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Pochi giorni fa sono stato iscritto da una mia vecchia e carissima compagna di scuola ad un gruppo creato ad hoc su facebook per ricordare i fasti del liceo (l’Ennio Quirino Visconti) che abbiamo frequentato in gioventù.
Il gruppo, per la verità, ha un intento celebrativo, e in fondo è anche comprensibile. Mi ero ripromesso di tacermi però è stato più forte di me; del resto ormai molti di voi mi conoscono. Così ho iniziato a scrivere un commento e poi, come spesso mi succede e come ormai sapete, mi sono fatto prendere la mano e ho pensato che valesse la pena di scrivere un vero e proprio articolo su quell’esperienza e pubblicarlo su questo giornale; un breve racconto che, in fondo, è uno spaccato di quegli anni e degli anni a venire e può aiutarci a comprendere, esperienza diretta alla mano, gli accadimenti successivi, fino ai nostri giorni. Certo è soltanto una brevissima sintesi – come alcuni di voi sanno ho scritto diversi anni fa un libello autobiografico sulla mia burrascosa adolescenza, a metà fra il divertissement e l’indagine psicoanalitica, e un capitolo l’ho dedicato proprio alla scuola – però, forse, può essere interessante rifletterci. In fondo è vita vissuta, esperienza empirica, si direbbe in gergo filosofico, prassi, marxianamente parlando, ma è evidente che sto palesemente esagerando, anzi, la sto facendo fuori del vaso.
Comunque sia, ve la propongo.
“Devo essere sincero, non riesco a resistere alla tentazione (senza aver mai letto, colpevolmente, Oscar Wilde…) di scrivere ciò che penso della mia esperienza viscontina e soprattutto della tanto celebrata, o famigerata, a seconda dei punti di vista, professoressa Agata Moretti, che ho avuto la sventura di avere come prof. di latino e greco al ginnasio, nonchè mamma dell’ancor più celebrato Nanni Moretti, che ai tempi era solo un ragazzo che si divertiva a girare i suoi super 8. Per la verità era una insegnante di lettere ma siccome non sapeva nulla o quasi di italiano, storia e geografia, le sue lezioni erano dei terrificanti – per lo meno per me – tour de force di grammatica latina e greca, materie nelle quali era invece ferrata; per la serie “Non si uccidono così neanche i cavalli”, come recitava il titolo di un vecchio film…
Insomma, è un po’ come la vicenda della rana e dello scorpione. E’ nella mia natura dire ciò che penso. Se poi mi si offre l’opportunità di farlo su un piatto d’argento, come ha fatto l’ottimo Sandro Iovinelli, allora compagno di liceo e leader del comitato unitario – così si chiamava, anche se di unitario c’era ben poco – della FGCI, cioè l’organizzazione giovanile del PCI (che io allora contestavo radicalmente ma oggi, dati i tempi e l’epoca che ci è toccata in sorte di vivere, maledico chi lo ha sciolto) allora non ha neanche senso provare a resistere. E poi in fondo, diciamoci la verità, questo gruppo di discussione, inevitabilmente venato di un certo spirito nostalgico e un po’ (molto) celebrativo, si esaurirebbe nell’arco di pochi giorni, dopo la pubblicazione di qualche vecchia foto di gruppo nel cortile della scuola o di qualche gita a Venezia o a Siracusa (chissà perché le gite si facevano sempre a Venezia e a Siracusa, non l’ho mai capito…). Un po’ di pepe, quindi, anche se non richiesto, gli farà sicuramente bene e probabilmente aiuterà anche qualcun altro a levarsi qualche sassolino dalla scarpa, come si suol dire. E allora, forse, anche questo mio “outing” sarà servito a qualcosa.
Veniamo, dunque, a noi. Il Visconti è il più antico e prestigioso liceo classico di Roma ed era all’epoca (lo è sempre stato e presumo che lo sia tuttora) la fucina dell’alta e altissima borghesia romana (https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&cad=rja&uact=8&ved=0ahUKEwiWhLCtzYbOAhUF8RQKHVikDGIQFggcMAA&url=https%3A%2F%2Fit.wikipedia.org%2Fwiki%2FLiceo_classico_Ennio_Quirino_Visconti&usg=AFQjCNGX0Zm0wd0h-w73Ze4rsedt01xeYA).
Per dirla in parole per noi più familiari anche se non più di moda dato l’attuale (malsano) spirito dei tempi, era una scuola di classe, anzi, era la scuola di classe per eccellenza. Il Visconti era una sorta di istituzione, finalizzata alla formazione dei futuri quadri dirigenti. All’epoca in cui il sottoscritto lo frequentava si respirava ancora un certo spirito di casta. Gli studenti erano per lo più figli di alti magistrati, notai, grandi personaggi del mondo della cultura, della politica e del giornalismo, funzionari diplomatici, presidenti o amministratori delegati di aziende pubbliche o private, e via discorrendo. Naturalmente, come ogni istituzione, era figlia dei tempi, e quindi, per quanto si sforzasse di essere impermeabile, non poteva sfuggire ai processi di trasformazione in corso. Cominciò quindi ad essere frequentato anche dai figli dei “palazzinari” – che già allora erano il ceto emergente a Roma, futuri proprietari di banche, quotidiani e municipalizzate – dei macellai e dei commercianti “arricchiti”, “ammessi con riserva”, diciamo così, nel salotto buono, e addirittura, in virtù della scolarizzazione di massa voluta e sostenuta in particolare dai primissimi governi di centrosinistra, anche da una minoranza di figli della piccola borghesia e di lavoratori. Ciò era reso possibile anche dal fatto che esistevano alcune linee di autobus (dobbiamo al primissimo centrosinistra anche la spinta al potenziamento del trasporto pubblico) che collegavano direttamente alcuni quartieri piccolo borghesi e popolari con il centro storico dove si trovava il liceo. Solo più tardi infatti, nel 1980, con la giunta Petroselli, si avrà a Roma la prima linea metropolitana che collegherà la periferia sud della capitale con il centro storico.
Erano i primi anni ’70 e la Sinistra (anche quella con la S maiuscola) esercitava ancora una certa egemonia culturale nella società italiana, prima di essere travolta e di diventare organica al Capitale e al Mercato, cioè la Nuova Religione Secolarizzata con tanto di clero accademico-mediatico al seguito. Il Visconti, dove si concentrava la crema dei rampolli della “Roma bene” rappresentava una sorta di cartina al tornasole, sotto questo profilo. Del resto il ’68 aveva travolto a colpi di “minigonna, champagne e molotov” il vecchio apparato ideologico e valoriale borghese (Dio, Patria e Famiglia) e nessuno o quasi, per lo meno fra i giovani, ne aveva particolare nostalgia. In realtà oggi sappiamo con certezza (e solo i gonzi si ostinano a non capirlo) che la borghesia si stava rifacendo il look – solo Pasolini, fra gli intellettuali dell’epoca, lo aveva ben compreso, ovviamente per questa ragione tacciato di essere un reazionario – ma la gran parte di noi non lo aveva ancora capito e pensava di stare facendo la rivoluzione, compreso, naturalmente, il sottoscritto. E’ per questo che un episodio che oggi lascerebbe tutti a dir poco stupefatti come l’arresto di un giovane “viscontino”, figlio del presidente del più grande e importante ente nazionale italiano, durante un esproprio “proletario” in un negozio di chincaglierie di lusso per radical chic pieni di soldi, non provocò, illo tempore, più di tanto scalpore. Spero che almeno in quell’occasione qualche calcio nel sedere se lo sia preso ma tendo a pensare, ahinoi, che se la sia cavata.
Coerentemente quindi con la fase storica che si stava vivendo, cioè il passaggio da un sistema valoriale/ideologico considerato ormai obsoleto ad un altro giudicato non a torto più funzionale, sia pur abilmente camuffato sotto le bandiere “progressiste, di sinistra e politicamente corrette” e ai tempi addirittura rivoluzionarie (le classi dominanti, oltre ad essere sempre provviste di coscienza di classe, a differenza di quelle dominate, sono anche più furbe altrimenti non sarebbero tali) la gran parte dei giovani “borghesi”, compresi ovviamente i “viscontini”, seguirono, o meglio si adeguarono allo spirito dei tempi, anche se convinti di andare controcorrente. E proprio questa loro convinzione ce la dice lunga sul capolavoro ideologico e culturale messo in opera dai padroni del vapore.
E allora, chi più e chi meno in buona fede, chi credendoci o facendo finta di crederci, chi per rimorchiare, chi perché faceva più “figo” e tutto sommato non comportava (per i rampolli) particolari controindicazioni (se pure fossero stati arrestati in qualche manifestazione il padre li avrebbe fatti uscire telefonando al questore, e il problema della fedina penale macchiata non si poneva dal momento che quella era gente che non aveva il problema di vincere un concorso da coadiutore meccanografo alle poste…) la giovane borghesia si tinse di rosso; in realtà di rosa ma questo si scoprirà solo più tardi…
Una cosa è comunque certa. Di destra o di “sinistra” che fossero i giovani “borghesi rivoluzionari” (o rivoluzionari borghesi?…) erano intrisi della stessa spocchia classista e antiproletaria. Qualcuno fra loro – pochi, per la verità – cercava maldestramente di mimare un diverso atteggiamento. Una volta uno di questi giovani rampolli, figlio di un noto milionario, e naturalmente militante di Potere Operaio, venne a pranzo a casa mia. Ricordo che afferrava il cibo con le mani unte e quando mangiava faceva lo stesso rumore dei maiali. Al che mio padre gli fece notare che i proletari utilizzano le posate, quando mangiano la minestra non hanno necessità di succhiare dal cucchiaio e che per essere idealmente vicini alla classe operaia non c’è nessun bisogno di abbrutirsi o di fingersi poveri.
Al di là di questo specifico episodio, la gran parte dei “viscontini” e delle “viscontine”, in ragione della loro origine sociale che andava ben oltre le esternazioni di facciata, erano degli insopportabili ipocriti. La loro natura reale si ripercuoteva inevitabilmente anche nella sfera privata e relazionale. C’era un muro, neanche tanto invisibile per chi avesse avuto anche un solo occhio per vedere, fra borghesi e alto borghesi da un parte (la maggior parte, nel caso specifico) e piccolo borghesi e proletari dall’altra. Si, talvolta, magari anche spesso, ci si mescolava, ma la barriera di classe non fu mai veramente abbattuta, e anche il collettivo politico e gli altri organismi politici studenteschi non erano certo immuni o estranei a tutto ciò. Neanche le feste, le gite scolastiche, forse neanche le partite di pallone riuscivano a cancellare la realtà vera che c’era dietro a questo “gioco”, a questa recita collettiva.
Poi c’era il corpo docente. E anche questo rispecchiava più o meno fedelmente quanto stava accadendo in quella fase storica. La maggior parte degli insegnanti dell’istituto apparteneva ancora alla “vecchia guardia”, cioè erano dei vetero conservatori ormai al tramonto ed erano coscienti di esserlo anche se avevano timore di confessarlo, in primis a loro stessi. Per questo reagivano spesso con una notevole dose di livore e di rabbia alle proteste studentesche. Uno di questi era il preside, sostanzialmente un poveraccio, sia intellettualmente che fisicamente. Culturalmente impreparato, ai limiti dell’imbarazzante, era molto basso di statura, stortignaccolo, ingobbito, con una paresi che gli deformava il viso e gli impediva di parlare in modo comprensibile. A me faceva tanta pena nonostante una volta, durante un’assemblea non autorizzata, mi fece prelevare di peso dalla polizia che mi trattenne per qualche ora nel commissariato che si trovava proprio davanti alla scuola. Ovviamente questo soggetto fondamentalmente innocuo e in via di rottamazione, sia per ragioni naturali che politiche, era diventato il capro espiatorio, responsabile di ogni male, considerato un bieco reazionario fascista e naturalmente fatto oggetto di ogni genere di lazzi, sollazzi e sberleffi, non solo da parte degli studenti ma anche degli insegnanti, in particolare di quelli e di quelle di “sinistra”.
Una di queste, anzi, la prima fra queste, era appunto la Moretti, madre di cotanto figlio, che in realtà di sinistra non era, anzi, era una anticomunista viscerale. Lei stessa dichiarava di essere una “liberale di sinistra”; oggi sarebbe molto probabilmente una elettrice del PD. Si era costruita la fama di donna e insegnante “liberale”, di “sinistra”, tollerante, “aperta”, una che utilizzava nuove metodologie di insegnamento (quali? Boh…), forse perché consentiva ai ragazzi di fumare in classe durante le sue orribili e alienanti lezioni di grammatica latina e greca. In realtà era una accanita fumatrice, ai limiti della dipendenza, e quindi impossibilitata a stare quattro o cinque ore senza poter fumare neanche tre o quattro sigarette, per questo lasciava che i ragazzi sporadicamente ne accendessero qualcuna in aula. Da coerente liberale, per nulla di Sinistra ma certamente di “sinistra” (la s minuscola e le virgolette sono d’obbligo…), era una campionessa del più bieco e smaccato classismo. Il suo metodo era in realtà quello della frustrazione e della umiliazione sistematica, molto spesso se non il più delle volte pubblica, di coloro che lei riteneva non essere all’altezza, naturalmente secondo i suoi parametri di selezione, che poi in buona sostanza erano quelli di classe, anche se ovviamente non dichiarati. Non era indifferente alle lusinghe dei cosiddetti “secchioni” che la blandivano però le sue simpatie personali erano rivolte verso un’altra tipologia socio-umana. Ricordo che il suo “idealtipo”, per il quale nutriva un vero e proprio amore, era un giovanissimo e brillante militante del Partito Radicale (buon sangue non mente…) appartenente ad una ricca famiglia ebrea della capitale. Tutti coloro che, per qualsiasi ragione, “zoppicavano”, erano da lei dati già per spacciati. Lei stessa in diverse occasioni suggeriva ai genitori o agli stessi studenti di cambiare scuola, o addirittura di di pensare a “costruirsi un mestiere”, in poche parole di mollare gli studi. L’umiliazione pubblica degli studenti che non corrispondevano ai suoi criteri selettivi era sistematica e praticata con una palese violenza psicologica.
In realtà era proprio lei che personificava quel metaforico passaggio di consegne tra una falsa coscienza ed un’altra. Il vecchio e sgangherato preside era ormai un relitto del passato; era lei che rappresentava quel “nuovo” che da lì a poco sarebbe diventato egemone.
E proprio in quel “nuovo” consisteva (e consiste) la truffa. Lei, in quel contesto, rappresentava quella borghesia che stava cambiando volto e pelle, che da “vetero borghese” si apprestava a diventare ultra capitalista e per questo aveva bisogno di un nuovo apparato valoriale e ideologico. E lo ha trovato nell’ideologia cosiddetta politicamente corretta che nel suo piccolo, in quel contesto scolastico, la Moretti incarnava. In fondo è stata anche lei una apripista (se volessimo attribuirle un merito), anche se non so quanto ne fosse consapevole, ma questo è un particolare del tutto secondario. Fatto sta che in tanti la osannavano in quanto “liberale e progressista”, anche e soprattutto quei gonzi militanti di questo o quel gruppo di estrema sinistra che non avevano capito nulla del reale processo di trasformazione della società capitalista e che ancora si ostinavano (e si ostinano ancora…) a sovrapporre il dominio capitalistico con la vecchia cultura reazionaria, maschilista e patriarcale. Molti altri invece facevano solo finta di osannarla, perchè avevano capito che era lei che aveva il vento in poppa. E mentre era facile, direi facilissimo e anche un po’ da vigliacchi, prendersela con quel vecchio rudere del preside, era assai più difficile prendersela con lei e con ciò che ella, in erba, rappresentava”.