Parte seconda. Ripropongo un mio vecchio scritto sul ruolo ideologico dei “creativi” nella pubblicità.
“Verso il nuovo mondo”
Il mondo dove gli oggetti e la loro immagine alienante sono più importanti della parola come strumenti di indagine critica e di scavo interiore è il mondo nel quale – in particolare i giovanissimi – organizzano la percezione della realtà.
Tutti gli oggetti, dal deodorante al computer, dalla calze alla birra, dal tonno allo champagne, comunicano, sono rivestiti di linguaggio, trasformati in veicoli di senso che costruiscono quell’immagine sociale che permetta all’individuo di inviare dei segni di identificazione per un determinato gruppo omogeneo di riferimento caratterizzato da un suo modello di consumo, da uno stile di vita. Non si acquista tanto per “avere” quanto per apparire come tu vuoi che gli altri ti vedano.
Così l’acquisto della “merce” diventa un estenuante esperimento della costruzione della propria immagine, esperimento che si può ripetere qualora l’oggetto non abbia soddisfatto del tutto lo scopo prefissato dal possessore. Da qui la corsa al consumo che diventa frenetica ad ansiosa. Un’immagine che non è tanto facile da costruire con le merci. Perché da una parte devi acquistare oggetti che siano accetti al gruppo di riferimento e dall’altra parte devi sottrarti alla standardizzazione ed esibire oggetti personalizzati, individualizzati che evidenzino sia la tua appartenenza al gruppo sia la tua diversità.
Si può ben capire il senso di vuoto e di smarrimento che può gravare su coloro che hanno scommesso su punti di riferimento così evanescenti. Del resto i “creativi” della pubblicità sono ben informati sui target da colpire. Sanno bene che in una società dove non si fa altro che parlare di individui, di identità, di persone, e si calpesta la dignità umana nel lavoro, nell’interazione sociale, nei rapporti d’amore, nella famiglia, non è naturale che si fugga verso un mondo di cose, un mondo reificato, un mondo di immagini alienate e alienanti che ti proteggano dalla disperazione?
I”creativi”, punta di diamante del capitalismo occidentale, sono il più delle volte capaci e non di rado geniali. Sanno giocare con sapienza sulle pulsioni di regressione presenti nei vari target di consumatori. L’invito all’autogratificazione è costante. Per Christopher Lash il narcisismo diventa cultura. Autogratificazione con la gola, con il tatto, con l’olfatto. Erotismo che è sempre più autoerotismo. Ma il narcisismo è anche e sopratutto lontananza dagli altri, rifiuto di relazioni impegnative, approfondite, intense, di contro ad uno stare insieme superficialmente gioioso nella piena solitudine reale dell’individuo.
Da qui il disincanto per i fatti sociali, il disimpegno politico, l’incanto per ciò che è effimero, per ciò che non è impegnativo. Ciò che si vuole è gratificazione immediata perché il senso delle cose è qui e subito e non altrove. Altrimenti è l’ansia, l’inquietudine, l’insoddisfazione. La società dell’avere e dell’apparire. Un’autostima debordante che in effetti è disistima di se stessi, una pericolosa sfiducia non solo delle capacità degli altri ma anche delle proprie.
Certo non la società dell’essere, della responsabilità individuale e sociale, della libertà dalla paura, dell’amore “maturo” che ci viene proposta da Erich Fromm. Ne “L’Arte di amare” si pronuncia senza ambiguità ” La gente capace di amare nel sistema attuale, è l’eccezione; l’amore è per necessità un fenomeno marginale nella società occidentale moderna”. Il grande psicanalista filosofo è drastico sull’epoca “delle magnifiche sorti e progressive” ” Il principio che anima la società capitalista e il pricipio dell’amore sono incompatibili”
la parte terza a breve