariato, oggi onnipresente e multiforme.
L’articolo 1 conferma la durata massima dei rapporti a tempo determinato (36 mesi), aggiungendo però che – in assenza di specifiche esigenze legittimanti il successivo rinnovo (co. 1, lett. b) – essa non può eccedere i 12 mesi. In pratica può essere stipulato liberamente un primo contratto a tempo determinato di 12 mesi, rinnovabile a condizione che a) vi siano esigenze temporanee e oggettive, estranee all’attività di lavoro o sostitutive (cioè: vi siano nuove attività extra da svolgere per un periodo ristretto oppure si tratti di sostituire un dipendente assente per giustificato motivo, ad es. la maternità), b) si sia di fronte a un temporaneo (ed inatteso) incremento dell’attività produttiva oppure c) si verifichino picchi di attività (attesi) connessi ad attività stagionali. Logica impone che le tre tipologie di esigenze vengano considerate alternative fra loro, non cumulative (anche se la previsione non è chiarissima sul punto per come risulta redatta).
Il carattere “rivoluzionario” della novità consiste nel suo essere… un parziale ritorno al passato: le c.d. causali esistono da quando esiste un diritto del lavoro degno di questo nome e, non a caso, la loro abolizione è stata attuata (con L. 78/2014) dal governo iperliberista presieduto da Matteo Renzi. Non si tratta, tuttavia, di condizioni particolarmente gravose per la parte datoriale: a ben vedere, esse subordinano il rinnovo di un rapporto a termine al sussistere di esigenze effettivamente temporanee, riconducendo l’istituto verso il suo alveo naturale, e sono sufficientemente “ampie” da consentire una certa libertà di manovra. Parziale ritorno al passato, dicevamo: la macchina del tempo si ferma a 4 anni fa, visto che la Riforma Fornero, di poco precedente, aveva escluso la necessità di causali per il (primo) contratto stipulato per un periodo non eccedente i dodici mesi.
Altra piccola novità (co. 2): l’apposizione del termine deve risultare direttamente (non più anche “indirettamente”) da atto scritto e, a partire dal primo rinnovo, l’atto deve indicare espressamente le esigenze sopracitate. L’atto scritto non occorre per i rapporti brevissimi (fino a 12 giorni).
Diminuisce (di un’unità) il numero massimo di proroghe consentite, mentre opportunamente si allunga il termine a disposizione del lavoratore per l’impugnazione nell’eventualità in cui le norme siano violate a suo danno.
L’articolo 2 equipara sotto il profilo del trattamento normativo il c.d. lavoro interinale al tempo determinato dipendente, la cui disciplina era prima applicabile “in quanto compatibile” (e con una pluralità di eccezioni e deroghe, senz’altro peggiorative per il prestatore).
L’articolo 3 penalizza invece lievemente il datore che faccia ricorso al tempo determinato, gravandolo di un contributo addizionale – rispetto chiaramente alle assunzioni a tempo indeterminato – pari all’1,9 per cento della retribuzione imponibile ai fini previdenziali (la soglia della Fornero era 1,4%, perciò si potenzia una norma già esistente; i proventi sono destinati al finanziamento dell’indennità mensile di disoccupazione detta NASpI).
La disciplina contenuta nel Titolo I si ispira al principio del tempus regit actum, si applica cioè ai contratti di nuova sottoscrizione e ai rinnovi dei contratti già in essere.
Conclusioni: l’inversione di rotta è appena un accenno, anche se restituisce al contratto flessibile la sua natura eccezionale di istituto legato a specifiche necessità transeunti. Renzi, non contento di aver reso precario ogni rapporto sopprimendo la reintegra, aveva invece fatto di tempo (pseudo)indeterminato e determinato due gemelli siamesi, a tutto svantaggio della classe lavoratrice: d’altra parte, era lì per compiacere i suoi sponsor.
Il Titolo II (artt. 4-7) contiene il primo tentativo di contrasto alla mala pratica delle delocalizzazioni dettate da mere finalità di profitto economico (cioè quasi tutte). L’art. 4, co. 3, abroga due norme che prevedevano un obbligo di restituzione del solo contributo ricevuto dall’azienda in caso di delocalizzazione al di fuori dei confini della UE; la nuova disciplina è assai più generale e introduce contromisure che paiono a chi scrive adeguate (si vedano alcuni miei scritti precedenti in cui teorizzavo il concetto di “danno sociale”). L’articolo 4 stabilisce, in effetti, non solamente l’obbligo a carico delle imprese di restituire quanto ottenuto in caso di delocalizzazione (anche parziale o mascherata) in Paesi esteri – pure appartenenti alla UE – “entro cinque anni dalla data di conclusione dell’iniziativa agevolata”, ma prevede pure una dissuasiva sanzione (da 2 a 4 volte il valore dell’aiuto) oltre a maggiorare l’interesse (fino al 5% in più rispetto al tasso ufficiale) sull’importo che il beneficiario deve rimborsare. Il credito nei confronti dell’impresa è opportunamente assistito da un privilegio mobiliare (co. 2), anche se sarebbe stato opportuno collegare il trasferimento economico alla costituzione di un’ipoteca o alla prestazione d’una garanzia di natura fideiussoria.
L’articolo 5 riguarda un fenomeno (all’apparenza) diverso: quella dell’impresa destinataria di benefici legati al mantenimento dei livelli occupazionali. Se questi ultimi vengono ridotti nel quinquennio successivo all’erogazione le amministrazioni pubblica hanno facoltà di revoca (totale o parziale), una volta individuate – a monte – le condizioni per attuare la stessa. Dalla lettura del testo si evince che la revoca non è automatica, ma andrà ricollegata a situazioni da cui emerga l’intento imprenditoriale di profittare della situazione. Il comma 3 si occupa dell’ipotesi in cui l’aiuto sia slegato al mantenimento dei livelli occupazionali, e consente la revoca allorquando la riduzione di personale lasci presagire l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi in vista dei quali l’incentivo è stato concesso. Qui non c’è delocalizzazione, ma il risultato per i lavoratori è lo stesso – e si chiama licenziamento.
L’articolo 6 riguarda il c.d. iper ammortamento dei beni strumentali: i benefici fiscali elargiti vanno recuperati (attraverso il meccanismo tributario) se i beni oggetto di sostegno vengono ceduti a titolo oneroso o destinati a strutture produttive situate all’estero, anche se appartenenti alla medesima impresa (meglio sarebbe stato scrivere “gruppo”). Si tratta pur sempre di una delocalizzazione (riguardante i soli beni produttivi), anche se considerata meno grave e non sanzionata. Resta da capire se la formula di cui al comma 2 “i beni agevolati vengono ceduti a titolo oneroso” sia collegata a “a strutture produttive situate all’estero” oppure no: la rubrica dell’articolo 6 e la ragionevolezza fanno propendere per una risposta negativa. In effetti poco cambia se un impresario vende in patria oppure all’estero beni acquisiti a prezzi di favore: il dipendente e lo Stato prodigo restano comunque fregati. L’incertezza sull’interpretazione letterale potrebbe però ingenerare letture furbesche (e quindi contenzioso, ma del tipo gradito ai padroni). La disciplina non si applica nell’ipotesi di sostituzione del bene da ammortizzare (co. 4).
L’articolo 7, infine, esclude dalle agevolazioni fiscali i costi per l’acquisto di beni immateriali da imprese appartenenti al medesimo gruppo (c.d. triangolazioni infragruppo). La ratio è abbastanza ovvia: una partita di giro non dovrebbe dar frutti succosi. C’è infine un limite generale: i crediti d’imposta per gli acquisti (effettivi, non “triangolari”) di beni immateriali si applicano solo se i beni sono utilizzati direttamente ed esclusivamente per attività di ricerca e sviluppo ammissibili al beneficio.
Il Titolo III consta del solo articolo 8 e introduce un divieto generale di pubblicità, con qualsiasi strumento di diffusione, per giochi e scommesse, con esclusione delle lotterie nazionali (lo Stato biscazziere è un’istituzione…) e degli spot che incitano a giocare responsabilmente. Le sanzioni, erogabili dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, sono abbastanza pesanti. Anche qui ci si uniforma al principio tempus regit actum.
Il Titolo IV (artt. 9-12) contiene un pot-pourri di norme eterogenee: l’articolo 9 coinvolge ISTAT e associazioni dei consumatori nell’elaborazione della metodica per la ricostruzione induttiva della capacità di spesa dei contribuenti, mentre l’articolo 11 abolisce il meccanismo dello split payment per le prestazioni rese alle PA i cui compensi risultino assoggettati a ritenute alla fonte. Il costo di quest’operazione non è al momento quantificato.
Nel complesso il Decreto sarebbe a costo zero per la Finanza pubblica.
La valutazione di chi scrive è articolata: se la battaglia contro delocalizzazioni e affini pare condotta con vigore e merita dunque apprezzamento, il contrasto al precariato resta al livello di buone intenzioni. Mi sento una tantum di concordare con l’on. Fratoianni, che rileva la “timidezza” dell’operazione ma sottolinea anche che essa segna “un passo nella direzione giusta”.
Sotto sotto l’unica ma clamorosa novità sta nel fatto che, per la prima volta da almeno cinque lustri, i diritti sociali – anziché essere compressi – vengono un tantino rafforzati: mi viene in mente la celebre frase pronunciata da Neil Armstrong al momento dell’allunaggio. E’ presto per dire se siamo di fronte ad un cambio di paradigma, considerate anche le reazioni negative al provvedimento. Quella della destra nazionale (la Lega), paladina degli interessi dei piccoli e medi produttori perlopiù “stanziali”, è piuttosto di cauta perplessità: piacciono le misure contro le delocalizzazioni, molto meno il modesto freno posto all’utilizzo del tempo determinato. Sparano invece a zero sul decreto i rappresentanti locali (PD e FI) dell’affarismo e della finanza sovranazionali, fautori di un illimitato “diritto di delocalizzare” (e pure di migrare, all’occorrenza) e di un totale asservimento dei lavoratori nel nome – si intende – di progresso, produttività e altre mirabolanti delizie. Guai allo Stato che, invece di interpretare Pantalone, provi a mettersi di traverso: suo compito è elargire denari e basta! Si tratta di critiche ideologiche, impudiche e amaramente ridicole, dal momento che la norma colpisce esclusivamente le delocalizzazioni non necessitate e truffaldine (in realtà, con la loro livida opposizione i forza-piddini ammettono senza volerlo che tutte le delocalizzazioni sono tali!) e che – per quanto concerne i contratti precari – la regolamentazione introdotta dalla Fornero non era esattamente di tipo sovietico.
Il paventato “aumento del contenzioso”, poi, è cinico sfoggio di humour nero da parte di personaggi senza scrupoli né ritegno: come si azzera il contenzioso? Semplice: cancellando i diritti, come lorsignori han sempre fatto (e sempre faranno, se sale al potere il Calenda di turno).
Ripeto: la conversione in legge del decreto potrebbe peggiorarlo, anche se non credo che Salvini abbia interesse a forzare la mano e che Di Maio sia disposto a farsi scippare un provvedimento-bandiera. Nella migliore delle ipotesi il c.d. Decreto Dignità potrebbe rivelarsi un punto di partenza: il futuro, dopo un venticinquennio di esecutivi di destra (economica), potrebbe riservarci l’inedita esperienza di un governo di… destra-sinistra, con i grillini costretti su posizioni più “estreme” di quanto desiderino dall’esigenza di tener testa all’arrembante Salvini.
Una simile evoluzione rimetterebbe in gioco parti della Sinistra – mi riferisco a quelle che alla scipita commedia dell’antifascismo permanente preferiscono il cimento con un avvenire che resta difficilissimo per noi tutti.
Per adesso lasciamo però da parte i voli pindarici e teniamoci questo dignitoso decreto.
[1] In primis la querelle sull’eventuale ripristino dell’art. 18.
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