Contrariamente ai tanti “folgorati sulla via di Trump”, convinti che la nuova amministrazione insediatasi alla Casa Bianca potesse rappresentare una svolta per la “politica estera” (leggi imperialista…) americana, l’aggressione USA alla Siria non ci sorprende più di tanto. Anzi, non ci sorprende affatto, per dirla tutta.
Soltanto chi non ha capito nulla della struttura economica (e quindi politica) degli Stati Uniti poteva pensare che con Trump gli USA potessero abdicare alla loro vocazione imperialista. L’America, infatti, è una grande potenza capitalista e imperialista nello stesso tempo, né potrebbe essere altrimenti.
L’imperialismo, per gli Stati Uniti, non è una opzione come un’altra, qualcosa che si può decidere di fare o di non fare. Non si tratta di decidere se liberalizzare o meno l’hashish o permettere ai gay di sposarsi e adottare figli.
L’imperialismo, per un grande stato capitalista, non è una scelta (culturale, politica, ideale ecc.) ma una condizione necessaria e necessitata. E’ l’inevitabile e logica conseguenza del suo stesso essere una grande potenza capitalista. Certo, possono esserci, come infatti ci sono sempre state nella storia, delle fasi diverse, più o meno aggressive o più o meno “interventiste”, che hanno caratterizzato e caratterizzano le politiche delle varie potenze capitalistiche. Ma questa alternanza di strategie non è determinata da scelte soggettive di questa o quella leadership bensì da condizioni strutturali, economiche e politiche, che fanno sì che prevalga una linea più “morbida” o più aggressiva piuttosto che un’altra, in base alle circostanze e alle cosiddette necessità di fase. La leadership di turno – cioè il presidente eletto e il suo entourage – non può che mettersi sull’attenti di fronte a tali necessità e rispondere a ciò che la “struttura” del sistema gli impone. Ed è profondamente errato anche credere che la suddetta leadership possa pensare di poter godere di un margine di autonomia rispetto al sistema e alla sua struttura. Tradotto in parole ancora più povere: tutto quello che raccontano i candidati alla presidenza USA durante le campagne elettorali sono delle balle finalizzate a prendere voti. Ed essi per primi sono consapevoli di raccontarle, perché sanno perfettamente che, qualora fossero eletti, dovranno rispondere a quel gigantesco e complesso sistema di potere – economico, finanziario, industriale, militare, politico, mediatico – che gli ha consentito di riuscire nell’impresa.
Meraviglia, quindi, a dir poco, una certa assenza di lucidità o, quanto meno, l’ingenuità con cui molti hanno strizzato l’occhiolino o addirittura auspicato l’affermazione di Trump, evidentemente persuasi che con la sua amministrazione gli USA avrebbero rinunciato a mantenere il loro dominio indiscusso sul pianeta e si sarebbero serenamente impegnati per la costruzione di un mondo multipolare, fatto di relazioni paritarie con tutti gli altri stati. Se questa ingenuità è scusabile in tanti, politicamente sprovveduti e privi di adeguati strumenti interpretativi, non lo è per quei comunisti che quegli strumenti dovrebbero possederli e che invece si sono lasciati travolgere dalla logica del “meno peggio” e del “Trump male minore rispetto alla Clinton”. Un errore opposto e speculare a quei “sinistri” che hanno invece apertamente (e gravemente) sostenuto la Clinton e, quel che è peggio, non solo in chiave anti Trump.
Chiarito questo, si tratta ora di capire le ragioni del repentino cambiamento di strategia da parte di Trump, per lo meno rispetto alle sue (fasulle) promesse elettorali e al suo presunto isolazionismo.
L’ipotesi più probabile è che la competizione fra i vari gruppi di potere veda prevalere i “falchi” (presenti sia nello schieramento “democratico” che in quello repubblicano), cioè quelli che non hanno intenzione di cedere neanche un millimetro di territorio e di spazio politico alla Russia e alla Cina, rispetto alle “colombe”, ossia quelli che pensano invece che in questa fase sia più utile per l’impero tirare i remi in barca e rifiatare, dopo decenni di guerra (imperialista) preventiva e permanente. A confermare questa tesi, che personalmente ritengo la più plausibile, oltre al bombardamento della base militare siriana, la decisione di spostare alcune navi da battaglia della flotta del Pacifico verso la Corea del Nord. E’ evidente che il vero obiettivo non è certo la Corea del Nord ma quello di lanciare un messaggio alla Cina.
http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/mediooriente/2017/04/04/siria-gli-usa-vareranno-a-breve-nuove-sanzioni-contro-la-siri_ec510ea4-e9cf-489d-9fec-9504e093479e.html
A differenza di altri analisti non credo che siamo all’anticamera di una possibile guerra mondiale (il che non significa che la situazione non sia grave, lo è da decenni…). Ma questo lo dobbiamo, nonostante tutto, più alla prudenza e al buon senso del governo russo e di quello cinese piuttosto che quello americano e israeliano (l’UE è solo un cane al guinzaglio…). Una cosa è certa. Con questo attacco diretto alla Siria gli Stati Uniti ribadiscono la loro strategia anti iraniana e antirussa e di pieno appoggio ai loro alleati storici, cioè Israele e Arabia Saudita. E contemporaneamente lanciano anche un monito a Erdogan, “invitandolo” a scegliere una buona volta e con chiarezza da che parte stare.
In realtà, quanto sta accadendo è in piena sintonia con la strategia clintoniana alla quale il Tycoon sembra al momento allinearsi. Ciò conferma ancora una volta quanto dicevamo prima.
Fonte foto: conversations eflux.com (da Google)