L’assemblea dell’Ambra Jovinelli di Scotto, Furfaro, Smeriglio e soci sancisce di fatto la scissione prima ancora che nasca Sinistra Italiana, e forse ci saranno anche tentativi furbeschi di inviare truppe cammellate al congresso di Rimini di fine settimana, per indebolire il processo costituente di Sinistra Italiana, inquinando i pozzi del dibattito (che comunque non c’è stato nemmeno in SI). Con questa assemblea nasce esplicitamente un raggruppamento eterogeneo, che tiene insieme spezzoni di sinistra che si sono battuti per il No al referendum del 4 dicembre, insieme a componenti del Pd che hanno fatto campagna, seppur in modo sofferente, per il Si. Poiché le due opzioni referendarie disegnavano visioni della società italiana radicalmente diverse, a tenere insieme questa operazione cui ha lavorato per primo Pisapia è il tentativo di sommarsi per arrivare ad una coalizione di governo purchessia, incuranti del fatto di allearsi con un partito, come il Pd, in cui Renzi non è la malattia, ma il sintomo di una degenerazione liberista, a-classista e leaderistica già insita nello spirito del Lingotto. Renzi è il prodotto perfezionato di un partito che nasceva, come diceva Veltroni nel 2007, per “i nuovi italiani”, omogeneizzati dentro un “playing field” di competizione selvaggia fra individui, in cui la politica deve solo curarsi di rimuovere ogni protezione, ed eventualmente offrire caritatevoli strumenti compensativi per chi rimane indietro, lasciandolo ovviamente indietro.
Occorre chiarire che i presenti all’Ambra Jovinelli hanno un concetto di sinistra compatibile con l’alleanza con il Pd, cioè con questo socio-liberismo che è la base del Pd stesso. Ma non è del tutto colpa loro. E’ venuto a maturazione, in fondo, il sintomo della grave crisi culturale della sinistra italiana, ben più grave delle difficoltà generali della sinistra mondiale, perché, a differenza di Paesi come gli USA, la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna, il Portogallo o la Grecia, dove si intravedono segnali di riorganizzazione oppure singole personalità che emergono, ogni processo costituente della sinistra italiana sprofonda sistematicamente nella testimonianza o in un assurdo dibattito fra governismo e radicalismo. Assurdo perché, sia per governare che per fare i radicali, occorre un collegamento forte con la società, che manca del tutto, perché ciò che si muove a sinistra del Pd si rivolge quasi esclusivamente alla nostalgia dei vecchi militanti storici. O al massimo si rivolge ad un micro ceto colto e globalizzato, che, intimamente incapace di connettere la perdita dei diritti socio economici con gli effetti livellanti della competizione globale, finisce per spostare la proposta programmatica verso i diritti civili. Oppure predica un ambientalismo innocuo, fondamentalmente accettabile dal capitale, che sta trovando nella green economy una nuova fonte di profitto (peccato che la green economy riguardi soltanto le economie mature, quando il grosso degli impatti ambientali da attività industriale proverrà, sempre di più, da quelle emergenti, che per certi versi stanno replicando la rivoluzione industriale sette-ottocentesca europea).
Questa crisi culturale della sinistra italiana è stata, stagione per stagione, occultata sotto panni diversi. SEL è stata uno dei “camuffamenti” più efficaci. Spostando il focus politico dall’analisi di classe alla affabulazione narratoria, e quello organizzativo dal partito solido al movimento semiliquido tenuto insieme, ai vertici, dal fascino del leader, e nella dirigenza intermedia, dalla fame di potere di tanti mandarini, SEL è riuscita a fornire una immagine “piacevole” e non conflittuale della sinistra, in grado di essere accettata dai padroni del vapore, tanto da potersi incuneare, senza produrre alcun cambiamento sociale significativo, nel governo di grandi realtà regionali o urbane. Ben altra cosa furono i governi locali del PCI togliattiano e berlingueriano, che dove operarono costruirono modelli sociali specifici, basati sulla cooperazione sociale ed economica, la partecipazione politica di massa, i legami di coesione sociale. Nel caso di SEL, tramontata la leadership carismatica senza aver costruito una classe dirigente e di quadri di partito e senza aver gettato uno sguardo sufficientemente critico sulla fase neoliberista e finanziarizzata del capitalismo, inevitabilmente sono uscite fuori le ragioni del partito assessorile, convinto di poter mediare da posizioni di sottopotere qualche concessione in termini di spazi di libertà individuale (ma mai in termini di riconfigurazione del rapporto fra profitto e salario, data per assodata), quelle di una componente riformista, convinta di poter strappare concessioni utili per i lavoratori nel quadro dei macro-assetti esistenti, in particolare rispetto all’Europa e più in generale alle dinamiche della globalizzazione, e di una componente più strutturale, che guarda alla radice del sistema capitalistico, così come si è riconfigurato durante gli anni della crisi e della connessa ristrutturazione sociale, costruendo una proposta che vada ad incidere su quegli assetti, non dandoli per mere variabili esogene. L’ingresso degli ex Pd dentro il tessuto della ex SEL ha reso più palese il problema.
Il partito assessorile e parte della sinistra riformista hanno trovato un punto di connessione fra l’offerta governista dei primi e l’illusione dei secondi di poter ottenere risultati utili dall’interno del sistema, entrando, come si dice, nella “stanza dei bottoni”. Si tratta però di una illusione. Finiranno inevitabilmente tutti risucchiati dentro l’ala sinistra di un Pd allo sfascio, dove le componenti centriste e neoliberiste sono ancora molto forti, ed il collante è la fame di potere. Saranno utilizzati come carta da giocare al congresso di quel partito, che si annuncia come una specie di Ok Corral. Hanno scelto una strada, quella neo-ulivista, per la quale occorre essere consapevoli che c’è bisogno di aggregare anche forze centriste e rappresentative della destra. Le varie forme uliviste-unioniste avevano in pancia i Mastella ed i Buttiglione.
Oltretutto, tale scelta cade nel momento in cui si apre una crisi profonda dentro il Pd, che non riguarda la battaglia superficiale di potere e sopravvivenza fra renziani e sinistra, ma la oramai conclamata incapacità di dare rappresentanza ad uno spettro ampio della società, missione per la quale era nato l’Ulivo e, a seguire, il Pd stesso, che ne rappresentava, nelle intenzioni, una sorta di “internalizzazione” in un solo partito. Non si è capito, da parte di quelli dell’ Ambra Jovinelli, che in questa fase di destrutturazione del quadro politico (il centrodestra che si decompone, il Pd in forte crisi di identità, il grillismo che deve ancora scegliere da che parte stare) non serve correre alla coalizione, ma radicarsi nella società, con l’analisi e le proposte. Ed incunearsi dentro la crisi del vecchio assetto politico, per cercare di cogliere fasce di consenso ovunque, dall’elettorato del Pd a quello del M5S, sapendo addirittura, sissignore, dialogare con parte di quello leghista. E’ del resto la lezione spagnola, che ha portato alla vittoria di Iglesias nel congresso di Podemos, sconfiggendo le ipotesi riformiste che davano per “esogeno” l’assetto politico venutosi a realizzare con il nuovo governo Rajoy, e che quindi cercavano la via minimalista dell’ingresso nel sistema per poterne modificare gli aspetti più deteriori.
Invece, gli scottiani scelgono di rivitalizzare un albero morto. E’ proprio il trasversalismo interclassista sul quale è nato l’Ulivo, che ha trovato sintesi in un socio-liberalismo imperniato sui concetti di economia sociale di mercato, ad aver creato quel brodo di coltura in cui la lettura sociale di classe è stata sostituita con una indistinta lettura civica e moderata di una società da pensiero unico, il cui unico problema è quello di gestire il benessere conquistato, e non più di strappare nuove conquiste sociali. Questa lettura aveva un senso negli anni Novanta, quando in effetti l’illusione di una crescita senza fine poteva legittimare l’idea che si andasse verso un unico ceto medio poco differenziato, da rappresentare mediante istanze di sostegno all’iniziativa individuale, alle libertà civili ed alla sicurezza economica e sociale . Con la crisi, e con l’arretramento dei diritti e delle tutele che si credevano inossidabili, oggi il problema non è più quello di gestire una società indifferenziata e “pacificata” dal benessere. Il problema è quello di tornare a fare lotta di classe. Tanti auguri, ma evidentemente non si sopravvive a lungo nuotando in direzione contraria al corso della storia.
Adesso occorre pensare a noi, a Sinistra Italiana. Iniziando dalle cose più banali. Occorre una operazione di chiarezza. Chi si è fatto un’assemblea parallela accusando gli altri di truffa, falso tesseramento, congresso già deciso a tavolino ed altre stupidaggini deve abbandonare il nascente partito ed ogni incarico politico ed organizzativo al suo interno. Chi vuole venire a Rimini lo faccia meramente da ospite. E si avvii un dibattito politico-culturale vero, senza l’ansia da prestazione del prossimo risultato elettorale. Quel dibattito che non c’è stato, e che è la causa delle scissioni attuali.
Sinistra Italiana, se vuole arrivare da qualche parte, deve ripartire da basi di pensiero e di organizzazione diverse da quelle che hanno provocato l’estinzione della sinistra in Italia. Altrimenti ripeterà il fallimento. Sembra banale, ma evidentemente non lo è: a parità di ingredienti e ricetta, esce fuori lo stesso piatto. Sotto il primo profilo, deve abbandonare il socioliberismo anfibio e interclassista dell’Ulivo, la tendenza a anteporre i diritti civili (importantissimi, ovviamente) a quelli sociali, la visione buonista, acritica e sostanzialmente succube della globalizzazione (con riferimento specifico a temi come l’immigrazione e l’integrazione europea) il governismo coalizionale ad ogni costo, anche con chi non è amico dei lavoratori, agitando il fantoccio di una assurda e generica accusa di settarismo. Sotto il secondo profilo, deve abbandonare l’ottica movimentista e orizzontale, che non riesce nemmeno a fare sintesi fra gli interessi sociali dentro il generico calderone della società civile, il leaderismo sognante e affabulatore che si regge sugli affetti e le tifoserie e non su una condivisione di mozioni politiche, la selezione di classe politica operata per criteri di fedeltà e carisma retorico e di immagine, anziché sulle basi culturali.
Foto: Huffington Post