Foto: thingliink.com (da Google)
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Nel difficile vivere del quotidiano, nell’impolitico svuotato presente, nell’attuale smemoratezza, nei terreni fiumi del comune smarrimento appaiano imperscrutabili granelli di sabbia, però indispensabili a costituire la spiaggia della nostra memoria.
Granelli di sabbia che fermano la ruota della storia, e il ricordo che non si spegne, radici che resistono, dischiudendosi orizzonti.
Camminando a ritroso, il calendario incendiato dell’ieri del 27 agosto 1927, quando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti salirono, innocenti, sulla sedia elettrica nel penitenziario di Charlestown, vicino a Boston, stato del Massachusetts. Sacco e Vanzetti agonizzarono nel “braccio della morte fatto di sbarre, inferriate, senza feritoie, chiusure di chiavistelli, con i volti anneriti dal buio, per ben sei anni dopo la sentenza del 14 luglio 1921.
La giustizia yankee di classe era compiuta.
L’orologio marcatempo segna che sono passati novanta anni da quel giorno, ma per chi non si lascerebbe più decantare dalla ricorrenza degli anniversari e a leggere libri di storie passate, andrei a citare Albert Einstein: “Tutto dovrebbe esser fatto per mantenere vivo il tragico caso di Sacco e Vanzetti nella coscienza dell’umanità”.
La stampa borghese, pregnante di cultura ufficiale e dominante non ha divorato carta e parole, facendo passare quasi sotto silenzio il 90° anniversario dall’assassinio “politico” di Sacco e Vanzetti.
In controtendenza il quotidiano “Il Fatto Quotidiano” ha fatto finire sui loro fogli la storia di ingiustizia di Sacco e Vanzetti e iniziare nella mente di chi legge, e intrecciare memorie per restituirle ai posteri.
Il compito di fissare nero su bianco su Sacco e Vanzetti è stato assegnato dal quotidiano anche a un “professionista del diritto” il giudice, oggi in pensione, Gian Carlo Caselli.
Non mi accoderei al coro degli osanna per il Signor giudice, neanche per questo articolo, che allego. Ho sentito la necessità di opporre resistenza e volontà di reagire ai fatti della storia calpestati dal Signor Giudice, usando il buldozzer del suo scrivere a favore della classe a cui appartiene.
Signor Giudice, credo che non si possa incendiare la storia e scappare nel fumo, sperando che i nostri ricordi così non siano più raggiungibili per riportarli alla luce.
Sui titoli di coda Signor giudice la sua scrittura è come un morso rabbioso, urli nelle vene, mozziconi di frasi e schizzi di fango che bruciano gli occhi nei fangosi fondali della storia, che riporterei : – per Sacco e Vanzetti non c’è stato l’oltraggio dell’amnesia, come invece (purtroppo) si è verificato per tante altre delle infinite vittime innocenti della violenza totalitaria (nazifascista, stalinista, terrorista, stragista, e via elencando).
Signor giudice “ma che ci azzecca” la violenza “totalitaria”(?) con l’assassinio dei due anarchici proletari italiani?
Non fu giustizia di classe quando l’accusatore Frederick Katzmann proclamò: “Se anche non fossero colpevoli di assassinio sono colpevoli di socialismo!”
Signor giudice, però nel suo andare oltre come un rullo compressore, mi permetterei di ricordare il ruolo che ebbe l’Unione Sovietica nella tragica vicenda di Sacco e Vanzetti, riportato nel libro “Sacco e Vanzetti” pubblicato in Unione Sovietica, segnalato da un articolo dell’agenzia di informazione “Sputnik Italia”.
In tutta l’Unione Sovietica, dopo il verdetto di colpevolezza di Sacco e Vanzetti, ci furono un ondata di proteste, imponenti mobilitazioni e manifestazioni spontanee in cui partecipanti votarono le risoluzioni in difesa dei condannati.
Il 23 agosto 1927, giorno in cui Sacco e Vanzetti furono assassinati, alle manifestazioni di protesta svoltesi nelle fabbriche di Mosca parteciparono più di centomila persone.
Signor giudice, dimenticando per un momento il suo assetto di guerra, ricorda giustamente che l’anarchico Italiano “Andrea Salsedo fu scaraventato giù dal 14° piano di un ufficio di polizia” il 3 maggio del 1920, non segnalando però la trasparente corrispondenza con il fragore dello schianto di Giuseppe Pinelli, da una finestra di un ufficio della Questura di Milano, il 15 dicembre del 1969.
Un cadavere sul marciapiede mostra col dito il poliziotto.
Paul Eluard
Dario Fo non dimenticò l’umana parola nella loro storia che rimane, nella sua rappresentazione teatrale “Morte accidentale di un anarchico”.
Nella commedia, rappresentata per la prima volta nell’anno 1970, pur ispirandosi a Giuseppe Pinelli, usò il nome di Andrea Salsedo e spostò l’azione negli Stati Uniti d’America. Tutti questi accorgimenti, non furono però sufficienti ad evitare a Dario Fo di subire più di quaranta processi in vari Tribunali Italiani.
Signor giudice mi permetterei di ricordare che solo grazie a una nuova ondata di proteste, il movimento di opinione fu imponente determinando una rilettura di tutti i documenti, che spinse il governatore del Massachusetts Michael Dukakis a riconoscere ufficialmente l’errore giudiziario e l’estraneità dei fatti di Sacco e Vanzetti.
Per questo riconoscimento fu fondamentale il contributo dato dagli studenti della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Boston, che si alternarono per cinque anni allo studio delle carte processuali, dopo aver visto il film “Sacco e Vanzetti” di Giuliano Montaldo.
Il riconoscimento politico ufficiale, per quanto tardivo….50 anni dopo…, è stato importante, sebbene la revisione del processo, più volte richiesta, non è mai stata concessa.
Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti tutt’oggi per la giustizia yankee di classe sono sempre da considerare colpevoli.
Mi sono abbassato vicino alla terra, e vedo portare sulla lapide di pietra bianca, con inciso i nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, fiori di campo.
Alziamo il braccio alto verso questo cielo rosso, dalla roccia esce l’urlo che non siamo sconfitti, perché avremo ancora voglia Signor giudice di stringere pugni.
Sacco e Vanzetti, 90 anni fa l’esecuzione in cui ‘la giustizia fu crocefissa’ – Il Fatto Quotidiano