”La mafia è una femmina-cagna che mostra i denti prima di aprire le cosce. E’ a capo di un branco di figli che, scodinzolanti, si mettono in fila per baciarla. Il suo bacio è l’onore. La cagna dà ai suoi figli il permesso di entrare: ”Nel nome del padre, del Figlio della Madre e dello Spirito Santo”. Bastona il figlio più giovane e gli mette un vestito imbrattato di sangue. Il mafioso risorge e riceve dalla Madre la benedizione. I fratelli lo abbracciano e comandano il giuramento: “Entro col sangue ed uscirò col sangue”. Il patto si stringe. C’è una mafia da agriturismo nelle campagne di Corleone, che nasconde l’orrore di appartenenza selvaggia, il gergo segreto…E in un’isola del Nord di un’Italia capovolta c’è una città, un luogo primario, dove un popolo silenzioso è seduto attorno ad una tavola imbandita, si spartisce l’Italia e se la mangia cruda”.
Da Cani di bancata. Autrice e regista Emma Danti. www.teatrocrt.it
E’ da sempre luogo comune che la grande criminalità organizzata, in primo luogo la mafia e Cosa Nostra in particolare, sia un fenomeno essenzialmente maschile, anzi maschilista, che vedrebbe le donne non solo formalmente escluse dai posti di comando e relegate in ruoli subordinati e di puro supporto ai propri uomini, ma addirittura ignare di ciò che accade al di fuori della propria cerchia domestica. La stessa magistratura, fino a non molti anni or sono, ha alimentato questa credenza in numerose sentenze di cui la seguente è solo un esempio :
<<Pur nel mutevole evolversi dei costumi sociali, non ritiene il Collegio di poter con tutta tranquillità affermare che la donna appartenente ad un famiglia di mafiosi abbia assunto ai giorni nostri una tale emancipazione e autorevolezza da svincolarsi dal ruolo subalterno e passivo che in passato aveva sempre svolto nei riguardi del proprio uomo, si da partecipare alla pari o comunque con una sua propria autonoma determinazione e scelta alle vicende che coinvolgono il clan familiare maschile>>[1]
Sentenze di questo tipo hanno una doppia valenza: da un lato sminuiscono la donna tratteggiandone un’immagine di subalternità che, se indubbiamente era vera sul piano sociale, da questo viene estesa al piano psicologico, come se la donna non fosse intrinsecamente in grado di avere una sua propria capacità di intendere e di volere. Dall’altro lato, però, la esaltano sancendone <<l’innocenza>> ontologica. La donna è sempre vittima subordinata dell’uomo, e il male che agisce è sempre indotto dall’esterno, mai scelto e sempre dovuto allo stato di subordinazione in cui è tenuta. Non è questa la sede per farlo, ma sarebbe interessante ricostruire analiticamente il processo storico e le motivazioni socio-psicologiche che hanno dato luogo a questa radicatissima e praticamente universale convinzione, dietro la quale, a mio parere, esiste un’altra verità, molto più complicata fino ad essere inaudita e impensabile. Sta di fatto però che tale concezione ha prevalso diventando il parametro culturale che orienta non solo le campagne mediatiche ricorrenti, ma anche le scelte concrete in ogni settore della vita associata: dalle così dette <<discriminazioni positive>>, all’affido dei figli in caso di separazione o divorzio, ai minori anni di carcere comminati alle donne rispetto agli uomini per reati analoghi, all’invenzione del <<femminicidio>>, fino all’elevazione a verità indiscussa e indiscutibile della parola della donna, in quanto sempre vittima “innocente” e incapace di mentire consapevolmente, negli episodi di stupro o violenza sessuale e non solo sessuale. Rispetto alla criminalità mafiosa, il pregiudizio d’innocenza si traduce nel fatto che, per stessa ammissione delle autorità preposte allo scopo, le donne sono sempre state escluse dalle periodiche retate in occasione di eventi particolarmente tragici, e nella loro non imputabilità sulla scorta dell’art. 384 del C.P. che esclude la punibilità di <<chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.>>
Il tradizionale ruolo femminile nelle associazioni mafiose
Tornando al tema dell’articolo, il ruolo tradizionale delle donne nella mafia, sebbene non visibile, non è comunque mai stato di poco conto, come scrive Renate Siebert nella prefazione al libro “Donne d’onore”[2]. Sintetizzando, l’autrice del libro citato individua sia funzioni attive che passive: attive come la (fondamentale) “trasmissione del codice culturale mafioso” e “l’incitamento alla vendetta”, e passive in quanto “garanti della reputazione maschile” e “merce di scambio nelle politiche matrimoniali” tramite le quali si stringono alleanze fra le diverse cosche. Stando poi a quanto riferiscono i pentiti di mafia, non è vero neanche che le donne dei mafiosi siano inconsapevoli di quel che accade nella “famiglia”. Per il collaboratore Leonardo Messina <<La donna non si è mai seduta intorno a un tavolo per una riunione, ma c’è sempre stata lo stesso. Molte riunioni si sono svolte in casa mia, o in quella di mia madre o di mia sorella. Sentono tutto ma non possono dire nulla. Le donne sono portatrici di segreti>>[3]
Da quanto scritto fin’ora risulta il ruolo estremamente ambiguo della mafiosità femminile, ambiguità che ha permesso alla pubblicistica di descrivere le donne di mafia si come complici, ma soprattutto come vittime della cultura maschilista e patriarcale che, secondo la vulgata corrente, permeerebbe di sé quelle organizzazioni criminali, ed ha consentito alle donne in generale di poter allontanare da sé lo spettro della propria violenza, in sostanza autoassolvendosi dietro lo schermo del vittimismo e della cultura maschilista che sarebbe stata loro imposta nei secoli, peraltro alimentata dagli stessi uomini delle cosche, allorchè fra i motivi per i quali, a loro avviso, una donna non può essere mafiosa a pieno titolo c’è la sua incapacità di uccidere. Dunque donna vittima o, ultimamente, eroina (con riferimento a quelle donne che con coraggio hanno rotto il muro del silenzio). La considerazione della donna non riesce a staccarsi da questa, sia pure opposta, apologetica, o quando si sforza di farlo assumendo in prima persona la responsabilità femminile, finisce in realtà per derubricarla ad accettazione subordinata della cultura mafiosa (ovviamente maschilista). Il magistrato Teresa Principato parla di <<donne che abdicano a qualunque diritto sulla propria vita, accettano di farsi strumento della cultura mafiosa e di vivere di riflesso del potere e del ruolo che i loro uomini assumono all’interno dell’organizzazione>>[4]
L’ambiguità di ruoli e funzioni femminili nella mafia riflette, secondo una lettura diffusa, la scissione operata fra madre e donna, con l’esaltazione del ruolo/funzione di madre, e la svalutazione/disprezzo del ruolo/funzione di donna, che impedirebbe loro una piena espressione di sé e la libera manifestazione della propria individualità, possibile solo con la piena emancipazione femminile e l’ottenimento della parità rispetto agli uomini. Credo che ci sia un importante nucleo di verità in questa lettura, e che non ci sia motivo di obiettare a questa istanza femminile di pieno riconoscimento, a patto di riuscire ad andare oltre le apparenze sociologiche del fenomeno mafioso per approfondirlo su quello psichico e archetipico, come vedremo nella seconda parte di questo articolo, e di assumerne pienamente le conseguenze che ne derivano, in tutti i sensi.
Mutamenti in corso
Se quella descritta finora è l’immagine tradizionale delle donne di mafia, non ci sono dubbi sul fatto che in questi ultimi decenni quell’immagine necessita di un aggiornamento importante in concomitanza coi mutamenti sociali e di costume che hanno coinvolto la modernità. Una inchiesta de L’Espresso del 2013 a cura di Lirio Abbate, titolava (con secondo me un certo malcelato compiacimento) <<Mafia, è l’ora delle padrine>>[5]. Vi si legge che ad inizio di quell’anno il numero di donne rinchiuse nei carceri di massima sicurezza con l’accusa di associazione mafiosa risultava essere di ben 133. Nell’inchiesta sono raccontate le storie di donne assunte a ruoli direttivi nelle organizzazioni criminali campane, calabresi ma anche siciliane. Con modalità e tempi diversi in funzione della diversa rigidità organizzativa e culturale di Camorra, ‘Ndrangheta e Mafia, ma tutte accomunate nell’aver superato quell’antico pregiudizio che precludeva alle donne l’accesso a funzioni dirigenti. Funzioni alle volte ricoperte inizialmente come supplenza temporanea dei mariti incarcerati ma poi assunte in via definitiva, altre “conquistate” fin dall’inizio per proprie “virtù” criminali. Quelle donne, da Ilenia Bellocco nel reggino, a Nunzia Gravano a Palermo passando per Angela Ferrero ancora a Reggio Calabria e per le “eredi” di Rosetta Cutolo in Campania, danno ordini ai maschi loro subordinati, ordinano omicidi, trattano con le organizzazioni estere la compravendita di enormi partite di droga, sono attive nel riciclaggio del denaro proveniente da attività illecite, controllano il loro territorio con la stessa spietatezza dei loro colleghi maschi. L’unica, almeno per ora, funzione criminale che non sembra svolgano in prima persona, è l’assassinio diretto. Se a ciò aggiungiamo, come da sempre più frequenti cronache giornalistiche, l’ascesa femminile anche nella piccola criminalità delle bande bullistiche, ne esce uno spaccato sociologico molto significativo. Alla prova dei fatti, l’emancipazione femminile, ovvero la scomparsa progressiva della “cintura protettiva”, sociale e culturale prima ancora che giuridica, creata dagli uomini intorno alle donne, svela definitivamente la bugia di cui si è avvalso il femminismo (anche quello degli uomini) come arma antimaschile, quella della superiorità morale delle donne, la loro declamata inclinazione ontologica alla pace e alla nonviolenza, da cui il mito che un mondo governato dalle donne sarebbe più pacifico, giusto, empatico, accogliente. E’ rivelatrice la reazione con cui questo mutamento è stato accolto negli ambienti sia femminili che maschili inclini ad esaltare il femminile sempre e comunque, in evidente difficoltà di fronte ai fatti concreti. Per tentare di salvare l’immagine di innocenza delle donne vittime della cultura patriarcale e maschilista, costruita in decenni di campagne mediatiche, si parla, come Ombretta Ingrascì nel testo citato, di pseudo – emancipazione, di forzato occultamento dei propri <<tratti femminili , proprio perché la mascolinità è l’elemento peculiare della società mafiosa caratterizzata da virilità e violenza>>, ed ancora <<la donna è stata abituata a pensare e ragionare come il suo uomo […], Lei stessa si impegnerà ad assomigliare all’uomo caratterialmente e a volte anche fisicamente… [6]. Anche di fronte al fenomeno del minor pentitismo mafioso femminile rispetto a quello maschile c’è un analogo atteggiamento. Fra le ipotesi avanzate per la spiegazione del fenomeno che leggiamo nella tesi di laurea citata: la persistente subordinazione al maschio, la paura della vendetta che nelle donne sarebbe maggiore rispetto agli uomini perché maggiormente preoccupate per la vita dei figli, l’eterno soffitto di cristallo che, una volta sfondato con tanta fatica le costringerebbe psicologicamente più degli uomini a mostrarsi dure e intransigenti, ancora il maggior dolore del pentimento causa l’amore e l’attaccamento femminile alla famiglia, evidentemente giudicato maggiore rispetto a quello maschile; manca quella più semplice e lineare, che le donne siano intrise di mentalità mafiosa almeno come gli uomini, e che tale mentalità non sia d‘importazione ma connaturata tanto all’essere donna quanto all’essere uomo. Del resto, anche in studiose che hanno condotto studi eccellenti sul fenomeno delle donne di mafia, il pregiudizio “salvifico” che tutto sia in fondo da attribuire al Patriarcato maschilista è duro ad essere scalfito.
<<Nella famiglia mafiosa non è concepibile che le donne possano emanciparsi poiché si tratta di un ambiente che, in modo totalizzante è sottoposto ai dettami di un’organizzazione segreta, autoritaria e monosessuale>> scrive la citata Renate Siebert. In altri termini, come scritto nella tesi citata <<Una vera e propria emancipazione della donna non può avvenire in una società che rimane patriarcale>>.
Mafia patriarcale?
Questo è il vero punto cruciale della questione. Siamo abituati a pensare la mafia e organizzazioni affini come sostanzialmente maschili e maschiliste, e nonostante i mutamenti in corso che abbiamo cercato di evidenziare, dal punto di vista sociologico ciò è ancora sostanzialmente vero. Ma l’analisi sociologica di un fenomeno non lo esaurisce. C’è un altro piano di analisi, psichica e archetipica, che evidenzia una verità altra, impensabile, opposta a quella dell’evidenza e tuttavia con essa perfettamente compatibile. Se non operasse quel pregiudizio pro-female di cui ho scritto sopra, basterebbe riflettere a fondo su alcuni elementi della “cultura” mafiosa e su frasi provenienti dall’interno di quegli ambienti per, quanto meno, indurre a forti sospetti. Uno dei suddetti elementi è il vero e proprio culto della madre tipico delle civiltà arcaiche mediterranee, ancora oggi diffuso nelle regioni del mezzogiorno italiano e rintracciabile in modo accentuato nelle organizzazioni criminali, di cui forma il substrato culturale e che può essere sintetizzato in maniera lapidaria con questa frase tratta da un libro della citata Renate Siebert <<La madre è l’autorità. Ma è il padre che, per il bambino, ha l’autorità>>[7]. Un’altra frase dal tenore identico è quella pronunciata da Rita di Giovine, figlia della boss Maria Serraino <<Loro [i fratelli], dovevano essere serviti. Emilio comandava […], ma non è il potere dell’uomo, perché era mia madre che in realtà ce l’aveva. Mia madre faceva sentire mio fratello il capo, era lei che gestiva, però il capo era lui, esteriormente, ma in realtà era mia madre ad avere il potere perché se lei decideva che un lavoro non si doveva fare, allora non si faceva>>[8]
Inizia a delinearsi una verità inaudita: il potere del maschio, visibile e ostentato (e poco importa se del marito/padre o del fratello), è un potere delegato, che egli esercita in quanto è stato investito dalla sua fonte autentica, quella della madre.
Essa non ha necessità di avere il potere perché è il potere, è tutt’uno con esso e lo delega a piacimento. Lo psicanalista junghiano Eric Neumann, nei suoi numerosi lavori sulle società arcaiche e sugli archetipi,[9] dimostra che solo superando il mero schema sociologico si riesce veramente a penetrare nell’essenza di una formazione sociale. Matriarcato e Patriarcato sono spiegabili non tanto come entità sociologiche ma come stadi psicologici, quali che siano i rapporti di dominanza sociale fra il gruppo maschile e quello femminile. In questo modo riesce a superare anche alcuni equivoci che possono sorgere dalla lettura dei lavori di Bachofen sul matriarcato originario, e mostra come la dominanza sociale di un sesso sia compatibile perfettamente con quella psicologica dell’altro. Seguendo analogo schema di analisi, un’altra psicanalista di scuola junghiana, Silvia Di Lorenzo, in un suo libro[10], non a caso ormai introvabile nelle librerie, fa affiorare l’impensabile della mafia. Leggiamo in seconda di copertina <<La mafia ha le sue radici in una simbiosi mortale con la Grande Madre. La mentalità mafiosa appare vistosamente maschilista. Ma, a un’analisi approfondita, essa svela un orientamento relazionale e sociale ispirato a valori di tipo materno familistico. Questa morale materna non riconosce la legge dello Stato, sovrapersonale e uguale per tutti, ma solo il legame personale, di appartenenza e di sangue>>.
Non potendo, per ovvie ragioni di spazio, seguire passo passo le argomentazioni della Di Lorenzo, dovremo limitarci ad esporne i cardini nel modo più sintetico possibile. a) In Sicilia ma più in generale nel mezzogiorno italiano, l’archetipo della Grande Madre Mediterranea, la <<Dea primitiva che esiste, sia nel bene che nel male, solo in funzione dei figli>> (Cibele, Astarte, Iside, Demetra), vive da sempre e ancora oggi come <<potente figura archetipica” nell’ inconscio. b) Il potere politico in Sicilia e nel sud Italia, per lo più straniero ancorchè alleato coi feudali potentati locali, ha sempre considerato quelle terre, e quelle popolazioni, come oggetto di sfruttamento e di rapina. Ciò ha determinato le condizioni sociali e psicologiche in forza delle quali il referente “naturale” per ottenere giustizia o risolvere le liti non è mai stato il potere pubblico e la sua legge impersonale (e paterna) valida “erga omnes”, ma era giocoforza rivolgersi al potente (un “fratello” forte), favorendo il formarsi di diversi clan o “famiglie”, solo appartenendo alle quali c’era la possibilità di ottenere una qualsiasi giustizia o supposta tale.
<<la logica del clan, del legame di appartenenza nasce dal legame di sangue e determina una morale materna, basata su una solidarietà e una complicità indissolubili e indiscutibili, in nome della quale si giustifica qualsiasi reato. Favorire se stessi e il gruppo a cui si appartiene (in linguaggio mafioso la <famiglia>), violando la legge, vessando o uccidendo altre persone, non è una colpa, ma una specie di dovere. La colpa non consiste nella trasgressione a una legge paterna, una legge astratta e sovrapersonale, ma nell’infedeltà al proprio clan, nel tradimento dei legami personali e di appartenenza>>[11]. Si tratta, per l’autrice, di un eccesso di <<codice materno>>, ossia di <<un orientamento psicologico e relazionale che è centrato sulla facilità di soddisfare i bisogni e di appropriarsi onnipotentemente di tutto ciò che si desidera, a dispetto della legalità […], della capacità e dei meriti oggettivi: a dispetto cioè del <codice paterno>, della legge del padre. >>[12] Molti secoli prima, la grande tragedia greca (L’Orestiade di Eschilo) aveva già raccontato la lotta fra la legge matriarcale del sangue e quella patriarcale della norma sovrapersonale, la sola che può (sottolineo può) garantire un minimo di giustizia oggettiva, e che alla fine trionfa. Anche all’interno dell’organizzazione mafiosa la legge del padre è negata. Le cosche rappresentano se stesse come comunità di fratelli , e nessuno, pena la morte, può aspirare a sollevarsi al di sopra degli altri. Il capofamiglia è un fratello maggiore, non un padre e non può avere più potere degli altri capi-famiglia, mentre tutti appartengono, per sempre e comunque, alla madre Mafia, all’entità Cosa Nostra, nello stesso modo in cui il legame di sangue è per sua natura indissolubile. Il neo mafioso, nel gergo dell’organizzazione, non entra in Cosa Nostra, ma diviene Cosa Nostra, a significare il suo stato fusionale con la Madre Mafia identico a quello del neonato con la madre biologica. Il che non significa naturalmente che il mafioso manifesti caratteri femminili. Al contrario, nel tentativo di negare anche a se stesso <<l’incompleta separazione dell’Io dall’inconscio come matrice della vita, come Grande Madre Terra>> e l’impossibilità di <<raggiungere la legge del Padre e la maturità virile>>, il mafioso accentuerà compensativamente, con risultati perfino caricaturali, alcuni tratti virili esteriori, ostentando fino all’eccesso identità sessuale, forza, spietatezza, volontà di potenza, ed ostenterà anche disprezzo per il femminile. Senonchè, per Neumann, al termine del processo di differenziazione della coscienza e separazione dalla simbiosi materna, l’io maschile deve rinascere spiritualmente, fino a saper controllare coscientemente pulsioni e istinti. La maschilità non è più identica al fallo e alla sessualità, ma sono la testa, sede della coscienza, e l’occhio, suo organo di controllo, che si ergono come <<fallo superiore o maschilità superiore>>, mentre, al contrario, <<ogni qualvolta l’io maschile è sopraffatto dagli istinti sessuali, aggressivi o di potenza, o da qualsiasi altro tipo d’istinto, si può riconoscere la dominanza della Grande Madre. E’ lei che governa gli istinti dell’inconscio, che regna sugli animali. Il padre terribile fallico è solo un suo satellite e non un principio maschile di pari rango>>, ed anche <<L’oscuro tipo wotanico del cacciatore selvaggio e dell’Olandese volante appartiene al seguito della Grande Madre. Dietro la loro inquietudine spirituale si nasconde sempre l’antica brama uroborica, la volontà di morte dell’incesto uroborico>>[13] La Di Lorenzo, da parte sua, così tratteggia il mafioso <<si è ribellato alla passività e alla rassegnazione tradizionali in Sicilia ed è arrogante, prepotente, smodatamente avido di denaro e di potere, violento e sanguinario; ma è anche molto inquieto, diffidente, insicuro: fiuta ovunque il tradimento e sente la morte sempre in agguato. La sua è una psicologia tipica della simbiosi con la Grande Madre e con l’assolutismo mortifero del suo dominio […] la nostalgia di un potere assoluto, il fascino del consumismo, l’efficacia magica assegnata alla violenza per possedere cose e persone rinviano, come vedremo, all’onnipotenza della Madre-Strega>>.
Ora, nelle arcaiche religioni matriarcali il maschile esiste solo in forma subordinata, come amante fallico fecondatore della Dea, il cui destino è di essere usato e sacrificato (castrato o ucciso); <<è il giovinetto tenero e bellissimo, ma effimero e senza storia e senza futuro>>. Tali sono Tammuz, Attis, Adone, figli della Madre Terra che nascono a muoiono ogni anno, nel ciclo stagionale della vegetazione. I matriarcali riti di sangue più arcaici, ci dice Neumann[14], si sono evoluti nel tempo : <<Come il rinnovamento del regno va interpretato come un surrogato posteriore dell’originario sacrificio stagionale e annuale del re, così anche a Creta si passa dal sacrificio annuale e dalla castrazione stagionale del re al sacrificio di uomini e, infine, al sacrifico del toro in sua sostituzione, per poi giungere alla festa di rinnovamento, in cui si ristabilisce ritualmente la potenza del re>>. In ogni caso <<Il sacrificio della virilità è necessario, perché l’onnipotenza della Grande Dea possa ogni volta risorgere come Verginità intatta, che nessuno possiede e a nessuno appartiene>>[15]
Potremmo continuare a raccontare la subordinazione del maschile nelle religioni dominate dalla Grande Madre, ma riteniamo sia sufficiente quello che è stato già detto per smentire l’attribuzione alla mafia di caratteri patriarcali. Al contrario, la sua accentuata matriarcalità la ritroviamo puntualmente sia nel linguaggio, allorchè l’organizzazione e i suoi membri vengono chiamati Mammasantissima, sia nei riti d’iniziazione all’onorata società. In essi, così come la Grande Dea Madre richiede sacrifici di sangue destinati a garantire la fertilità della terra, è previsto che il novizio versi simbolicamente il suo sangue sull’immagine sacra della Madonna dell’Annunziata, patrona di Cosa Nostra, giurandole fedeltà. Ma è tutto l’atteggiamento ambivalente di Cosa Nostra verso i suoi membri, a provare ancor meglio che siamo in presenza di un’associazione di tipo psicologicamente matriarcale. Così come la Grande Madre protegge i suoi figli, li aiuta nelle difficoltà, li esenta dal rispetto di leggi e norme al di fuori delle proprie, ma esige da loro fedeltà assoluta pena la morte, così la Mafia assicura ai suoi adepti tutta l’assistenza possibile in ogni circostanza. Il prezzo è la rinunzia alla propria individualità, l’annichilimento di ogni dialettica. Ogni presa di distanza, ogni processo di crescita individuale, ogni disubbidienza, è punita con l’infamia e la morte. Anche il segreto a cui ogni adepto è tenuto, dice la Di Lorenzo, <<da un punto di vista psicologico non è maschile, è materno. L’immagine archetipica del segreto è il ventre[…]>>. Mentre il femminile in ogni civiltà, anche le più lontane dalla nostra, è associato al buio, all’oscuro, al ctonio, all’umido, il maschile è invece sempre associato alla luce, al cielo, al secco. Tanto basta per riaffermare il carattere intrinsecamente grandematerno della mafia.
Quanto detto rovescia un assunto tanto consolidato quanto falso. La mafia è associazione di stampo psicologicamente matriarcale, per contrastare il quale, così come per rompere la naturale, ma nel tempo mortifera spiritualmente, simbiosi del bambino con la madre, occorre l’intervento del padre: quello personale all’interno della famiglia e quello metaforico o sociale che rompa la legge mortifera del clan e apra per i suoi appartenenti la strada verso l’indipendenza di giudizio, la possibilità/capacità di trasformare il mondo, insomma tutto ciò che si chiama coscienza. <<Quando, a causa dell’eccedenza del codice materno, viene a mancare una sufficiente integrazione del principio di realtà, si verifica la bonificazione dell’intera famiglia <dello stesso sangue> (il collettivo privato, il clan, la “famiglia mafiosa”) e quindi l’esportazione del male, della colpa, nel Padre impersonale (il collettivo pubblico, lo Stato)>>.
Anche per Leonardo Sciascia, ad onta dell’apparenza patriarcale, la società siciliana è << una società matriarcale in cui la donna ha avuto il suo impero […] Molte disgrazie, molte tragedie del Sud ci sono venute dalle donne, soprattutto quando divengono madri […] Quanti delitti d’onore sono stati provocati, istigati o incoraggiati dalle donne! Dalle donne madri, dalle donne suocere>>[16]
Dunque, l’assunto che una vera liberazione della donna non potrà realizzarsi in una società che rimane patriarcale, va invece rovesciato. E’ la società matriarcale, come lo è la Mafia e come è ancora in gran parte il mezzogiorno italiano, che non solo inchioda gli uomini al ruolo di figli non emancipati e quindi subordina il principio maschile, ma impedisce di emergere anche al lato luminoso e sororale, accogliente e saggio nella sua concretezza, del femminile. Se teniamo presenti queste coordinate, allora anche il fenomeno sociologico delle donne “padrine”, deve essere letto si come pseudoemancipazione, ma per motivi opposti a quelli che emergono da una lettura superficiale del fenomeno mafia; non, cioè, come imitazione femminile dei peggiori caratteri maschili, ma come assunzione diretta, non mediata da un maschile investito di un potere tanto forte socialmente quanto effimero e subordinato psichicamente, del lato divorante, onnipotente e distruttivo della Grande Madre. Il cerchio si chiude, per così dire, e del maschile si può fare completamente a meno, salvo, come al solito, che per i lavori subordinati e di bassa manovalanza, i più immediatamente violenti e crudeli.
Conclusione
E’ tempo di concludere e indicare una via di soluzione. Mafia, ‘Ndrangheta, Camorra, sono organizzazioni criminali sociologicamente (ancora) maschili ma fondate su un legame simbiotico inconscio con la madre o meglio con l’archetipo arcaico ma ancora largamente presente della Grande Madre nel suo lato divorante e terribile; tanto più influente su uomini e donne quanto più celato dietro apparenze sociologiche opposte. Tanto gli uomini quanto, con effetti diversi, le donne, ne sono contaminati e rimangono irretiti in una stagnazione psichica mortifera facendosi agenti attivi di una società chiusa, conservatrice in senso negativo perché ciò che vuole rimangano inalterati sono i rapporti di dominio personale e subordinazione sociale funzionali all’enorme arricchimento illegale e criminale di pochi, distribuendo ai molti quelle poche briciole che il potere pubblico, lo Stato/collettività non è in grado di garantire come diritto o non vuole farlo. Come uscirne? Come far si che, oltre all’ovvia azione giudiziaria e di polizia di contrasto al fenomeno, ci possa essere una vera svolta sul piano culturale?
Credo che da questo punto di vista siamo ancora molto indietro, anzi che esistano concrete tendenze che spingono in senso contrario.
Il TG 1 delle 13 e 30 del 6 settembre 2006, dette una notizia secondo me stupefacente: una donna, condannata in primo grado a due mesi di reclusione per aver reso dichiarazioni false atte a sviare le indagini nei confronti del figlio accusato di ricettazione, è stata assolta in secondo grado con la motivazione che una madre ha il diritto di mentire se è in gioco la libertà della prole.
Cosa rappresenta questa sentenza se non un drammatico cedimento alla stessa mentalità che abbiamo visto dominare nella mafia? Cosa rappresenta se non l’ammissione che il diritto, la legge paterna valida erga omnes, ha un limite invalicabile di fronte al diritto di sangue di origine materno/matriarcale? I richiami incessanti alla legalità, i corsi promossi con buona volontà da tanti enti pubblici e privati sulla legalità, non potranno mai fare breccia non solo se non si risolvono gli acuti problemi sociali che contribuiscono al permanere del fenomeno mafioso, ma prima ancora se non si fa chiarezza, senza reticenze, sulle sue origini psichiche. Con una ammissione per molti aspetti sorprendente e molto contraddittoria viste le sue posizioni politiche progressiste, Umberto Eco, in una intervista rilasciata a Eugenio Scalfari pubblicata su La Repubblica del 2 marzo 1994, dal titolo E’ una destra senza legge, scrive che <<Il problema dell’Italia è che non è mai riuscita a trovare un’immagine paterna[…] L’Italia è sempre stata una confederazione di zii, con una madre indulgente, la Chiesa […] Il padre fa paura, da noi […] Il padre è la legge>>. Ecco, dunque, una indicazione, peraltro la stessa perorata da Silvia di Lorenzo. Il padre è la soluzione.
Ma ciò significa che, qualsiasi critica gli possa rivolgere spesso a ragione, il problema non è il prodotto del padre, ossia il Patriarcato, ma che, anzi, è solo facendo in qualche modo ricorso ad esso che si può uscire dalla palude del dominio psichico grandematerno che domina non solo la mafia ma anche tanta parte della nostra società civile. Il padre personale e quello collettivo, sociale, sono gli agenti della rottura della simbiosi madre/bambino, clan/adepto, ponendo con ciò la possibilità della crescita psichica del soggetto e della conquista della coscienza individuale col suo portato di assunzione di responsabilità sociale, condizioni necessarie per una vera libertà e per qualsiasi ipotesi di trasformazione del reale. E’ altrettanto evidente che della rottura simbiotica ne beneficeranno non solo i figli maschi ma anche le femmine, ed anche, infine, le donne/madri non più imprigionate in un ruolo che allo stesso tempo le esalta e le imprigiona.
Ma ancora non basta, perché non si è davvero padri, e quindi non si libera nessuno, se non si possiede una salda virilità interiore, cosa, non ci stancheremo mai di ripetere, affatto diversa dalle manifestazioni esteriori della maschilità. Alla fine, dunque, è dal maschile (simbolico e concreto) che dipende anche la liberazione del femminile. Anche in questo caso sono i miti, espressione degli archetipi, che ci vengono in soccorso.
<<Proprio perchè il maschile trova se stesso e la sua esistenza autentica nella coscienza, mentre dovendo necessariamente sperimentare l’inconscio come femminile, lo sente qualcosa di estraneo, lo sviluppo della cultura maschile significa sviluppo della coscienza>>[17]. Neumann sta parlando del mito dell’eroe, che solo identificandosi col maschile può accedere al combattimento contro il drago-Grande Madre arcaica delle origini, ove regna l’indistinzione e l’ io non diversificato vive in fusione simbiotica col tutto, e vincerlo nel senso di accedere alla conquista della coscienza soggettiva. Ma, prosegue, <<la trasformazione del maschile che avviene nel combattimento contro il drago, comprende anche una trasformazione del suo rapporto col femminile; questa trasformazione è simboleggiata nella liberazione della prigioniera dal potere del drago, cioè nella separazione dell’immagine della femminilità da quella della Madre Terribile […] solo ora il maschile è diventato maturo […] ora esso non è più lo strumento di una Madre Terra a lui superiore, ma si assume come padre la cura e la responsabilità di ciò che ha generato>> Si entra così, prosegue, nell’età patriarcale, ma non come oppressione del femminile, bensì anche come sua liberazione/emancipazione dalle forze arcaiche che la imprigionano e la fissano. Quando i miti, di diversa origine ma di analogo contenuto, si trasferiscono dal mondo degli dei al mondo terreno <<la trasformazione e la liberazione del femminile diventano compito dell’eroe. Nella prigioniera il femminile non appare più come un archetipo transpersonale superiore, come potenza travolgente dell’inconscio, ma come un elemento umano, come partner, con cui il maschile può congiungersi in un rapporto personale. Anzi, questo secondo aspetto è qualcosa che va liberato, salvato, redento e che desidera che l’uomo dimostri di essere maschile, cioè di essere non solo il portatore di uno strumento fallico fecondante ma anche una potenza spirituale, un eroe. Il femminile si aspetta forza, intelligenza, impegno, coraggio, protezione e disponibilità a combattere. Le richieste al salvatore possono essere di vari tipi: deve infrangere le porte della prigione, neutralizzare le forze magiche e mortali di natura sia materna che paterna [perchè esiste anche nel padre un lato divorante e terribile. n.d.r], abbattere la barriera di spine o di fuoco che rappresenta l’inibizione e l’angoscia, sbloccare o risvegliare la femminilità, vincere una battaglia di intelligenza risolvendo enigmi, sconfiggere la depressione o la tristezza>>[18]
Due note finali
- a) Scorrendo le note e i riferimenti bibliografici sul tema mafia, il lettore si accorgerà che sono quasi tutti al femminile. Il che è positivo, perchè significa che, pur non sempre esprimendo concetti condivisibili, le donne il problema del loro coinvolgimento nella mafia se lo pongono, e ne discutono. Colpisce invece la quasi totale assenza di voci maschili, quasi che gli uomini manifestassero grande timidezza e reticenza a discutere di un tema scottante, suscettibile di frantumare l’immagine rassicurante della donna “innocente” o , al più, colpevole di aver assunto certi canoni culturali maschili. In ciò scorgo, ancora una volta, il tentativo estremo di proteggere la donna. I motivi rimangono misteriosi e le ipotesi più d’una. Quello che però è certo è che con la reticenza gli uomini, oltre che del male a se stessi, ne fanno anche alle donne e ai figli.
- b) Il tema del legame simbiotico con un collettivo, se è evidente e pernicioso nel caso della mafia, tuttavia non si limita ad essa. Naturalmente con modalità e scopi diversi, e ben più positivi almeno nelle intenzioni, lo ritroviamo anche da altre parti. Nelle Chiese, ma anche nei partiti e nei sindacati, specificamente in quelli di sinistra, ed in altre organizzazioni/associazioni che per la loro natura e scopi creano forti legami. Il pensiero va alle purghe staliniane o alla Santa Inquisizione (sono solo esempi fra gli altri), in cui al reo era richiesto di ammettere le proprie colpe per salvaguardare il superiore interesse del partito o della chiesa, ma anche alle più modeste ma non meno significative crisi di coscienza quando le proprie idee non combaciano più con quelle del collettivo e si prospetta la possibilità di un distacco vissuto inconsciamente come tradimento. Il che, intendiamoci, ha un aspetto positivo perchè significa che a quella organizzazione o gruppo si è aderito per convinzione profonda e radicata e non per opportunità comunque mascherata, ma che si rovescia nel suo opposto quando si finisce per abdicare a se stessi su aspetti che si ritengono essenziali. Alla fine, il “diventa te stesso”, implica necessariamente anche la possibilità del “tradimento” o ritenuto tale. Ho personalmente vissuto alcune di queste situazioni, e non mi vergogno a dire, ad esempio, che quando abbandonai le cariche sindacali di cui ero investito, piansi. D’altra parte, però, il termine tra-dimento ha la stessa radice di tra-sformazione, e la trasformazione è Dipende dal come la si attua.
[1] Sentenza del Tribunale di Palermo , Prima sezione Penale, emessa nel maggio 1983. “Provvedimento di non luogo a procedere sulla richiesta di misure di prevenzione.” Cit. in Teresa Principato e Alessandra Dino, Mafia donna, le vestali del sacro e dell’onore, Flaccovio, Palermo 1997
[2] Ombretta Ingrascì, Donne d’onore. Storie di mafia al femminile, Il Saggiatore, 1994
[3] Teresa Principato e Alessandra Dino, cit.
[4] Alessandra Ziniti, Inchiesta Cosa Nostra? E’ femmina. Parla Teresa Francescato, magistrato alla direzione distrettuale antimafia di Palermo ……. , in www.d.repubblica.it maggio 1996.
[5] <Link href=”http://www.repstatic.it/cless/channel/espresso/2014-vl/css/font.css”rel=”stylesheet”>
[6 ]In http://www.stampoantimafioso.it/wp-content/uploads/Le%%20nelle%20organizzazioni%20mafiose.pdf. Tesi di Laurea di Monica De Meo, università degli studi di Milano, corso di Scienze Politiche, anno accademico 2010/2011.
[7] R. S., Le donne, la mafia, Il Saggiatore, Milano 1994
[8] Www.stopndrangheta.it , Renate Siebert, Donne di mafia: affermazione di unn pseudo soggetto femminile, 2003 da un’intervista di Ombretta Ingrascì. Citato in http://www.stampoantimafioso.it/wp-content/uploads/Le%20donne%20nelle%20organizzazioni%20mafiose.pdf
[9] Si vedano in particolare, Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma1978, ma anche Psicologia del femminile e La Grande Madre.
[10] Silvia Di Lorenzo, La Grande Madre Mafia, psicanalisi del potere mafioso, Pratiche Editrice, Parma 1996.
[11] S. d. L., cit., p. 25
[12] ibidem
[13] E.N., Storia delle origini della coscienza, cit.
[14] ibidem
[15] S.d. L. , cit.
[16] L.S., In un certo senso sono stato un pessimo maestro, Editoriale Malgrato tutto, citato in S.D.L, op. cit.
[17] E. N., cit., pag. 137
[18] Ibidem, pag 180/181