C’è poca discussione a sinistra sul caso del Portogallo: Paese preso in carico, un anno e mezzo fa, da un Governo di minoranza di socialisti appoggiati dall’estrema sinistra (Bloque de Esquerda e partito comunista) con l’intento esplicito di rovesciare l’austerità dei precedenti Governi (ivi compresi Governi socialisti), esso si proponeva di riuscire laddove, sostanzialmente, ha fallito Syriza: invertire in senso progressista le politiche sociali ed economiche, pur rimanendo dentro l’euro, e quindi all’interno di una direttrice inevitabilmente austeritaria e neoliberista di politiche ingabbiate dentro il paradigma “follow-the-leader” tipico di un’area valutaria unica.
Il compromesso stretto fra socialisti e sinistra radicale ha, per la verità, imposto più sacrifici di piattaforma programmatica a quest’ultima, costretta ad abbandonare i propositi di uscita dall’euro (senza nemmeno un piano B per rafforzare una posizione negoziale strutturalmente molto debole) e dalla NATO, ed è stato foriero, in verità, di alcuni risultati piuttosto significativi. Il primo dei quali è la sopravvivenza: ad un anno e mezzo di distanza, questo Governo nato fra mille dubbi e le tradizionali forti divisioni della sinistra è ancora in piedi: i conflitti vengono gestiti in modo razionale, come quando si è aperto uno scontro su una proposta di taglio dei contributi sociali a carico delle imprese.
I provvedimenti presi sono, in effetti, notevoli: riduzione a 35 ore dell’orario di lavoro dei funzionari pubblici e stabilizzazione del loro reddito, dopo anni di tagli, stop a privatizzazioni e riduzioni occupazionali nel lavoro pubblico, aumento del salario minimo, adeguamento delle pensioni al costo della vita, introduzione di una indennità per i minatori di uranio, riduzione delle imposte sanitarie. Il tasso di disoccupazione scende, dal 12,6% del 2015, all’11,2% del 2016.
Il quadro generale, però, e nonostante tali importanti provvedimenti, indica come il Governo di sinistra non abbia spinto sull’acceleratore del progressismo, invertendo la direzione di marcia del Paese, ma sia rimasto, invece, attestato su una linea di blanda austerità. I dati Eurostat parlano chiaro: al terzo trimestre 2016, la spesa pubblica complessiva sul PIL (dato destagionalizzato e corretto per i giorni di calendario) è pari al 45,9%. Nel corrispondente trimestre del 2015, quando era ancora in carica il Governo di centro-destra, essa era del 46,9%. C’è stato quindi un punto di riduzione rispetto al PIL della spesa governativa, che allarga ulteriormente il divario negativo con la media dell’area-euro (in cui tale percentuale si attesta ad un ben più alto 48,2%). D’altra parte, ed è molto indicativo, il Ministro portoghese dell’Economia ha recentemente esaltato il risultato in termini di rapporto fra disavanzo pubblico e PIL, sceso al suo minimo storico (2,1%) ben al di sotto del 2,5% inizialmente concordato con la Commissione Europea, segnalando quindi come la direzione di marcia austeritaria non sia stata significativamente modificata dal Governo in carica, che si sforza, al massimo, di redistribuire socialmente in modo migliore i sacrifici imposti al Paese.
Ma anche la redistribuzione sociale del carico imposto dall’austerità è piuttosto discutibile. E’ soprattutto sulle voci di spesa più importanti dal punto di vista sociale e del sostegno alla crescita e quindi dell’occupazione che si fa sentire una dinamica di spesa pubblica insoddisfacente. I trasferimenti sociali monetari passano dal 21,5% del PIL al terzo trimestre 2015 ad un più basso 21,1% nel corrispondente trimestre del 2016, a fronte di una media dell’area euro del 22,5%. La formazione lorda di capitale (quindi gli investimenti pubblici per la crescita) passa, nello stesso periodo, dall’1,8% del PIL all’1,4%, allontanandosi ulteriormente dal 2,6% europeo.
Ciò significa che la spesa sociale e la spesa per il sostegno all’occupazione crescono meno del PIL (che nell’ultimo anno mette a segno un +1,9%) e che quindi la distribuzione della spesa pubblica è più iniqua. Il tutto in un Paese in cui l’indice del Gini, pari ad un valore di 34 nel 2015, è molto più alto della media dell’euro (30,7) ed assimilabile al valore della Grecia (34,2) segnalando dunque una disparità di distribuzione del reddito straordinariamente grave[1], che richiederebbe ben più di qualche blando provvedimento puntuale, quanto piuttosto una poderosa spinta verso un ribaltamento completo della direzione delle politiche, che l’europeismo di Costa e dei suoi socialisti impedisce.
Di conseguenza, il futuro dell’esperimento di sinistra di governo ed europeista portoghese appare piuttosto inquietante. La crescita del PIL e dell’occupazione nel 2016 appaiono essere infatti effetti di trascinamento di un trend già in atto nel recente passato, l’incapacità di uscire radicalmente da una logica di austerità nella spesa pubblica, associata al calo dell’investimento privato, legato forse anche ad effetti “reputazionali” negativi di un Governo che pratica politiche sia pur deboli di sinistra (il rating sovrano portoghese rimane sostanzialmente stabile al livello “junk” mentre la formazione di capitale fisso lordo rappresenta il 15,2% del PIL a fine 2016, mentre era il 15,4% appena due anni prima) pongono inquietanti interrogativi circa la sostenibilità futura del trend di crescita dell’ultimo anno, che potrebbe essere dovuto a fattori una tantum e non strutturali (ad esempio, l’espansione dei flussi turistici, legata alla riduzione di altre mete alternative nel Nord Africa o nel Vicino Oriente, per via della paura del terrorismo, un fattore di cui ha beneficiato persino l’industria turistica dell’Italia meridionale nel 2016). L’esperimento di sinistra responsabile rischia di avvitarsi nell’incapacità di andare oltre timidi provvedimenti puntuali, e di dare l’assalto al cielo, con l’aggravante che i partiti di sinistra radicale, oramai fortemente legati al Governo socialista ed alle sue scelte europeiste, rischierebbero di non avere più la credibilità per prendere in mano il testimone di una sconfitta a sinistra, che sarebbe anche la loro.
Come sempre, niente è facile per le scelte che una sinistra che voglia fare egemonia deve svolgere, e la strada del compromesso, nel medio periodo, può rivelarsi un boomerang.
[1] L’indice del Gini misura la sperequazione di distribuzione del reddito fra classi di redditieri. Quanto più è alto, quanto più iniqua è la curva di distribuzione.