Parte prima. Ripropongo un mio vecchio scritto sul ruolo ideologico della pubblicità
Sono gli anni ’80. E’ già iniziato l’attacco decisivo della Grande finanza per ammorbidire partiti e sindacati ed infrollire la società civile. La pubblicità, come del resto lo sport, il cinema, la televisione costituiscono parte essenziale per educare le persone alla “normalità” di una società divisa in classi e governata dalla “merce”.
Lo scenario è antico ma è la culla dove si sono formate le allora nuove generazioni…
Nell’ultima (la quarta?) parte del “saggio””alcune considerazioni sul potere della pubblicità e sulla capacità attuale di ricezione e di risposta durante la crisi del consumo di massa
Vero il “nuovo mondo”
Come d’incanto un giorno svaniscano i messaggi pubblicitari: spot radiofonici e televisivi, annunci economici, inserzioni nei giornali, manifesti murali, poster, cartelloni di zinco e di legno, insegne luminose, cartelli appesi ai corrimano degli autobus, cartelli sopra le reticelle dei portabagagli nei treni, cartelli sulle superfici esterne degli autobus, espositori permanenti, circolari pubblicitarie postali…Non più fanciulle con slip Roberta; non più dita affusolate di donne che sbottonano camicie di uomini che non chiedono mai; non più giovanotti Indiana Jones che uncinano con un coltellaccio tonno Palmera; non più freschi velieri da indossare; non più estati sexy e spregiudicate con Musk…
Credo che una sensazione di penoso disagio si impadronirebbe di noi. Potremmo accorgerci che avevamo assegnato un valore alle nostre azioni, alla nostra vita perché questa era finalizzata al consumo di immagini associate ai prodotti che acquistavamo. Potremmo accorgerci che poco ci interessavano le funzioni degli oggetti, mentre ciò che ci garantiva benessere, serenità, sicurezza era depositata nel valore aggiunto del prodotto: l’immagine.
Eravamo attorniati da presenze invisibili, affettuose, animate. Ma non le avvertivamo. Non sentivamo noia o frustrazione nel lavoro perché i nostri abiti, la nostra auto, la nostra acqua di colonia ci restituivano un’immagine di noi stessi rassicurante, euforica. Gli oggetti erano vivi, animati e non lo sapevamo.
Con loro noi parlavamo ed essi ci rispondevano. A volte ci comunicavano il senso delle tradizioni, della genuinità oppure lo spirito d’iniziativa, il coraggio del rinnovamento, il rischio dell’innovazione. Altre volte ci trasmettevano un messaggio maliziosamente erotico o delicatamente edonistico fondato sulla cura del corpo o sulla gratificazione della gola. Altre volte ancora ci stimolavano nela nostra virilità o femminilità a godere dell’avventura in lontani Paesi esotici.
Non eravamo soli. Le immagini ci accompagnavano sino al letto dove morbide seppure modeste lenzuola Postal Market ci traghettavano delicatamente al di là della veglia ( dove chissà quali altre immagini pubblicitarie si affollavano ancora)
E i nostri rapporti sociali? Potremmo accorgerci con grande stupore che così come abbiamo costruito la nostra immagine sociale con le immagini degli oggetti così anche i nostri
rapporti sociali venivano mediati dalle immagini degli oggetti nostri e altrui.
Individuavamo gli altri per gli oggetti che “consumavano”: un’auto, degli abiti, un profumo, cibi, bevande e assegnavamo loro uno status nella stratificazione sociale dei consumi: elegante, sportivo, arcaico, emergente, puritano, integrato…E decidevamo secondo la tipologia individuale se frequentarli o non frequentarli, se stimarli o non stimarli, se amarli o non amarli.
Noi conoscevamo degli altri gli oggetti e ciò era sufficiente per avere l’illusione di comprenderli nel loro agire, nel loro parlare. Potevamo relazionarci con loro senza una bevanda, una pizza, senza uno spettacolo teatrale, cinematografico o musicale? Sì! Anche i prodotti dell’arte in una società dove gli oggetti sono antropomorfizzati, diventano anch’essi oggetti di consumo, reificazioni dell’essenza umana. Il divertimento stesso diventa un consumo d’obbligo, se si vuole appartenere ad un determinato status, un faticoso doppio lavoro come ci ricorda Margaret Mead. Come in una nebulosa fatta di illusioni, di fantasie, noi vivevamo la nostra realtà deformata da una percezione che aveva come centro non più il soggetto ma sua maestà:la merce, il feticcio alienante della condizione umana
Ma già, come ci dice G Barbiellini Amidei, Marx aveva compreso “che il re era il feticcio, che l’esasperata commedia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo continuava all’infinito, perché nell’ultima stanza del potere non sedeva un essere umano, ma un golem di utilità, di valore, di luccichio, di appetitosa apparenza: la merce”
seconda parte a breve
P.S. le volgari immagini pubblicitarie sono dei giorni nostri che, pur appartenendo ad un disegno sub liminare come le immagini degli anni ’80, hanno un che di più di arroganza e di volgarità di cui tratterò nell’ultima parte