Il mondo moderno non può esser concepito, nei suoi fasti come nei suoi nefasti, al di fuori della visione del mondo egualitaria. L’uguaglianza, infatti, costituisce sia la forma antropologica, sia l’ambizione ultima d’una modernità iniziata nei secoli della nuova scienza e delle scoperte geografiche. Pensate: un mondo fondato su una visione gerarchico-piramidale, tenuto insieme dai due opposti poteri costituiti da quello mondano dell’Imperatore e quello sovra-mondano del Papa, un mondo che trovava a mio parere la propria simbologia più sintetica ed efficace nell’immagine della Cattedrale, si dissolve fino ad aprire un immenso spazio vuoto che l’esistenza moderna, da allora, cercherà costantemente di colmare, condannandosi a tensioni irrisolte e irrisolvibili. È proprio in questa modernità, del resto, che noi – in fondo – ancora viviamo.
All’idea e alla prassi dell’uguaglianza si lega strettamente, del resto, il mito dell’individuo – assai rapidamente diventato individualismo. Nel nostro tempo, quest’ultimo ha raggiunto livelli inauditi e non più tollerabili. L’uomo contemporaneo utilizza la tecnica e il denaro per isolarsi, e quasi blindarsi, in uno spazio astratto e globalizzato che taglia definitivamente quelle radici e quelle appartenenze di civiltà entro le quali erano nati i nostri anziani. L’uomo contemporaneo non vive più in un corpo-disposto-nel-mondo. L’homo democraticus si agita piuttosto in una città atipica e atopica (nel mio lessico: una ecity) fuori dallo spazio e dal tempo: la tecnologia ne forma le capacità percettive, gli dice che cosa deve amare e che cosa detestare, alleva i suoi desideri, lo proietta in mondi lontanissimi, proprio mentre oblitera totalmente il volto del vicino. Vediamo così affermarsi una città in cui è protagonista assoluto l’elove, l’ebay, l’email, l’ebook, l’euniversity, l’enews, l’estore. I luoghi architettonici segnati dall’appartenenza umana risultano sempre più vuoti e sono pressoché scomparsi gli spazi politici di aggregazione che costituivano l’essenza stessa della politica occidentale: la piazza si è dissolta insieme ai partiti di massa e agli apparati ideali stabili. Ciò che invece appare sempre più sovraffollato, ora, sono i luoghi di transito: aeroporti, percorsi urbani di intercomunicazione, server elettronici, spazi terrestri e marini intessuti di imbarcazioni in rotta verso l’altrove.
La città occidentale (la megalopoli moderna) è rovinosamente finita nel disastro delle periferie. Le nostre metropoli appaiono costruite ormai, urbanisticamente, intorno a vere e proprie mostruosità: centri storici ad uso turistico, svuotati di contenuto vivente e con una storia fabbricata ad arte, si contrappongono, infatti, a periferie dequalificate in quanto luoghi/dormitori, esposte a costruzioni oscene e totalmente disumane, abbandonate al degrado e allo squallore estremo nel quale lo spaccio di stupefacenti segna il triste contrappunto all’esistenza di milioni di vite considerate superflue e di cui non vale più la pena, politicamente, di occuparsi.
In questo quadro, tuttavia, la nostre ambizioni di vita non sembrano affatto ridimensionate: anzi, per molti di noi, mai come oggi, si è raggiunto un livello di civiltà e di progresso pari alle immense capacità di librarci, ad ogni istante, nei cieli di possibilità tecno-antropologiche fino ad ieri insperabili. Da parte mia, invece, sono convinto che la ecity che stiamo costruendo sia del tutto, e letteralmente, “campata in aria”: essa non ha alcun fondamento reale, né solidità alcuna. Di conseguenza, non potrà che esser spazzata via al primo alito di vento (o click di mouse)…
Periferia di Parigi Foto Keblog – da Google