Il piccolo Roberto Speranza oggi, su Repubblica, lascia da parte il lecca-lecca e dichiara: “La rottura nel Pd è arrivata dopo una frattura nella società italiana. Se si ha il coraggio di ricomporre questa frattura, e di ragionare di una politica di radicale discontinuità, allora anche noi dobbiamo avere il coraggio di confrontarci con il Pd”. Io dico che, se non fosse abuso di minorenne nel caso di Speranza, occorrerebbe il coraggio di sculacciarlo forte forte e non dargli più la paghetta settimanale per un mese.
E’ evidente che il Pd non tornerà mai indietro sulle politiche fatte, come cerca di far credere Robertino, che infatti si accontenterebbe di qualche micro concessione da pochi milioni sulla legge di bilancio e una mini-revisione del Rosatellum per introdurre il voto disgiunto e (ahimé) aumentare la quota uninominale. Il Pd non cambierebbe neanche se Renzi lasciasse la segreteria. Quelle politiche che il Pd ha fatto derivano dall’asse di rappresentanza di quel partito, che oramai viene votato dall’area del Paese che difende i suoi interessi dalla polarizzazione sociale sempre più drammatica. L’elettore medio del Pd non si sente di sinistra, ma già da almeno dieci anni. L’elettore medio del Pd chiede soltanto la difesa del suo status quo, ancora tutto sommato relativamente tutelato, seppur in declino.
Una ricerca recente di Cals, che riporto sotto, evidenzia le caratteristiche del blocco maggioritario di consenso dentro il Pd, quello che ha sostenuto la riconferma di Renzi, e di fatto quello che guida l’orientamento di quel partito. Tale blocco è costituito per il 65% da ultracinquantacinquenni (il 42% ha più di 65 anni). Per il 44%, si tratta di pensionati, per un altro 14% di piccoli imprenditori o professionisti. Quelli che lavorano alle dipendenze, per l’83% hanno un contratto a tempo indeterminato pre-Jobs Act. La percentuale di disoccupati è pressoché nulla, modestissima quella degli studenti (7%). Le fasce sociali difficili o a rischio di emarginazione sono pressoché assenti, prevale un elettorato relativamente più tutelato.
Si tratta di un blocco sociale tendenzialmente conservatore, che chiede la preservazione di una situazione esistente, più che un suo cambiamento. Infatti, il 50% di quell’elettorato renziano si sente di centro-sinistra, cioè chiede la riesumazione di un esperimento politico di tipo social-liberale. Un ulteriore 20% si sente politicamente di centro. Molto significativamente, solo il 13% vota per Renzi perché pensa che rappresenti un ideale. Ben il 54% lo vota per la sua leadership personale o perché pensa che possa vincere le elezioni. Il problema quindi è quello di rimanere agganciati ad un treno di potere, al fine di difendere posizioni acquisite.
Evidentemente, una simile base sociale non coglie gli elementi rilevanti del disagio sociale (che, in assenza di rappresentanza, gonfiano le vele dei populismi grillin-salviniani). Un dialogo con il Pd non può, quindi, assolvere alla missione storica di ricostruire il socialismo nel nostro Paese. Assolve ad un altro compito: prepararsi a fare un governo di larghe alleanze per dare una maggioranza al Paese, che il Rosatellum contribuisce a complicare, spingendo verso coalizioni pre-elettorali per poter vincere nella quota uninominale (che infatti il tenero Speranza propone di aumentare, al fine di sopire ogni residuo vagito di ribellione nel suo partito). Leggo questa genuflessione come una reazione alle recenti simulazioni elettorali, che evidenziano un Parlamento pressoché ingovernabile. Probabilmente Bersani, che manovra il piccolo potentino con l’obiettivo di tornare sotto la cappella di Pisapia e Renzi, avrebbe preferito un percorso più morbido di avvicinamento,
Ma il tema della governabilità non può venire prima di quello della rappresentanza sociale. Non puoi governare senza rappresentare nessuno, o casomai quel residuo di richiamo meramente affettivo ad una idea oramai defunta di sinistra di governo, che costituisce l’elettorato di Mdp. Attendo di vedere cosa farà D’Alema, perché l’adolescente lucano, con la sua apertura di credito a Renzi, lo chiama direttamente in causa. D’Alema non potrà accettare di tornare con le orecchie basse a casa-base dopo aver silurato Pisapia ed aver condotto una campagna referendaria come quella del 4 dicembre. Aspetto che gli uomini di buona volontà, che pure stanno in Mdp, si ribellino sul serio. E, si badi bene, io questo lo dico per il loro bene: un eventuale ritorno verso il Pd mediato da Pisapia, in presenza di un segretario come Renzi, sarebbe talmente punitivo da azzerarli e ridurli a meri portatori d’acqua, senza alcuna contropartita.
Ma tutto questo remue-ménage di mero posizionamento e senza spinta ideale, legato solo al cantiere di una maggioranza a-politica che sostenga l’edificio pericolante dell’establishment in una deriva sociale sempre più grave, deve indurre chi vuole ricostruire la sinistra a fare un esercizio di autonomia. Costi quello che costi. Anche se non si arriva al 3%. Ma io penso invece che un discorso di sinistra forte, indirizzato a quelli che non hanno partecipato alle primarie del Pd, ai disoccupati, ai giovani, ai pensionati al minimo, ai precari, ai working poors, che recuperi con orgoglio una idea ed un messaggio di socialismo, che porti avanti un programma autonomo, senza pensare agli schieramenti politici ma ai ocntenuti, che derivi da una analisi sociale seria, possa prendere ben più de 3%. Il tempo c’è ancora. Bisogna però lasciarsi alle spalle residui di narrazione vendoliana su diritti civili, buonismo un tanto al chilo, ambientalismo demagogico, ecc. ecc. Bisogna tornare a fare un discorso classista. Bisogna capire cosa si muove dentro la pancia della disperazione sociale. Bisogna lavorare programmaticamente su motivi unificanti e non divisivi, ed il lavoro è il motivo unificante per eccellenza. Bisogna saper usare la struttura territoriale ereditata non per fare cenette, ma per richiamare, anche con strumenti di mutualismo, partecipazione andata perduta.
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Foto:Il Foglio.it (da Google)