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Domani, 9 ottobre, ricorre il cinquantenario della morte o meglio, dell’assassinio, di Ernesto “Che” Guevara.
Abbiamo pensato che il modo migliore, non retorico ma politico, per ricordare la figura di quello che è stato uno dei più grandi rivoluzionari di tutti i tempi, fosse quella di pubblicare un’analisi politica, naturalmente attualizzata, sul suo lavoro e sulla sua opera. Abbiamo scelto questo articolo del sociologo e analista marxista, James Petras, per ovvie ragioni particolarmente rivolto al contesto latinoamericano.
Ci sentiamo solo di aggiungere che, al di là dei differenti e legittimi punti di vista politici che possono esserci sull’opera del “Che”, figure come la sua, in quest’epoca di “passioni tristi”, costituiscono e costituiranno per sempre un esempio luminoso per tutti noi e per le generazioni a venire.
La redazione de L’Interferenza
“Per discutere l’importanza attuale del pensiero e della pratica di Che Guevara, bisogna distinguere tra la sua politica rivoluzionaria, da un lato, e la sua applicazione tattica particolare come “lotta armata” o, più esattamente, come guerra di guerriglia rurale dall’altro.
Tale distinzione è importante perché il Che è stato, prima di tutto, un soggetto e un teorico rivoluzionario, anche quando non partecipava al combattimento armato. Essa inoltre serve ad analizzare i diversi livelli del pensiero e della pratica del Che e presenta vari aspetti. Primo: la sua analisi generale della struttura di classe, del ruolo dell’imperialismo, delle alleanze politiche, delle esperienze storiche, della correlazione di forze a livello nazionale, regionale e internazionale. Secondo: il pensiero e la pratica rivoluzionaria del Che abbinavano un’analisi critica dell’imperialismo e del capitalismo a un impegno attivo e a riflessioni sulla costruzione del socialismo. Terzo: il pensiero e la pratica rivoluzionaria del Che concepivano il socialismo come parte di un ordine mondiale nuovo, in cui i paesi imperialisti agivano su scala mondiale per distruggere ogni rivoluzione, il che, a sua volta, costringeva i rivoluzionari a cercare appoggio e a estendere la rivoluzione a livello internazionale.
Tra la posizione tattica del Che sulla guerra di guerriglia e la sua analisi generale del capitalismo, dell’imperialismo e del socialismo vi sono i suoi punti di vista sull’etica e la pratica politica, sul rapporto tra organizzazioni rivoluzionarie e popoli oppressi, sulle correlazioni tra rivoluzione e imperialismo e sul rapporto tra valori personali e azione rivoluzionaria.
Mi sembra che l’importanza del Che per l’attuale politica rivoluzionaria vada individuata più nella sua analisi generale della politica e nelle sue riflessioni intermedie sull’azione politica e le strutture economiche che nelle sue concezioni tattiche applicate a specifiche circostanze congiunturali. Mescolare questi tre livelli della pratica rivoluzionaria del Che, o ridurre le sue analisi a discorsi tattici sulla lotta guerrigliera o armata, significa misconoscere o sminuire la sua importanza attuale.
Dall’analisi generale e dalle riflessioni intermedie del Che possiamo ricavare un complesso di strategie e tattiche politiche e sociali e un complesso di modi organizzativi dell’azione che possono includere o meno la “lotta armata” e la guerra di guerriglia. Siccome quest’ultima è una questione tattica derivata da determinazioni contestuali specifiche e da circostanze congiunturali, la sua utilità e la sua importanza sono storicamente limitate. Pertanto, la direzione più fruttuosa è mettere a fuoco la conoscenza e la concezione rivoluzionaria del Che del capitalismo e in particolare dell’imperialismo, e le sue riflessioni intermedie sul rapporto tra soggettività e condizioni oggettive.
La dialettica dell’imperialismo e della rivoluzione: il Che contro i globalisti
Per il Che l’espansione del capitalismo su scala mondiale e la sua penetrazione, sempre più profonda, di mercati, produzione, distribuzione, banche e servizi, erano essenzialmente un fenomeno sociale e politico. I movimenti economici del capitalismo erano sostenuti dall’azione politico-militare, come premessa che creava gli “appropriati” rapporti sociali stabili di sfruttamento tra capitale e lavoro. All’interno di questo contesto sociale e politico, indotto dall’Impero, si verificavano i movimenti di capitale, si espandevano le multinazionali, investitori stranieri acquistavano le imprese pubbliche privatizzate, venivano varati i programmi di austerità del Fondo monetario internazionale (Fmi).
La descrizione del Che dell’espansione del capitalismo in primo luogo come rapporto di potere politico, si trova in forte contrasto con i teorici contemporanei che chiacchierano di “globalizzazione”. Costoro descrivono l’espansione del capitalismo come un processo universale, impersonale, irreversibile in quanto prodotto di strutture economiche.
La lettura fatta dal Che dell’espansione capitalistica come rapporto sociale e politico contrasta con i teorici globalisti contemporanei che parlano in termini di processi oggettivi. Queste diverse concezioni hanno ramificazioni politiche enormi. Individuando il potere politico come molla dell’espansione del capitale mondiale, il Che utilizza il concetto analitico incisivo di imperialismo. Al contrario, i teorici globalisti non dispongono di assi centrali ove collocare la loro categoria amorfa, in gran parte descrittiva, della “globalizzazione”.
In secondo luogo, il Che definisce l’imperialismo come rapporto sociale e politico tra le classi e lo Stato; e in tal modo rende la trasformazione soggettiva. I globalisti descrivono la globalizzazione come una struttura oggettiva che si propaga attraverso la sua logica interna e che, in ultima istanza, elimina qualsiasi azione politica o sociale di trasformazione.
In terzo luogo, il Che concettualizza l’imperialismo come un fenomeno storico contraddittorio, la cui espansione produce conflitti nazionali/di classe che portano al suo declino. I globalisti invece hanno una concezione lineare dell’espansione capitalista, che nel suo consolidamento produce un nuovo ordine mondiale. Nella sua forma estrema (e reazionaria) i globalisti concepiscono il divenire del capitalismo come un “sistema capitalistico mondiale” autoperpetuantesi, in cui gli unici cambiamenti avvengono in diversi luoghi all’interno del sistema.
Per il Che, una volta definita la posizione dei rapporti socioeconomici di sfruttamento, la soggettività è ciò che determina l’ordine sociale e il sistema economico. Nel pensiero globalista, le strutture economiche continuano a dominare la soggettività, lasciando solo piccoli spazi all’azione sociale. Per il Che le grandi questioni, il potere dello Stato, la dominazione imperialista e i rapporti di classe, permangono al centro del dibattito politico. Mentre per i globalisti contemporanei le grandi questioni sono state risolte. E l’unica politica possibile secondo loro è negoziare i termini della capitolazione di fronte all’imperialismo; essi si concentrano su dibattiti culturali riguardanti le identità formali e lo spazio sociale occupato dai vari gruppi di identità che funzionano negli interstizi del “sistema”. In una parola, mentre il Che sfida l’imperialismo mondiale a partire dal microlivello dei villaggi dell’Africa e della Bolivia, la prospettiva globalista è connessa al micromondo dei postmodernisti attraverso gli interstizi di un iperdeterminato sistema capitalistico mondiale.
La prospettiva politica del Che evoca un’immagine prometeica di esseri umani che lottano per cambiare il mondo. I globalisti contemporanei si richiamano al pessimismo di Schopenhauer riguardo le prospettive di trasformazione del capitalismo, oppure a una euforia manicheista postmoderna che enumera la proliferazione di identità diverse, tutte saldamente legate al firmamento capitalista. Il conflitto politico e teorico fondamentale oggi si da proprio tra la prospettiva prometeica del Che e il pessimismo schopenhauriano e/o la sua euforica controparte panglossiana, che pensa che noi “viviamo già nel migliore dei mondi possibili”.
L’avvicinamento all’azione politica rivoluzionaria richiede oggi la scelta della prospettiva guevariana. Il punto di partenza dell’analisi teorica e dell’azione pratica è l’analisi dei rapporti di classe e politici che puntellano l’espansione del capitalismo. Il processo di trasformazione della struttura del capitalismo o dell’imperialismo mondiale inizia dai rapporti sociali che la sorreggono a ogni livello; a partire dalle unità più basilari (la posizione del lavoro dell’economia locale) e passando per i settori produttivi e lo Stato nazionale per arrivare alle istituzioni finanziarie internazionali e agli Stati imperialisti.
Il Che: soggettività, “condizioni oggettive” e rivoluzione
Continuando su questa linea teorica e pratica, passiamo quindi al secondo contributo più importante del Che alla politica rivoluzionaria contemporanea: la centralità dell’azione umana: coscienza, organizzazione disciplinata e chiarezza ideologica.
Ai tempi del Che, il nemico principale erano gli ideologi e gli epigoni dei partiti socialdemocratici e pro-sovietici che consigliavano la passività di fronte allo “sviluppo delle forze produttive”. Essi sostenevano che i “partiti rivoluzionari” dovevano promuovere la “maturazione del capitalismo”, rinviando in tal modo l’azione rivoluzionaria a una “tappa successiva”, dato che la classe lavoratrice doveva ancora “essere formata”. A queste prospettive reazionarie o, nel migliore dei casi, “riformiste”, il Che ha mosso varie obiezioni, proponendo un’altra prospettiva.
In primo luogo ha sostenuto che il capitalismo poteva “avanzare” solo sfruttando un numero maggiore di lavoratori e mettendo in pericolo le loro stesse condizioni di esistenza. Il Che sosteneva che il capitalismo, anziché “sviluppare le forze produttive”, approfondiva le disuguaglianze e minava la capacità delle classi e delle nazioni di agire da sé stesse. In secondo luogo, il Che non vedeva alcuna ragione a priori per la quale operai e contadini dovevano aspettare o rinviare le loro azioni rivoluzionarie sociali a una “tappa successiva”, in quanto esistevano già le stesse condizioni di sfruttamento e di miseria e le esperienze collettive che facevano possibile una rivoluzione. Il problema per il Che non era di tipo quantitativo, ossia quante macchine o quanti operai ci fossero già, bensì qualitativo. L’imperialismo polarizzava le classi all’interno delle unità basilari di produzione? I rapporti classisti di sfruttamento caratterizzavano la formazione sociale? Se così era, allora la rivoluzione non solo era possibile, ma necessaria. Oggi è presente la stessa dualità di prospettiva esistente ai tempi del Che e il cambiamento ha riguardato solo i nomi e il linguaggio.
Gli attuali ideologi di centro-sinistra sostengono che in questa tappa del capitalismo globale l’opzione è tra due tipi molto diversi di capitalismo: neoliberismo (tipo retrogrado) o capitalismo assistenziale (tipo progressista). Congiuntamente al loro inserimento nel capitalismo, affermano che i compiti attuali della sinistra sono “modernizzare” l’economia, “riformare” lo Stato e “decentralizzare” il governo. Dietro queste affermazioni generali c’è il concetto dell’impossibilità della rivoluzione sociale (a causa della globalizzazione, mantra evocato in mancanza di capacità intellettuale) o che rimane in sospeso per un lontano futuro. Nel frattempo, i revisionisti contemporanei sostengono che il dovere è collaborare (“concertazione”) con la borghesia “moderna” e con l’imperialismo, per costruire un’economia competitiva, in grado di partecipare all’economia globale e promuovere il benessere del “popolo”.
Come ai tempi del Che, coloro che condividono oggi il suo pensiero rifiutano questa tesi e ne propongono un’altra basata sulle contraddizioni che emergono dal capitalismo realmente esistente.
In primo luogo fanno notare che la borghesia più dinamica e avanzata (ossia chi più attivamente investe, esporta e produce) è proprio quella che sfrutta maggiormente in termini di rapporto capitale/lavoro.
In secondo luogo, lo “sviluppo delle forze produttive”, come avviene oggi in condizioni di totale subordinazione dello stato, sta disintegrando e decentrando masse di operai e contadini (con la tecnologia, la speculazione, l’acquisto di industrie locali, le importazioni convenienti, ecc.), anziché allargare e creare una nuova classe lavoratrice unita.
In terzo luogo, la “riforma dello stato” favorita dai revisionisti significa in pratica la massiccia espulsione di impiegati pubblici dai servizi sociali e la crescente influenza di piccoli gruppi di tecnocrati specializzati all’estero (e di organizzazioni non governative, Ong) che sono al soldo o alleati dell’imperialismo, e collaborano con la classe dominante e il suo stato.
In quarto luogo, la “decentralizzazione” trasferisce la responsabilità dei servizi sociali ai governi locali privi di adeguate risorse economiche, mentre le entrate dell’erario si concentrano su un esecutivo centralizzato che finanzia i gruppi di potere economici.
A partire dalla sua critica ai revisionisti contemporanei, gli odierni seguaci del Che postulano un diverso insieme di premesse per l’azione politica.
Per cominciare, affermano che l’attuale politica elettorale non è il campo in cui realizzare il cambiamento sociale; efficace è unicamente l’azione diretta che implica la mobilitazione di massa. Per sostenere questa affermazione fanno riferimento a quindici anni di pratica politica.
In secondo luogo, affermano che la povertà si sta approfondendo e che la crescente disuguaglianza tra lavoratori e contadini sfruttati e dislocati abbisogna della solidarietà di classe e non di patti sociali (“concertazione”) con gli sfruttatori. Anche ciò si basa sulle recenti esperienze storiche e su osservazioni empiriche.
In terzo luogo, mettono in evidenza il conflitto di classe all’interno della società civile (tra proprietari terrieri e lavoratori rurali, tra esecutivi corporativi e lavoratori salariati, ecc.) e la centralità dello stato nel partecipare al progetto neoliberista. Rifiutano l’idea di una “società civile” virtuosa e omogenea e di uno Stato populista cattivo.
In quarto luogo, gli odierni rivoluzionari sostengono che l’azione politica deve essere strutturata, organizzata e orientata da una educazione politica. Si oppongono tanto alla spontaneità quanto ai patti elettorali verticistici ed elitari.
La lotta attuale tra revisionisti e rivoluzionari riflette i contrasti tra il Che e i suoi antagonisti. Chi sono allo stato attuale i “seguaci” della pratica rivoluzionaria del Che? Come ho già detto, la questione non si risolve in modo decisivo contando il numero di armi (equazione militare), ma cercando di capire le politiche e le pratiche che guidano le nuove organizzazioni sociali rivoluzionarie.
Possiamo cominciare con il Movimento dei lavoratori rurali Senza Terra (Mst) in Brasile, la Federazione nazionale contadina in Paraguay, l’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) in Messico, le Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc), il Sindacato contadino e settori dei sindacati minerari in Bolivia, la Federazione indigena e contadina in Ecuador, il Cuc in Guatemala, l’Adc in Salvador, la Forza rivoluzionaria nella Repubblica Dominicana.
Ciò che distingue questi gruppi rivoluzionari dai revisionisti non è la questione delle armi, bensì il contenuto e lo stile politici. Ciò che unisce questi gruppi a Guevara è la prospettiva politica comune, l’analisi politica comune e il punto di partenza comune per l’azione politica: i rapporti sociali di produzione; se, come ritengono, la soggettività è il motore centrale della storia, allora la soggettività ha bisogno di venire espressa in forme disciplinate e organizzate, e il punto centrale della politica è la liberazione dei contadini e dei lavoratori attraverso la loro stessa azione diretta, non già ad opera di élites elettorali separate dalla lotta quotidiana. Ciò non vuol dire che queste forze rivoluzionarie non partecipino alla politica elettorale o che non cerchino appoggio nei partiti elettorali vicini alle loro posizioni politiche. Ma vuol dire che la politica elettorale e le alleanze multiclassiste sono subordinate alle politiche di azione diretta e alla loro agenda programmatica.
Si potrebbe obiettare che questa analisi “diluisce” l'”essenza” rivoluzionaria del pensiero del Che in quanto fa riferimento a gruppi differenti aventi strategie diverse, impegnati in formazioni non militari.
Nei confronti di tale critica va sottolineato che la premessa fondamentale del nostro lavoro è che il pensiero e la pratica del Che sono poliedrici, complessi e, in taluni casi, anche determinati contestualmente. Il Che era fortemente cosciente della variazione storica e delle realtà oggettive, ma nello stesso tempo ha commesso, in casi particolari, errori tattici. Anziché diluire il pensiero e la pratica del Che, questa interpretazione espande e incorpora il suo pensiero politico in un ambito più allargato, rifiuta il punto di vista riduzionista militarista a favore di una comprensione teorica più ampia che spiega la ragione per cui la maggioranza dei movimenti politico-sociali sopra elencati vedono se stessi come eredi della teoria e della pratica del Che.
Internazionalismo: il Che e i movimenti attuali
Mentre il Che iniziò a partire dalla prospettiva internazionalista della Rivoluzione cubana, quindi si spostò verso un’area specifica di azione, nazionale se non locale, gli attuali movimenti rivoluzionari partono da una base solida a livello regionale o locale e si muovono verso una prospettiva nazionale o internazionale. Mentre il pensiero internazionale del Che ha determinato la sua pratica locale, gli odierni movimenti politico-sociali agiscono localmente e pensano internazionalmente. Il risultato è che da un lato il Che possedeva una lucida comprensione della natura delle politiche imperialiste e una profonda perspicacia degli effetti moltiplicatori delle rivoluzioni e della vulnerabilità strutturale dei suoi avversari, mentre dall’altro era tatticamente debole e meno lucido riguardo i luoghi specifici dove cominciare l’azione.
Al contrario, i movimenti rivoluzionari attuali posseggono una grande capacità di comprensione delle condizioni locali, ivi compresa una conoscenza profonda delle strutture del potere nazionale e regionale, delle rivendicazioni particolari e delle capacità organizzative delle classi sfruttate. Ma si trovano ancora nella tappa iniziale di formulazione di una strategia internazionalista.
Una sintesi delle forze pratiche e teoriche dell’analisi internazionale di Che Guevara e delle pratiche locali dei movimenti rivoluzionari attuali potrebbe fornire capacità organizzative, tattiche e strategiche volte a creare le condizioni per una trasformazione socialista del capitalismo.
Etica e politica
L’etica e la politica costituiscono un altro settore in cui l’analisi di Che Guevara è importante e determinante per l’attuale politica rivoluzionaria. Essa presenta vari aspetti: in primo luogo, il modo di combattere la distanza (gerarchia) tra base e dirigenti. In secondo luogo, l’idea di combattere la struttura burocratica e i privilegi dei dirigenti nei confronti della base. In terzo luogo, la pratica di impegnarsi nel lavoro e nella vita quotidiana della gente esercitando la loro autorità in posizione di supremazia. In quarto luogo, impegnarsi in mezzi compatibili con i fini. In quinto luogo, insegnare dando l’esempio, non già attraverso mandati o imposizioni.
Le pratiche etiche non sono concetti idealistici separati dall’esistenza materiale. Il materialismo storico contiene sia le norme di azione che la stessa pratica. Un punto di vista materialista storico che tenga conto dell’importanza politica e dell’influenza che Che Guevara continua ad avere sulle attuali politiche rivoluzionarie richiede l’esame del suo concetto di “etica” della politica.
La vita privata del Che è stata austera: la sua influenza politica non consistette nell’accumulo di ricchezza e privilegi. Non c’è stata nessuna “pignatta” sandinista nella sua vita rivoluzionaria. La rivoluzione consisteva negli avanzamenti sociali di classe nel loro insieme, non nella crescita individuale.
Quanto era minore la distanza materiale tra dirigenti e base, tanto più possibile era che entrambi condividessero gli stessi problemi e che i dirigenti rispondessero agli stessi bisogni e problemi della maggior parte della popolazione. Quanto minore era la distanza materiale e tanto maggiore era la possibilità di prospettive condivise, tanto minori erano allora gli ostacoli per la comunicazione e il rapporto diretti, e minore era anche la probabilità che il movimento potesse attrarre a sé opportunisti interessati a usare la politica come trampolino di lancio per una carriera redditizia.
Oggi la pratica del Che di condividere le condizioni materiali è seguita da tutti i nuovi movimenti rivoluzionari più importanti. I dirigenti del Mst in Brasile, dei cocaleros in Bolivia, della Federazione contadina in Paraguay vivono in abitazioni, mangiano e si vestono in modo molto simile a quelli della maggioranza di coloro che li appoggiano. Le gratificazioni della dirigenza non consistono in ricompense materiali o in privilegi, bensì nel creare e migliorare le possibilità della loro stessa vita in modo uguale a quello dei militanti del movimento. Una buona dirigenza viene ricompensata con il rispetto e con il riconoscimento dell’autorevolezza delle basi.
Il Che ha lottato costantemente contro strutture e metodi “burocratici”, combattendo per un’organizzazione efficiente ed effettiva, portando i quadri a lavorare fisicamente e praticamente, abituando ed educando la gente comune ad adempiere ai loro doveri. La lotta antiburocratica non era spontanea. Esigeva disciplina e strutture che permettevano sforzi supplementari e iniziative individuali.
Gli attuali movimenti rivoluzionari più interessanti sono fortemente organizzati; ciò nonostante, consentono iniziative locali e regionali per il raggiungimento di obiettivi e interessi comuni. Il Mst, ad esempio, è un movimento organizzato, disciplinato, con una dirigenza nazionale il cui scopo è la realizzazione di una riforma agraria profonda. Mentre la dirigenza nazionale si incarica della direzione generale, le organizzazioni regionali stabiliscono le occupazioni di terre, la resistenza e la produzione. E le cooperative locali decidono la loro organizzazione interna e la loro politica.
Il Che era un partigiano convinto del lavoro produttivo; dell’unione di lavoro intellettuale e manuale quale elemento chiave per capire le preoccupazioni e i problemi quotidiani della gente. Concepiva il lavoro volontario come un elemento importante nello smantellamento di prospettive di casta tra professionisti e intellettuali, per mostrare come veniva generato il plusvalore che consentiva l’attività culturale. Più in particolare, il Che concepiva questa pratica come il mezzo per creare legami tra lavoratori mentali e manuali, per evitare il sorgere di una Nuova Classe basata sulla superiorità degli intellettuali.
Oggi i nuovi movimenti rivoluzionari sono impegnati in una lotta simile; reclutano intellettuali che possano servire il movimento senza trasformarsi in avanguardie autoproclamate. Uno degli aspetti maggiormente conflittuali a questo proposito è la lotta tra professionisti delle Ong e dirigenti popolari dei movimenti sociali rivoluzionari. In molti casi, i professionisti delle Ong frammentano i movimenti, li mettono sotto la loro tutela o li sollecitano a progetti apolitici, indebolendo in tal modo il loro programma politico rivoluzionario. I movimenti rivoluzionari insistono nello stabilire il programma di lavoro, nel definire le loro necessità e nell’invitare gli intellettuali a sviluppare la lotta nei termini decisi dai dirigenti popolari. Alcuni intellettuali accettano, molti si ritirano.
Moralità personale e politica sono connesse nella pratica del Che. Nella Sierra Maestra aveva proibito ai suoi compagni di utilizzare la tortura per ottenere informazioni da una spia che lavorava per la polizia segreta. Diceva che l’uso della tortura avrebbe sconfitto lo scopo della rivoluzione che consisteva nell’abolire il comportamento inumano. E diceva anche che la pratica della tortura avrebbe corrotto i rivoluzionari che la praticavano. Allo stesso modo il Che liberava spesso soldati semplici fatti prigionieri durante la guerra rivoluzionaria, riconoscendo che anche loro erano vittime del sistema. Soltanto i torturatori e gli ufficiali che avevano commesso crimini di sangue subivano esecuzioni sommarie.
La convinzione del Che era che le organizzazioni rivoluzionarie dovevano impegnarsi in attività e creare rapporti che avrebbero prefigurato la società nuova. La sua concezione dell'”Uomo nuovo” era basata sull’idea che quello che si fa oggi, e come si fa, configurano ciò che sorgerà in futuro. Non era d’accordo con i sovietici che stabilire incentivi o stimoli economici per incentivare la gente avrebbe creato una società comunista. Al contrario, vide giustamente che dietro la facciata della proprietà dello stato i sovietici stavano creando una mentalità capitalista. In tal modo il Che anticipò con lucida previsione il collasso del comunismo sovietico e il sorgere repentino dell’ideologia capitalista. Come dicevano lui e Fidel Castro, “non si può costruire il comunismo facendo balenare negli occhi della gente il dollaro”. Questo non vuol dire che il miglioramento delle condizioni materiali non fosse essenziale nella visione del Che.
Ma ciò che sosteneva era che il modo per raggiungere gli obiettivi (lotta collettiva per miglioramenti collettivi fondati su uno sforzo uguale) era tanto importante quanto il risultato: i miglioramenti materiali.
Molti movimenti rivoluzionari contemporanei in America Latina esprimono oggi le stesse idee. I movimenti lottano abbinando ai mezzi etici il conseguimento di fini giusti. Non costringono i loro membri a darsi un modo unico di organizzazione sociale dopo l’espropriazione della terra. Educano e lasciano quindi alle famiglie la scelta. Consultano i loro membri in assemblee organizzate e non c’è nessun capo illuminato che decida in nome della gente. Naturalmente questa regola non è sempre seguita. In qualsiasi movimento di massa ci sono individui che, a volte, si comportano in modo egoista cercando di ottenere dei privilegi a spese di altri. Ci sono dirigenti che non accettano la critica. Ma queste sono deviazioni ben riconoscibili, non già la regola che guida la condotta, come invece succede con i codici capitalista o stalinista.
Insegnare attraverso l’esempio era il principio-guida del Che. Nel suo ruolo attivo nella lotta guerrigliera ha sofferto le stesse privazioni e subito le stesse difficoltà, ha affrontato gli stessi rischi e non ha mai chiesto favori speciali, malgrado il suo serio impedimento fisico (l’asma). Di fatto si è impegnato allo stremo, lavorando più a lungo e dormendo meno, ed era molto critico dei suoi errori e dei suoi sbagli. Il suo stile pedagogico consisteva nel fondare l’apprendimento sull’osservazione di ciò che si faceva e non soltanto di ciò che si diceva. Troppo spesso le masse perdevano fiducia nelle idee a causa d’un doppio discorso, ovvero della discrepanza tra ciò che un dirigente diceva o prometteva e il modo reale in cui viveva e praticava la politica. Il Che credeva che la fiducia fosse essenziale nell’educazione di un movimento popolare e nella costruzione di un’organizzazione basata su una condotta legata ai principi. Per ciò riteneva che i dirigenti dovessero insegnare dando l’esempio.
I dirigenti rivoluzionari di oggi applicano gli insegnamenti del Che: durante le riunioni mangiano gli stessi cibi, dormono sullo stesso letto o amaca, viaggiano nello stesso tipo di autobus, si impegnano nello stesso tipo di pratica o di lavoro. Quando parlano a favore dell’occupazione di terre sono in prima linea, non nel quartier generale della capitale emettendo bollettini stampa e rilasciando interviste alla televisione.
Il successo dei nuovi movimenti rivoluzionari è in parte il risultato della pratica dell’etica e della politica articolate dal Che. L’ammirazione popolare e l’emulazione è basata sull’identica convinzione che le basi materiali della nuova società si costruiscono a partire dai valori dell’egualitarismo, della responsabilità personale e del rispetto reciproco.
Il Che e le tattiche della lotta armata
Probabilmente il campo in cui il contributo del Che è oggi di minor importanza è quello della tattica militare. La sua vittoria guerrigliera a Cuba era dovuta in larga parte alla pre-esistente organizzazione di massa nelle città, alla politicizzazione storica dei contadini di certe regioni e al genio strategico di Fidel Castro. L’esperienza del Che in Congo e in Bolivia si può definire in buona parte come sforzi infruttuosi per avviare una lotta per il potere.
Ciò non significa che la lotta armata non sia stata una strategia vincente (Vietnam, Nicaragua, Cuba, Cina, Mozambico, ecc.), e nemmeno che non esistano oggi importanti movimenti popolari armati (Farc in Colombia, Ezln in Messico, la Afld di Kabila nello Zaire ecc.). Piuttosto, su questo terreno bisogna fare attenzione a distinguere ciò che è importante negli scritti e nella pratica del Che e ciò che è storicamente aneddotico.
In primo luogo il Che ha descritto dettagliatamente le condizioni in cui la lotta armata è necessaria: la dittatura (la Cuba di Batista, la Bolivia di Barrientos), le invasioni imperialiste (Vietnam, Guatemala), dittatori coloniali/neocoloniali (Congo, Zaire). Qualcuna di queste condizioni è presente oggi in alcuni paesi dell’America Latina (Perù, Colombia, Messico). In America Latina, ad esempio, la Colombia, malgrado la sua facciata elettorale, è uno stato terrorista, in cui gli squadroni della morte e i militari governano vaste regioni del paese. Il Partito rivoluzionario istituzionale (Pri) del Messico è una dittatura di partito-Stato che assassina rivali e ruba le elezioni. Il Perù è governato da una dittatura civico-militare. In secondo luogo, il Che riconosceva i limiti della democrazia capitalistica e negò che la borghesia potesse accettare soluzioni elettorali che fossero contro i suoi interessi fondamentali di proprietà; o, nel caso dell’imperialismo, l’accettazione di democrazie che fossero contro i suoi investimenti, la riscossione del debito e le opportunità del mercato. A questo livello la posizione del Che anticipò l’abbattimento statunitense-militare del governo di Allende democraticamente eletto.
Queste osservazioni del Che hanno fornito il supporto della sua prospettiva della lotta armata, e oggi continuano a essere aperte al dibattito e alla discussione.
Ciò che è di minore importanza è la sua concezione del rapporto tra lotta armata e movimenti popolari di massa. Anche a Cuba il Che fraintese e sottostimò l’importanza cruciale della lotta urbana e delle sue reti di appoggio, un punto di cui infine si rese conto durante il suo sforzo fallito in Bolivia, quando queste ultime non funzionarono.
La selezione delle aree di lotta fatta dal Che, e la sua analisi dei rapporti specifici di forza nei luoghi di azione, in Congo, in Bolivia, in Argentina e in Perù, si rivelarono piuttosto imprecise. La sua dipendenza da fonti di informazione di seconda mano e le sue valutazioni complessive riflettevano una metodologia inadeguata. La sua idea della soggettività della popolazione locale e della distribuzione fisica dei gruppi guerriglieri non fu giusta. In poche parole, cercò di formalizzare un metodo di guerra di guerriglia (basato sui presupposti erronei di Cuba) e lo estrapolò applicandolo a un altro insieme di paesi. Il metodo era sbagliato e le conseguenza furono fatali.
In questo senso, i movimenti rivoluzionari attuali hanno un enorme vantaggio tattico e una grande esperienza per completare e trascendere l’insegnamento rivoluzionario del Che. Detto in altri termini, può e deve esservi un dialogo critico e creativo tra il pensiero vivo del Che Guevara, la sua acuta analisi complessiva, le sue riflessioni critiche sulla teoria e la pratica e i nuovi movimenti rivoluzionari dell’America Latina, le loro pratiche avvedute e le loro prospettive strategiche creative”.
James Petras
(Professore al dipartimento di sociologia dell’Università pubblica di New York e collaboratore di Le Monde Diplomatique)
(Traduzione di Roberto Bugliani)