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L’impero che non c’è più
Non ci sono più i Balfour, i Kitchener, i Rhodes e nemmeno i Churchill. L’impero da tempo non c’è più e ogni nostalgia imperiale è ormai un fossile storico e si deve confrontare con un mondo molto più limitato e concentrato. Così Cameron, Johnson e lo stesso Corbyn appaiono leader paesani, nel bene e nel male, rispetto ai grandi, nel bene e nel male (ma qui soprattutto nel secondo), ai primi. Ed anche alla Thatcher in fondo associamo Reagan e a Blair i Clinton. Infatti quella dell’isola che fece “il gran rifiuto” è soprattutto una storia dello scontro tra due sub-civiltà come le chiamerebbe Samuel Huntington, che peraltro lui da credente nel “mito occidente” non ha mai auspicato. Analitici vs Continentali o se si vuole Anglosassoni ed Europa Continentale. In una antica vignetta[1] Napoleone prende l’Europa e WIlliam Pitt per l’Inghilterra gli Oceani, il pasto di Napoleone risulterà indigesto mentre quello dell’Inghilterra gli darà l’Impero (all’epoca gli USA erano solo una manciata di colonie ribelli che anche nel 1812 gli ex-padroni proveranno a riportare all’ovile). Curiosamente nella vignetta l’Inghilterra resta isolata tra i due tagli come se Pitt non fosse inglese ma americano. Lo stesso pasto finirà per far morire d’indigestione Hitler, ma siamo sempre lì “dominio sul mondo” contro “dominio sull’Europa” considerata il suo centro.
La fatica dell’essere impero.
Per una nazione piccola reggere le sorti del mondo era comunque complicato. L’Impero inizialmente era solo una catena di annessioni fittizie e di politica delle cannoniere per permettere la penetrazione del commercio (la globalizzazione di allora), ma con l’emergere della ribellione da parte delle colonie finì per diventare dominio di fatto, il che rappresentava una enorme spesa ed un enorme dispendio di energie. Per cui i governanti dell’Impero tendevano a rendere autonomi i territori conquistati a patto che fossero dominati da una elite locale bianca anglosassone formata nelle università inglesi ma di fatto autoctona. Nasce così l’idea di Commonwealth. Ma la progressiva autonomia si scontrava con l’emergere di un’altro pericoloso contendente sulla scena mondiale: quella manciata di colonie si era ormai trasformata nella prima economia mondiale e questo era un formidabile attrattore del mondo anglofono il cui centro divennero gli USA. Per queste ragioni era inevitabile il passaggio di testimone tra UK e USA che fu sancito, sebbene iniziato molto prima, a spese dell’Europa nella II guerra mondiale con la demolizione definitiva delle ambizioni della sub-civiltà continentale. Non aveva d’altra parte più senso pensare al “dominio sull’Europa” senza leggerlo in un ottica mondiale in quanto il mondo multipolare bussava alle porte e si può considerare la fase della guerra fredda come il progressivo instaurarsi di diversi poli in oriente e occidente. Ma attenzione, il “dominio sull’Europa” non è un idea morta, essa si è riciclata nell’UE ancora di più dopo la caduta del muro, come non lo è quella di “dominio sul Mondo” che è portata avanti dalla c.d. Anglosfera[2] alla quale l’UK appartiene di diritto. Il dominio sull’Europa guarda caso ha per suo perno il mondo germanico attorno al quale la stessa Francia finisce per orbitare.
L’isola in bilico tra due mondi.
L’UK è un’isola sospesa tra due mondi quello anglosassone e quello europeo continentale. E’ la conseguenza naturale della perdita dell’impero, dell’ascesa degli USA e dell’emergere di un continente sempre più a trazione germanica. Ecco la tentazione di tenere i piedi in due scarpe: di prendere il meglio dei due mondi. Per le classi abbienti il liberismo economico, spesso confuso col liberalismo, da cui discende ma non è identico, e con il mito del self-made man che si è poi tradotto in una diffusa precarizzazione soprattutto dei giovani. E’ curioso notare come solo una parte di questi si sia espresso per il “remain”, mentre la maggioranza hanno ignorato la domanda probabilmente convinti che non sarebbe cambiato nulla. Un atteggiamento anarchico, ma che segue naturalmente la convinzione tutta anglosassone che il diritto sia una questione prettamente individuale (common law) e che le norme generali contino in fondo poco o nulla a meno di non garantire diritti individuali come una lunga serie di “carte” testimonia (dalla Magna Charta alla costituzione americana). USA e UK sono d’altra parte le patrie dell’ideologia dei diritti umani e del politically correct purtroppo non sempre accompagnati, anzi ultimamente mai, dall’attenzione ai diritti sociali.
Finanza e lavoro
La finanza internazionale nel suo appoggio al “remain” ha espresso chiaramente il desiderio che Londra resti una piazza importante per essere trait d’union tra i due continenti: tra la potenza dell’economia americana e l’emergente modello tedesco ordoliberista. L’essere “isola di allibratori” è una garanzia che il brexit sarà in parte riassorbito in qualche modo facendo entrare anche l’UK nei diversi trattati in gioco come il TTIP; nonostante le sconfessioni americane iniziali, è chiaro che essa non sarà lasciata fuori. Potrebbe addirittura portare dei vantaggi (sempre ai soliti), che tuttavia con il suo specialismo, già essa in parte aveva nell’ambito UE.
Al contrario si è giustamente affermato che dal punto di vista del diritto del lavoro il brexit rappresenta una perdita per i lavoratori inglesi in quanto ora possono essere esposti a nuove ondate liberiste[3]. Mentre per i lavoratori del sud europa, non solo l’Euro, ma anche le politiche liberiste della stessa UE con l’imposizione dei dettati della troika, il fiscal compact e l’austerity sono al contrario esse devastanti nella misura in cui il differenziale col mondo germanico è totalmente a favore di quest’ultimo. Ha contato nella partita qui anche l’immaginario dell’immigrazione incontrollata al quale hanno dato fiato le destre nazionaliste. La divisione tra “remain” e “leave” è stata interclassista e questo porta ad una pericolosa disgregazione sociale che deve essere analizzata probabilmente nel tempo con maggiore profondità. La disgregazione di una società divisa è causata dal liberismo selvaggio: parti delle classi oppresse si sono divise in una guerra tra poveri che ha opposto città cosmopolite e campagne/ex aree industriali identitarie[4]. Non è escluso che nella sua discesa agli inferi l’UK si frantumi ancora viste le tendenze presenti in Scozia e Nord-Irlanda (sebbene quest’ultima avrebbe mille ragioni per separarsi essendo l’ultima colonia rimasta dell’ex Impero). Il fallimento dell’UE è anche il fallimento di una sinistra socialdemocratica troppo prona ai dettami dei burocrati e del capitale. Invece di difendere l’idea di una europa “giusta” l’ha barattata in cambio del consenso delle elites e dell’ingombrante alleato d’oltreoceano, secondo le ricette neoliberali, auspicando un’area economicamente e militarmente omogenea che possa competere con la Russia e con l’emergente polo asiatico raccolto intorno alla Cina.
Sotto il vestito dell’UE
Vi è un evidente limite nella costruzione europea per come essa si è attuata dall’alto, in modo burocratico e ultimamente sempre contrario al principio democratico della scelta. Ma oltre questi limiti scontiamo anche un permanere degli interessi nazionali al di sotto del vestito dell’UE. Le peculiarità dell’adesione dell’UK all’UE sono note e sono tutte mirate a misure in fondo protezionistiche, ma le stesse misure a seconda dei casi le troviamo in misura maggiore o minore in tutti gli altri paesi dell’UE. Sono misure attive o passive, il tentativo di vendere i propri prodotti, che è anche l’argomento del TTIP, per legare alla propria economia quella di altre nazioni. Sono misure che non sempre riescono nell’attuale dispersione della produzione e nella c.d. economia dei servizi. In mondo con una crescita calante anche lo 0.1% di PIL sembra un successo, ma spesso è a spese di altri, anche i tuoi più stretti vicini. Le elites, cosiddette transnazionali, sono a confronto spesso con le elites nazionali che vogliono la loro contropartita in termini di sviluppo a spese di “altri”. Se questo avviene ancora in grande misura con le politiche neo-coloniali verso quello che era definito terzo mondo è anche vero che anche nel primo mondo non si fanno sconti a nessuno. La Germania nei confronti del mondo mediterraneo ne è un esempio. La liquidazione dell’Italia industriale avvenuta negli ultimi due decenni del secolo scorso appare persino più grave del destino di un paese come la Grecia le cui elites nazionali hanno completamente fallito nella propria analisi quando si sono imbarcate nell’UE e nell’Euro. Ma anche qui c’è stato probabilmente un qualche miraggio che ha fatto illudere che l’ombrello europeo avrebbe potuto integrare un’economia debole e non preparata a misure di liberismo estremo (peraltro fallite in tutti i paesi c.d. PIGS). Ma il baratto è sotto i nostri stessi occhi quando Renzi e Marchionne si impegnano l’uno ad attuare politiche del lavoro più liberiste in cambio dell’occupazione promessa dall’altro. Ma ancora anche in questi termini emerge ancora di più, se applichiamo all’intera UE queste considerazioni, come l’idea di una costruzione dall’alto passante per la porta dell’economia finisce per essere vittima della coperta corta della crescita e delle differenze strutturali tra paesi.
I rigurgiti nazionalisti di destra, i populismi anti-UE, i fascismi di ritorno sono pronti ad approfittare di queste differenze esaltandole col gioco dell’identità e delle piccole o grandi patrie, ma come sempre non hanno alcuna intenzione di modificare i rapporti di produzione o fare una lotta di classe. Per tale motivo sono anche, almeno per il momento, perdenti, poiché non riescono a pensare in modo alternativo al sistema stesso che finisce per riassorbirli ed assegnarli il “compitino” del controllo sociale e anche in questo caso essi diventano “dissenso permesso” non dissimili dalla “rivoluzione colorata”. I pellegrinaggi “a Canossa” nel senso di portare omaggio al sionismo da parte di leader e leaderini della destra attuale sono esemplificativi di quanto essi siano in realtà parte del sistema neoliberale e pronti all’uso, come a Maidan, se le cose dovessero peggiorare.
Riformare l’UE?
Quando qualcosa viene su male è meglio a volte rifarla da capo. Per come è strutturata l’UE è difficilmente riformabile dall’interno delle sue stesse istituzioni. Il meccanismo dei trattati sconta la tagliola delle eccezioni messe su dai governi nazionali che non vogliono certo essere messi da parte (immaginatevi che vogliano in Italia abolire le regioni o peggio in Spagna abolire l’autonomia catalana). L’UE è poi il problema forse minore rispetto agli altri due che una nuova Sinistra si dovrebbe porre, ovvero l’Euro e la Nato: quello che schiaccia i paesi “deboli” (o resi tali) e il controverso rapporto con l’alleato d’oltreoceano i cui interessi evidentemente non sono gli stessi di quelli di molti europei. Ma l’UE potrebbe essere anche il grimaldello per entrare in questi altri due problemi. Ritornando al discorso geopolitico iniziale: a cosa aspirerebbe l’UE, vista come erede del “dominio sull’Europa”, ad essere polo tra i poli in un mondo multipolare o seguire l’Anglosfera nel “dominio sul mondo” a guida USA stavolta come nell’epoca d’oro dell’imperialismo? Se l’Europa potesse democraticamente decidere di non inseguire gli USA in questa avventura, quale sarebbe la posizione dell’UK? Qui tutte le contraddizioni sollevate dal Brexit diventano palesi.
Si è parlato spesso di dare questo potere al parlamento europeo, ma questo appare molto difficile; è infatti inimmaginabile che un parlamento davvero eletto democraticamente da tutti i cittadini europei e che possa decidere ad esempio di limitare l’espansionismo della Nato o decidere dei rapporti con Russia o Cina possa essere mai ammesso dagli attuali governi e dagli USA. Anche se fosse ipoteticamente possibile si tirerebbe fuori la vecchia storia reazionaria dello “stress democratico” di Huntington, peraltro già emersa dopo il Brexit, sul fatto che troppa democrazia fa male.
Quali alternative? Una ricostruzione dell’UE dal basso è possibile?[5] E’ possibile soprattutto in modo pacifico senza passare per crisi ancora più profonde di quelle che stiamo vivendo già ora? Portare acqua al mulino della rete di “città ribelli” (Barcellona, Napoli, ed altre che si potranno aggiungere) non significa anche andare verso un Europa delle piccole identità locali? L’Autonomia non può essere la soluzione se non è supportata, almeno da un certo punto in poi, da una buona dose di un rinnovato internazionalismo, di una comunanza ideologica e di classe altrimenti le tendenze centrifughe prevarranno sui sentimenti di unità.
[1] https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Caricature_gillray_plumpudding.jpg
[2] Un Brexit per il bene dell’Europa https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&cad=rja&uact=8&ved=0ahUKEwiC08Xxw83NAhULWxQKHVpaCZUQFggcMAA&url=http%3A%2F%2Ftemi.repubblica.it%2Fmicromega-online%2Funa-brexit-per-il-bene-dell%25E2%2580%2599europa%2F&usg=AFQjCNGbFmztbbwB6tkVCRnQrOgfSyyTLA
[3] Brexit Euro Europa facciamo chiarezza? https://keynesblog.com/2016/07/01/brexit-euro-europa-facciamo-chiarezza/?utm_source=dlvr.it&utm_medium=facebook
[4] Brexit Catastrofe annunciata http://www.internazionale.it/opinione/john-foot/2016/07/01/brexit-catastrofe-annunciata
[5] Dopo il referendum britannico. Per una politica di coalizione e rottura costituente in Europa, contro ogni nazionalismo http://www.euronomade.info/?p=7463