Myanmar, fra repressione militare e terrorismo wahhabita

L’occidente capitalistico ha appoggiato Aung San Suu Kyi contro la giunta militare birmana, elevandola a paladina dei diritti umani e consegnandogli il – sporchissimo di sangue – Premio Nobel per la ‘’Pace’’. Chiaramente si è trattata d’una scelta ipocrita volta a riportare una dittatura ‘’non allineata’’ nel cortile di casa; gli stessi militari birmani non hanno disdegnato stretti rapporti con Israele assecondando, nelle file dell’esercito, l’estremismo buddista ben addestrato da sicari del Mossad. Il Partito del Programma Socialista della Birmania, nonostante il nome ed un apparente patriottismo anti-statunitense, era profondamente anticomunista. La rottura con gli Usa è stata sacrosanta ed ha impedito alla nazione di finire come la Thailandia – un paradiso per il turismo sessuale – ma tutto il resto può essere definito, a dir poco, catastrofico. Per questa ragione i buddisti massacrarono i movimenti popolari e musulmani. La repressione contro i rohingya fonda le sue radici nell’islamofobia dei militari; come avrebbe potuto estirpare Aung San Suu Kyi, da poco eletta, un problema così radicato nella società, un problema antico caratterizzante la ‘’cultura dominante’’ del paese?

Perché si parla soltanto ora della repressione dei rohingya? Le ragioni sono due: (1) Aung San Suu Kyi, al pari del padre, ha ritenuto che con il servilismo atlantico non si rende indipendente il paese, quindi ha progressivamente avvicinato il suo governo di centro-sinistra alla Russia ed alla Cina. (2) I rohingya hanno wahabizzato il loro Islam, non a caso l’Arabia Saudita li ha subito appoggiati. Lo speculatore Soros ed Amnesty International seguono Casa Saud alzando la bandiera, come al solito, di una causa ‘’infiltrata’’ dal wahabismo reazionario. Domanda: Aung San Suu Kyi s’è tirata addosso le ire di Soros schierandosi dalla parte del legittimo governo venezuelano di Nicolas Maduro. Saprà tenere duro, riuscirà a non farsi corrompere?

I rohingya sono bengalesi musulmani emigrati in Birmania nel diciannovesimo secolo quando l’Impero britannico utilizzò l’Islam politico per sottomettere la regione. Il buddismo sostiene una concezione gerarchica delle relazioni sociali, le caste sono una sorta di ‘’caserma di classe’’; dall’altra parte, l’Islam politico utilizzato dall’imperialismo britannico è un’arma della borghesia compradora la quale maledice, in nome d’Allah, i rivoltosi anticolonialisti. Aung San Suu Kyi non ha altra scelta: se vuole dare un futuro alla nazione deve ‘’desionizzare’’ l’esercito ed integrare la minoranza musulmana in uno Stato sociale dinamico facendo terra bruciata ai predicatori wahabiti ed all’assistenzialismo ipocrita di Casa Saud. Aung San Suu Kyi romperà con l’imperialismo, ripercorrendo le orme del padre, oppure si rivelerà l’ennesimo fantoccio?

L’Arabia Saudita è interessata a mettere le mani sul petrolio della regione mentre la Cina ha proposto al governo birmano accordi sicuramente più vantaggiosi. Gli Emirati Arabi hanno in mano una fetta importate delle imprese edili ed il Qatar fa da mediatore fra Cina, Birmania e petromonarchie per il trasporto del metano. Tutto questo non è andato giù a Casa Saud che vuole sbranarsi una fetta d’Asia senza la concorrenza delle altre dittature del Golfo. Il governo birmano ha due alternative: (1) può diventare un referente dei monarchi wahabiti mantenendo in piedi una sorta di ‘’capitalismo casinò’’; (2) la signora Aung San Suu Kyi dimostra d’avere la schiena dritta e nazionalizza i settori strategici dell’industria, relazionandosi alla pari, con Russia e Cina.

I militari, che si dicevano ‘’socialisti’’, intrecciarono stretti rapporti con le lobby sioniste anticinesi mentre la Cina maoista appoggiò il Partito comunista fuori legge. La Cina attuale, che non ha nessun legame con quella di Mao, strapperà la Birmania dal dominio occidentale? Non è facile soprattutto perché l’imperialismo israeliano, attraverso l’esercito, controlla una parte importante delle strutture del paese. I maoisti appoggiarono i Wa, la formazione combattente del PC birmano, mentre la guerriglia, tutt’ora armata ( e sempre filocinese), lo United Wa State Army ( UWSA ), ha rifiutato d’incontrare la neoeletta presidentessa. Aung San Suu Kyi, per rompere con gli Usa, deve riappacificarsi coi guerriglieri riuscendo dove il filippino Duterte ha fallito; così facendo ha una formazione militarmente addestrata in grado d’epurare l’esercito dagli elementi pro-Israele. Si spingerà fino a questo punto?

Il terrorismo di Al Qaeda non è un arma contro quello, concorrente, buddista e pro-Israele ma serve a fare pressione sul legittimo governo dell’ex Premio Nobel . Il giornalista Gearóid Ó Colmáin ha scritto che: ‘’Le violenze sono esplose nella provincia di Arakan, nell’ottobre 2016, quando i terroristi jihadisti hanno attaccato un posto di blocco della polizia al confine del Bangladesh, uccidendo nove poliziotti. Gli attacchi furono attribuiti all’Organizzazione Solidarietà dei Rohingya (RSO), organizzazione terroristica jihadista con collegamenti con l’Arabia Saudita. Gruppi per i diritti umani legati al dipartimento di Stato degli Stati Uniti e ai servizi segreti inglesi, come Human Rights Watch e Amnesty International, hanno lanciato un appello congiunto alla “comunità internazionale” per fare qualcosa per evitare il “genocidio” contro la minoranza rohingya dopo che le truppe birmane lanciavano un’operazione per sedare l’insurrezione islamista. L’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) accusava il governo del Myanmar di genocidio basandosi sule relazioni delle suddette dubbie organizzazioni, dalla lunga storia di diffusione di menzogne e disinformazione per giustificare le guerre di aggressione mascherate da “interventi umanitari”. Il governo del Myanmar ha istituito una commissione per indagare sulle accuse di crimini nello Stato di Arakan. La condizione dei rohingya ha ricevuto una copertura stampa copiosa negli ultimi anni.’’ 1. Tutto questo non ci permette d’inquadrare l’appoggio iraniano alla causa dei rohingya, un equivoco dovuto – penso – alla disinformazione dei media occidentali i quali, molto spesso, condizionano anche gli analisti indipendenti delle nazioni progressiste.

L’Iran commise un errore imperdonabile nell’appoggiare i fondamentalisti sunniti contro lo Stato antimperialistico serbo, negli stessi termini dovrebbe tenersi lontano da una causa che sa di wahabismo. La stessa sinistra occidentale, come al solito, ha preso per ‘’buona’’ questa notizia data in modo strumentale, omettendo gli aspetti più importanti della vicenda: la repressione è durissima ( Gearóid Ó Colmáin sbaglia a sottovalutarla ) ma (1) non è genocidio, (2); Aung San Suu Kyi non ne è la diretta responsabile. I capi della sovversione islamista ( che viene occultata dai giornali online ) dove si trovano? Le fonti parlano chiaro: non sono in Birmania. Sono pochi i giornalisti a parlarne.

Secondo Tim Johnston, direttore del Programma ICG per l’Asia, molti di loro si trovano in Arabia Saudita ed hanno assimilato l’ideologia wahabita. Leggiamo qualche stralcio di una interessante intervista: ‘’abbiamo interrogato alcune persone coinvolte negli attacchi; le testimonianze ci hanno portato a pensare che la maggior parte dei capi di Al-Yakin siano rifugiati in Arabia Saudita, soprattutto a Mecca e Medina, e, per quanto ne sappiamo, sono tutti di etnia Rohingya. Abbiamo anche scoperto che Ata Ullah, uno dei loro leader è  di origine pakistana, nato a Karachi, ed è cresciuto in Arabia Saudita. Sembra, inoltre, che alcuni dei combattenti siano stati addestrati in Afghanistan e Pakistan, ma non siamo stati in grado di raccogliere informazioni utili riguardanti questi dettagli’’ 2 ed aggiunge ‘’col fatto che la maggior parte dei leader vivono in Arabia Saudita, è ovvio che sono esposti alla matrice wahabbita, ma non crediamo che questa sia la forza trainante della ribellione. Dietro al-Yakin non si cela una vera ideologia jihadista, cosi come  dietro la rabbia per le violenze sui Rohingya del Rakhine; il vero motivo è la rivendicazione nazionale, anche se il movimento è sostenuto dai fatwa e da molti studiosi islamici’’. Le ambiguità si intrecciano: l’ICG è una ONG che ha demonizzato la Siria: come mai non parla dei rapporti fra Israele ed il brutale esercito birmano? Tim Johnston dice il vero ma, lui stesso, nasconde l’altra faccia della medaglia. Ognuno tira acqua al proprio mulino facendo – volente o nolente – il gioco di Israele e Casa Saud. Stupidità o tradimento? Soros se la ride.

Insomma, Aung San Suu Kyi è chiamata realizzare il fallito programma di Duterte, speriamo solo che non si lasci (ri)comprare: desionizzare l’esercito, stringere un accordo con la guerriglia comunista ed impedire la penetrazione dei capitali sauditi. Ce la farà? Non credo, però l’interesse – proprio ora! – per il popolo del rohingya è una evidente reazione ad alcune sue posizioni, non previste, in politica internazionale. La sinistra occidentale, come al solito, s’è bevuta la mezza bufala. Purtroppo, è affetta dalla ‘’sindrome di Soros’’, una malattia che porta alla demenza politica ed alla subordinazione servile nei confronti della principale potenza imperialistica: gli Usa. Un teatrino indegno.

Il ‘’diritto-umanesimo’’ è una ideologia occidentale che non permette di fare analisi razionali, documentate e coraggiose. L’ideologia politicamente corretta, ancora una volta, dimostra la sua folcloristica impotenza davanti alla complessità dei fatti e dei reali rapporti di forza, questo è il vero medioevo. La fine del giornalismo investigativo.

https://aurorasito.wordpress.com/2017/04/03/il-myanmar-sfida-la-comunita-internazionale/

http://www.birmaniademocratica.org/document.aspx/it/il_wahabbismo_saudita_sta_influenzando_la_ribellione_rohingya_/news

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Fonte foto: The New York Times (da Google)

 

 

1 commento per “Myanmar, fra repressione militare e terrorismo wahhabita

  1. ARMANDO
    19 Settembre 2017 at 12:02

    Una sola osservazione a margine: il buddhismo ha fama di essere la quintessenza della non violenza e del pacifismo, e per questo lo si contrappone ai monoteismi guerrafondai. Ma all’evidenza non è esttamente così. Ci sarebbe materia su cui riflettere.

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