Come ho già avuto modo di spiegare in diverse occasioni, dopo il crollo del muro di Berlino il sistema capitalista a trazione americana ed europea ha messo in panchina il vecchio apparato valoriale ideologico sostanzialmente fondato sul matrimonio con la Chiesa e la religione per assumere l’ideologia politicamente corretta come sua ideologia di riferimento.
Ho già ampiamente trattato le ragioni che hanno determinato questo processo e non ci torno.
Ora, cosa sta accadendo da alcuni anni a questa parte? Sta accadendo ciò che era inevitabile accadesse. E cioè che il bombardamento ideologico-mediatico sistematico politicamente corretto ha prodotto il suo (falso) “antagonista” o meglio la sua contraddizione, e cioè il neopopulismo di destra.
Che cos’è il neopopulismo di destra e perché è un falso antagonista del sistema capitalista? Facciamo un passo indietro, o meglio una premessa.
Il processo di globalizzazione capitalista ha visto prevalere il grande capitale, in particolare finanziario ma non solo, multi e transnazionale, rispetto ad alcuni settori delle vecchie borghesie nazionali, che hanno gradualmente perso la loro egemonia politica che si fondava sul controllo e appunto sulla capacità di essere egemoni all’interno dei vecchi “stati-nazione”. Lo “stato-nazione” è stato quindi lo strumento attraverso il quale la borghesia ha esercitato per un lungo periodo storico il suo dominio e la sua egemonia sulle classi subalterne. Ma il processo di sviluppo capitalistico ha reso in una qualche misura obsoleto lo “stato-nazione”, perché considerato non più in grado di garantire al meglio gli interessi del grande capitale globalizzato, cioè della nuova “super classe capitalista” che governa e domina sul pianeta (con alcune eccezioni). L’Unione Europea, da questo punto di vista, costituisce un esempio paradigmatico in tal senso. Gli stati europei membri dell’UE, sono stati spogliati di ogni autonomia politica e di ogni forma di sovranità (con tutti i limiti e le contraddizioni strutturali che comunque avevano) e devono rispondere ad un superpotere finanziario, non eletto da nessuno, che esercita un potere decisionale assoluto su ogni aspetto della vita di ogni singolo paese membro. Tutto ciò anche quando tali decisioni, in materia economica e non solo, sono in aperta contraddizione con le Carte Costituzionali dei paesi membri. Il cosiddetto “fiscal” compact” che impone il pareggio di bilancio ai vari stati è un classico esempio di manifesta incostituzionalità di tali provvedimenti. In questo modo sia i parlamenti che i governi sono stati sostanzialmente e anche formalmente esautorati di ogni potere decisionale. I governi nazionali sono stati ridotti a meri esecutori di decisioni prese altrove – cioè nei consigli di amministrazione delle banche e delle grandi istituzioni finanziarie europee e mondiali – e i parlamenti vengono chiamati a ratificare tali decisioni.
Naturalmente, questo non significa che gli stati abbiano perso ogni loro funzione. Al contrario. Gli stati sono necessari e vengono mantenuti per assolvere alla loro storica funzione che è quella di essere degli strumenti della classe dominante. Per cui, se hanno perduto la loro autonomia politica in quanto “stati-nazione”, cioè in quanto rappresentanti e strumenti nello stesso tempo del dominio delle diverse borghesie nazionali, ora che sono al servizio di una super classe ultracapitalista multi e transnazionale, mantengono intatto il loro ruolo di gendarmi al servizio di quella superclasse. Gli stati – a partire, ovviamente, da quello americano e a seguire quello britannico, francese e israeliano (ma il discorso può valere anche per lo stato russo e quello cinese, anche se questi ultimi non possono ancora essere considerati degli stati imperialisti nel senso proprio del termine) – sono sostanzialmente degli strumenti di guerra e di controllo militare. Diciamola meglio. Sono strumenti della guerra imperialista esterna ed interna. Servono ad occupare popoli e nazioni, ad imporre manu militari l’ordine sociale e politico capitalistico e neocoloniale, e a reprimere il dissenso interno qualora se ne presentasse la necessità.
Come ho già detto, questo processo che va sotto il nome di “globalizzazione capitalista” aveva e ha bisogno di una ideologia che fungesse da coperchio per i suoi reali interessi e finalità. L’ideologia politicamente corretta, in questo caso nella sua variante “diritto umanista”, “cosmopolitista” e neo universalista, diventa del tutto funzionale sotto questo profilo, perché permette di coprire e giustificare ideologicamente la guerra imperialista permanente che non può più essere coperta e giustificata ideologicamente con il vecchio mantra della difesa della patria specie quando si va a bombardare a migliaia e migliaia di chilometri di distanza, Tornando a noi, cosa succede ora? Succede che questo processo di globalizzazione capitalista, con la conseguente formazione di una superclasse capitalista mondiale, non ha coinvolto le varie borghesie nazionali nella loro totalità, ma solo i gruppi più potenti all’interno di quelle, cioè quelli in grado di reggere la competizione ad un certo livello e quindi di entrare a far parte del gotha della superclasse di cui sopra. Questo ha fatto sì che consistenti settori di borghesia, una volta dominanti, hanno visto gradualmente ridursi la loro capacità di esercitare egemonia politica fino, in taluni casi, a perderla quasi completamente, sia pur restando, sia chiaro, in una posizione privilegiata e in molti casi super privilegiata rispetto alla piccola e piccolissima borghesia e ai ceti sociali popolari e marginali.
Desiderosa di tornare ad essere egemone e protagonista sulla scena politica, questa borghesia, intrinsecamente e oggettivamente neo reazionaria, ha rilanciato il progetto del ritorno al vecchio “stato-nazione” e del recupero della sovranità nazionale, naturalmente in un’ottica nazionalistica e interclassista dove l’ordine sociale, comunque capitalista, sia pure in versione “vetero borghese”, non è certo messo in discussione. Ora, questo progetto incontra il sostegno di larghi settori popolari e marginali i quali, ideologicamente disarmati perché sprovvisti di qualsiasi coscienza e identità politica e di classe (come era per il vecchio proletariato provvisto invece di coscienza di classe, identità e cultura), frantumati e frammentati in mille rivoli e figure sociali fra le più disparate, in una condizione di fragilità complessiva, sociale, culturale e psicologica, e in assenza di un soggetto politico di classe adeguato ai tempi e alle necessità storiche (cioè capace di interpretare la realtà e di costruire un’alternativa complessiva credibile al dominio capitalistico) che possa rappresentarli, finiscono per cedere alle sirene di quella “vetero” borghesia che promette loro un minimo margine di garanzia e sicurezza sociale, sia pure all’interno di un contesto dove essi restano subalterni. In particolare, il punto di mediazione stabilito con questi ceti popolari è costituito dall’ostilità nei confronti degli immigrati, individuati ormai, in virtù di campagne mediatiche martellanti, come la causa prima del loro disagio. Siamo, dunque, al punto più basso di quel processo che ha visto la dissoluzione della vecchia classe operaia e la progressiva trasformazione di quello che fu il proletariato in una massa di subordinati, indistinta, frammentata e soprattutto scientemente rimbecillita e abbrutita dal punto di vista culturale e ideologico. Una massa di subalterni abbacinati dal consumismo e preda della mercificazione sistematica che non sono neanche capaci di individuare i veri responsabili della loro condizione di disagio complessivo la cui sola conflittualità che sono in grado di produrre è quella nei confronti degli immigrati. E’ bene, a questo punto, chiarire un aspetto. Nella grande maggioranza dei casi, a produrre e a vivere questa conflittualità non sono tanto quei lavoratori autoctoni, anche in condizioni di precarietà, che pure si dividono il lavoro e il pane con i lavoratori immigrati e che spesso lottano insieme a questi per rivendicare i loro diritti, quanto la gran parte della piccola e media borghesia e anche di quei ceti più popolari e marginali ammassati nelle periferie e nei suburbi delle grandi metropoli. Nel primo caso quella “conflittualità” si deve a ragioni a mio parere del tutto risibili, e cioè perché quei soggetti piccolo e medio borghesi sono “infastiditi” dalla presenza di immigrati che vendono chincaglierie per le strade o sulle spiagge oppure “pretendono” di lavare i vetri delle auto ai semafori. Una sorta di fastidio psicologico, in larga parte indotto, perché l’impatto reale della presenza degli immigrati sulla loro vita è in realtà bassissimo se non in moltissimi casi pari allo zero. Nel secondo, invece, siamo di fronte ad un conflitto legato ad una sorta di possesso e controllo del territorio. Gli immigrati vengono visti come degli “invasori”, come gente che viene a sottrarre spazio vitale agli “italiani” (o a ti tedeschi, i francesi e via discorrendo…). Una sorta di conflitto (fra poveri) tribale, che oppone poveri autoctoni e poveri stranieri. E’ ovvio come, in siffatta situazione, sia stato raggiunto il punto più basso in termini di coscienza da parte delle classi sociali dominate e il punto più alto dell’offensiva ideologica raggiunto dalle classi dominanti. Quando i penultimi sono stati convinti che la ragione della loro condizione di sofferenza è data dalla esistenza degli ultimi, siamo di fronte ad un vero e proprio capolavoro realizzato dalle classi dominanti. Non solo. I ceti subordinati lo sono al punto tale da avere interiorizzato l’impossibilità di modificare la loro condizione sviluppando conflittualità nei confronti di chi gli sta sopra, finendo per scaricare la frustrazione dovuta a tale presunta impossibilità, a metà fra il consapevole e l’inconsapevole, nei confronti di chi gli sta sotto.
Naturalmente, questa conflittualità tra chi sta più in basso viene lucidamente alimentata dal versante di destra dello schieramento politico con campagne mediatiche che puntano alla criminalizzazione degli immigrati e in molti casi ad un vero e proprio incitamento alla xenofobia e all’odio razziale. Si crea così una miscela assai inquietante di insicurezza, condizione di precarietà complessiva, disagio sociale, razzismo e sentimenti xenofobi che trova appunto una sponda nelle forze di destra e di neo destra, cioè l’unica “offerta” politica (solo apparentemente) “alternativa” che si trovano oggi ad avere i ceti popolari. E’ in questo contesto che trova il suo brodo di coltura il neo populismo di destra, naturalmente favorito dal fatto che a garantire la governance sono forze liberali di “sinistra” o neo conservatrici più o meno omogenee e intercambiabili, comunque intrise di ideologia politicamente corretta.
Ragion per cui, ci troviamo di fronte ad una singolare e apparentemente paradossale dialettica politica. Il neoliberismo in salsa politicamente corretta e di “sinistra”, garante della governance per conto del grande capitale internazionale da una parte, e il neo populismo di destra venato di razzismo dall’altra, costituito da questa sorta di alleanza fra ceti borghesi reazionari nazionali e/o locali e ceti popolari e sottoproletari (comunque in posizione subalterna rispetto ai primi), questi ultimi ormai in buona parte imbevuti di ideologia fascistoide e razzista.
Naturalmente, è fondamentale sottolinearlo, queste forze populiste (e non solo quelle di destra…) non sono affatto “antisistema”, come millantano, e men che meno anticapitaliste o antimperialiste. Sono soltanto una variante del sistema che potrebbe sempre tornare utile qualora l’altra variante ideologica, cioè l’ideologia liberal e politicamente corretta, cominciasse a perdere colpi, cosa che sta già in parte avvenendo. I ceti popolari infatti, pur nella loro condizione di inconsapevolezza politica, hanno cominciato ad intuire che l’ideologia politically correct è appunto la copertura ideologica di quello stesso sistema che li impoverisce, precarizza il lavoro, attacca il welfare, la sanità e la scuola pubblica, che salva le banche dal fallimento ma non quelli che perdono il lavoro e si suicidano.
E perché il neopopulismo potrebbe rappresentare un’alternativa politica potenzialmente percorribile per il sistema dominante, cioè per il capitalismo? Perché quest’ultimo ha dimostrato di essere un sistema estremamente flessibile, capace di convivere e incistarsi in qualsiasi contesto sociale, politico e culturale. Capitaliste erano le dittature militari e clerico fasciste che hanno schiacciato il continente latinoamericano per quasi mezzo secolo per conto degli USA. Capitalista era il Sudafrica razzista, le dittature asiatiche e africane al servizio del colonialismo occidentale. Capitaliste sono ora l’Arabia Saudita wahhabita e lo stato-partito cinese. Capitalisti erano il fascismo, il nazismo e il franchismo. Il capitalismo si adatta e “sceglie” il sistema e il modello politico e ideologico che meglio possono garantire il suo dominio, in base alle circostanze e ai diversi contesti storici e culturali. Il crollo del comunismo e dell’URSS imponeva un cambio di paradigma ideologico. Non possiamo quindi escludere a priori che il precipitare delle circostanze, con il mutare delle condizioni, possa portare in un prossimo futuro le elite capitaliste a ritenere necessario un ulteriore cambiamento di paradigma ideologico e politico. Ciò che è fondamentale e che mi preme sottolineare è che in ogni caso, saremmo e siamo di fronte a due varianti dello stesso sistema di dominio (capitalista).
Solo la “sinistra”, compresa quella “antagonista”, ed è triste doverlo ammettere per quanto mi riguarda, non ha compreso che il neopopulismo di destra e di estrema destra è il prodotto speculare del “politicamente corretto di sinistra” ed è proprio quest’ultimo che ha allontanato le masse popolari dalla sinistra stessa, che la avvertono come qualcosa di lontano e di estraneo. Il paradosso vuole che oggi le forze politiche che più di altre rappresentano l’ideologia politicamente corretta attualmente dominante siano ai minimi storici dal punto di vista elettorale e numerico. Ma questo è appunto uno dei tanti paradossi della storia. Il capitalismo ha mutuato da quelle forze ciò che era utile e funzionale ai suoi interessi e queste continuano a non accorgersene e a recitare i soliti copioni. Opportunismo oppure ottusità o entrambe le cose? Difficile stabilirlo.
Giunti a questo punto, si pone il problema del “Che fare?”
E’ inutile raccontarci frottole o nasconderci la realtà. Siamo in una fase storica che una volta sarebbe stata definita di riflusso, ma anche questo è un eufemismo. La crisi e poi la fine del Movimento Operaio, e quindi di un’epoca, e di tutto ciò che da esso ne è scaturito, cioè il movimento comunista, socialista e anarchico (non hanno da tempo neanche più senso le diatribe che per decenni hanno visto queste diverse anime o famiglie in conflitto, spesso durissimo, fra loro) ha creato un vuoto spaventoso, lasciando le masse popolari e le classi subalterne alla deriva, abbandonate a loro stesse e incapaci di produrre una propria cultura e una propria identità, alle quali non resta che l’adesione al modello dominante oppure al neopopulismo.
Il più grande tentativo mai messo in campo per invertire il corso della storia è fallito e siamo ripiombati in quella oscurità abissale che ha sempre caratterizzato in tutte le epoche, con le rare eccezioni di cui sopra, l’esistenza dei subalterni, degli ultimi, dei “ciandala”, cioè la massa oscura di coloro che vivono la loro condizione come un destino ineluttabile.
Siamo soli, schiacciati in questa tenaglia che vede da una parte il neoliberismo in versione liberal e politicamente corretta e dall’altra un neo populismo aggressivo e razzista, di fatto una moderna o post-moderna versione di fascismo.
Tuttavia sarebbe sbagliato lasciarsi travolgere dal pessimismo. E’ vero, la fase storica è quella che è, e non si intravede una via di uscita, però è altrettanto vero che ce ne sono state di molto peggiori nel passato. E quelli che hanno vissuto in quelle epoche non avevano alle spalle quel grande tentativo, seppur fallito, durato un secolo e mezzo, che abbiamo avuto noi. La storia può essere rimossa, rivisitata, manipolata, deformata, ma non può essere cancellata. Ed è vero anche che la scrivono i vincitori e non i vinti. Ma nonostante ciò non può essere cancellata. E noi sappiamo che altri prima di noi, in condizioni molto più difficili, hanno tentato quel famoso assalto al cielo. E se la storia ci ha insegnato qualcosa è che quell’assalto – naturalmente in forme e modalità diverse date da una realtà sempre più complessa – verrà certamente ritentato, anche se non sappiamo ancora quando, da chi, dove e in che modo.
A noi, agli uomini e alle donne di buona volontà – mi verrebbe da dire – il compito di arare il terreno.
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