“Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo”
Albert Einstein
Esponenti illustri del pensiero dominante sentenziano, con la consueta superficialità ben accoppiata alla propaganda, che chi è contro il petrolio è per la “decrescita felice”, come se fosse un eresia, e ignorando, perché impegnati ad agitarsi sul fondo della caverna, che si è ben dentro la “Decrescita infelice”, come evidenziato da Pierluigi Fagan https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/02/22/la-decrescita-infelice/ e a tale giudizio non c’è “alternativa” perché è la realtà
https://pierluigifagan.wordpress.com/2014/06/24/la-decrescita-non-e-un-alternativa/ (i) : cioè si è sotto il dominio della rendita, il concentrarsi di ricchezza e potere nei monopoli e, di contro, nella distribuzione a tutti di povertà e infelicità. Il geniale paradosso di Einstein qui citato chiude il suo primo testo, sottolineando il pensiero “vizioso” che ci domina.
Roma: osservatorio di una crisi
Il disimpegno caratterizza il clima politico delle elezioni comunali di Roma di giugno mentre l’occasione potrebbe riaprire il ragionamento e far riflettere, non solo sul destino di questa città ma della crisi dell’epoca di inurbamento o meglio della fine del gigantismo metropolitano. Dunque, l’ipotesi generale, del saggio, è che la metropoli non ha più senso, in particolare le metropoli occidentali non hanno più vitalità in ragione di un mutato assetto della produzione, non più incentrata sulla concentrazione dei complessi industriali e sopraggiungendo un ulteriore frammentazione dell’accentramento dei servizi legati alla maturità della rivoluzione informatica. Un ulteriore restrizione delimita il campo d’osservazione all’occidente, stante che le città africane e sudamericane hanno la funzione assistenziale di assorbire l’urto della modernità, mentre le megalopoli regionali asiatiche svolgono, amplificate, la classica missione industriale. Dentro questo quadro, Roma risulta osservatorio privilegiato multi temporale: infatti oltre a prospettare quotidianamente la dissoluzione “futura”, è di qui possibile, con un minimo di attenzione, avere a disposizione il “passato” e, quindi, poter interpretare il “presente”.
Roma: la classicità imperiale della metropoli
Le metropoli non ci sono sempre state e Roma, la più antica, ovviamente, è stata la metropoli naturaliter, cioè l’origine e il modello per ogni ulteriore metropoli. Questo archetipo Roma si è potuto formare per condizioni storiche difficilmente ripetibili: eredita le conquiste del cosiddetto “periodo assiale” (periodo storico 800 a.c-200°.c nel quale si formano tutte le civiltà umane) come lo intende Karl Japers (ii) , e diviene centro “assoluto” dell’occidente (quindi del mondo, stante l’incomunicabilità con l’estremo oriente). Questa sua solitudine è motivo divergente dalla funzionalità moderna: essendo stata Roma essenzialmente il centro “politico” e luogo di consumo delle produzioni “provinciali”. Questa libertà è la fonte dell’autorità di Roma nel dettare i modelli giurisprudenziali civilistici (teoria) e la struttura urbanistica (foro-basiliche-vie) standard per ogni altra città (pratica). In ciò è Urbe per eccellenza ma anche Roma non è stata sempre metropoli, anch’essa come sappiamo è Storia, si è costruita e poi dissolta. Da città diviene metropoli con l’Impero e con il passaggio decisivo situato nella transizione repubblica-impero, nella lunga guerra civile da Cesare ad Augusto. In questa fase si palesa la possibilità alternativa “orientale”: la suggestione di un decentramento “alessandrino” (poi realizzato solo 400 anni più tardi con Costantinopoli) che rinnovi il corrotto decentramento consolare sul quale si basava l’equilibrio dei poteri repubblicani. Tuttavia con la vittoria di Augusto prevarrà il centro-occidentale-latino: l’imperium appunto.
La breve fortuna delle metropoli “moderne”
Napoli a metà del XIX secolo, quando con il 1848 la borghesia smette gli abiti rivoluzionari, è la città più grande d’Europa e dell’occidente, dovendo definirsi ancora la nazione nord-americana (ciò avverrà dopo la guerra civile degli anni 60). Poi, in concomitanza con lo stabilizzarsi delle colonie “capitalistiche”, si ingigantiscono i centri imperiali: Londra e Parigi su tutte. Le metropoli della modernità sono segnate proprio da questa loro principale funzione “economica” (in luogo della romana funzione politica) e da un contesto politico invece che le restringe a “capitali nazionali”, a modelli, certo, ma per un solo popolo. Porti, centri commerciali ibridati da sobborghi industriali, questo tipo di città sono modellate dalle necessità del capitalismo che al tramonto della produzione industriale, alla metà del XX secolo, ne ha fatte centro di servizi e ancora luoghi della finanza, recuperando in parte la romana vocazione parassitaria al consumo. Ora il loro destino c’è già, è già visibile, ed è la ”Città di quarzo” (iii) , la Los Angeles raccontata da Mike Davis, la prima città regione, una rete senza centro un ghetto enorme sul quale dominano le colline dei ricchi. Lo spazio urbano, nella tradizione statunitense, è dove risiedono i diseredati senza alcuna speranza di integrazione (finito il sogno kennediano e le disponibilità keinesiane) ma sottoposti all’effetto disgregante dei “traffici” cittadini, impossibilitati a ricostruire comunità come rappresentato nello splendido affresco di “Fa la cosa giusta” (iv) di Spike Lee. In questo senso il realismo pragmatico USA è superiore all’affanno europeo nutrito di ingenti risorse economiche volte ad imbellettare le città nell’illusione di farne centri di direzione politica. Il caso dell’expo “alimentare” milanese è emblematico: la presunzione di dare indicazioni alla nutrizione da una grande città mentre questo monopolio è nelle mani di sapienti multinazionali, con sedi legali in paesotti svizzeri come la Nestlé a Vevey nel cantone di Vaud. D’altra parte la politica economica “vera”, viene decisa a Davos nel cantone dei Grigioni, come se alle città ai piedi delle Alpi spettasse, poi, solo la “messa in scena” del canovaccio.
Agonia improduttiva della metropoli
Dunque, in questa transizione, le metropoli appaiono enormi meccanismi amministrativi\disciplinari, mondi autoreferenziali con la funzione di contenere ed equilibrare i mali sociali legati alla fine del lavoro “vivo”. L’ultima e suggestiva scommessa operaista di Negri e Hardt (v), nella trilogia imperiale , è che le metropoli siano il destino delle “moltitudini”; in questa macchina i diseredati sarebbero capaci di assorbirne la scienza (politica) per costituirsi poi in “General Intellect” (secondo l’amatissimo per la cultura operaista “frammento sulle macchine” dei Grundrisse di Marx (vi), peraltro importante, per il risvolto “realistico”, anche per queste pagine) e avviare la rivolta. Tuttavia, come appena detto, le città non sono più il centro del sapere; in questo senso l’operaismo si mantiene ben dentro il “fabbrichismo” come centro-modello della produzione, incapace di storicizzare l’effetto della rivoluzione informatica che ha come effetto più concreto, quotidiano, il decentramento della comunicazione e del ciclo produttivo. Le moltitudini che mai dovessero rivoltarsi nella metropoli si troverebbero nella solitaria situazione degli eserciti napoleonici e nazisti alle porte di Mosca o meglio, come sempre Los Angeles con la rivolta dell’aprile 1992, a dar l’assalto ai centri commerciali per riconfermare il paradosso di non poter fuggire dalla prigione di “consumo” che è quella (e molte) città senza piazze (agorà).
Partenza del viaggio: a che punto è Roma?
L’agonia delle metropoli va assecondata, diretta e non contrastata; il fine è tornare ad una proporzione umana, cioè comunitaria, di “città”; la novità è superare la costitutiva separazione sociale città\campagna; la realtà attuale, il presupposto negativo, è il potere pervasivo della rendita immobiliare.
Per trovare i nessi tra questi 4 presupposti ho affrontato un viaggio dentro e attorno a Roma, utilizzando queste 4 cose: uno smartphone (gr 130), una bici da città (uso quotidiano per andare al lavoro, kg 15) e una bici da strada (uso settimanale per gite in provincia kg 8,5) e il libro “I quartieri di Don Bosco e Appio Claudio a Roma” (gr 850) recente preziosa guida di Sandro Iazzetti (peso tot = kg 24,5 ca) .
Al postutto, quale è il mezzo pratico per misurare la nostra cultura storica? Eccolo, è semplicissimo: ¬ la nostra capacità ad intendere il presente.
Recatevi nelle mani i giornali dell’ultima quindicina. Abbiate sott’occhi un passabile atlante geografico. Fate di aver libero maneggio delle ovvie cronache annuali riassuntive. Capite l’ultima notizia?
Antonio Labriola “Da un secolo all’altro” (vii)
Attraverso lo smartphone reperiamo rapidamente “l’ultima notizia”: “Donald Trump vince il super martedì”, poi se torniamo sulle “cronache annuali riassuntive” incontriamo, seppur in declino, Silvio Berlusconi. Allora come possiamo “intendere il presente”? Due immobiliaristi (o palazzinari ben in arnese) hanno ruoli politici preminenti. La politica divorziando dalla Storia, sul lato teorico della conoscenza, e dal popolo, sul lato pratico della società, non sa del destino della città e della sua antropologia. Per questo la città è stata abbandonata dalla politica e venduta, come la veste di Cristo, per quattro denari, agli immobiliaristi. Prendendo altre “ultime notizie” Roma è esemplare in ciò: la tristissima vicenda Marino, il commissario e poi l’attuale “Traversone”, la gara a perdere con candidature rissose ed improbabili, nelle imminenti elezioni comunali. La politica abbandona la polis, questo paradosso conferma l’agire nichilista e soprattutto prospetta un interesse improprio, esterno all’utile per la città: il nichilismo della finanza immobiliare. Cosicché la città non serve più ai cittadini ma a mantenere stabili le rendite immobiliari; se ora prendiamo altre “cronache annuali riassuntive”, quelle attorno al 2008, è evidente come la finanza dipenda dal mattone, attorno a cui ruotano mutui e ipoteche ma soprattutto quella stabile relazione sociale (il valore è relazione in Marx) data dal consumatore vincolato per decenni all’acquisto delle case. Su questa stabilità ottenuta con politiche di monopolio e droga del mercato, corruzione morale e economica, si basa poi la “scommessa”, i “futures” o meglio il fumo della finanza su altri settori, ma sotto a tutto c’è non il mattone, che in se è solo una pietra, ma, preciso ancora, “il feticcio del mattone” (il per sé) cioè il legame alienato “cittadino-mattone”. Anche un bimbo sa che a Roma, come dappertutto in Italia, ci sono assai più abitazioni che abitanti ma appunto il legame non si può “revocare in dubbio”, non si può fermare la “macchina” con lo stesso pensiero “usato per crearla” . La bolla immobiliare molto somiglia alla situazione di “Matrix” (viii) dove le macchine vengono alimentate dall’estrazione di energia dagli uomini, laddove la città è vampirizzata dalla rendita, che ovviamente –come in Matrix- nasconde tale meccanismo virale dietro allo spettacolo di nuovi quartieri, centri commerciali e grandi opere. Forse a Roma, e nonostante la maestria di Cinecittà, questi “fondali di scena” appaiano posticci e le numerose crepe –reali e metaforiche- lasciano intuire la matrice, qualcosa al di fuori della caverna.
Pedali prima dei libri
Per avviarci nella ricognizione sulla città, suggerirei di fidarsi dei sensi anzi di stimolarli –intorpiditi dall’astenia nella caverna- attraverso l’uso della bicicletta . Rispetto alla ancor più povera e spontanea visione del pedone “viandante”, la bici mi pare permettere una più rapida tessitura del territorio complesso e vasto, una più rapida informazione/formazione di un pensiero generale, di una “gestalt” della città dove i dettagli sono più rapidamente connessi tra loro (ix) . Non escludo i libri e gli autori di riferimento: i classici di architettura e urbanistica da Leonardo Benevolo, Italo Insolera e Paolo Portoghesi, ai più militanti come Antonio Cederna o Renato Nicolini e Vezio De Lucia che furono al fianco del sindaco Luigi Petroselli (x), che molto sapeva di Roma, ma preferirei usarli dopo il viaggio; ripeto, preformante è l’impressione fisica della complessità di Roma. Roma è certo museo di tutte le epoche storiche (tempo) ma è anche compendio spaziale di tutte le tipologie geo-ambientali (marrane, prati incolti, parchi, fiumi, mare, colline e quasi montagne) di tutte le urbanistiche e le architetture (tutti gli stili, quasi tutte le dimensioni mancando a dir il vero grattacieli significativi, dai vicoli, ai viali squadrati, alle autostrade cittadine, passando per la collezione più suggestiva di piazze). Mi sia concessa, rispetto agli altri autori, l’eccezione di riferirmi a Portoghesi, per la sua efficace teoria del post-moderno quale utile ausilio ad affrontare la variegata realtà romana. Tralasciando ovviamente il dibattito su Barocco e critica al movimento modernista, che coinvolse l’architetto con feroci critiche da una sinistra ben piantata nell’industrialismo, sarà utile assumere il concetto di Roma come conflitto permanente delle epoche che dicevamo e di spazi, mediati e risolti molto spesso da inventiva caotica e furbesca delle popolazioni che vi afferirono nel secondo dopoguerra e che crearono la spontaneistica architettura dei borghetti (ora smantellati), delle borgate e anche delle più solide e ricche“palazzine romane”.
Tra le tre sfere della città: la scoperta dell’anello verde
Questa è la bici da città, senza rapporti, con una posizione alta che permette una visuale panoramica (comprese le spalle, lo sguardo rapido dietro per capire dove sono le auto e intuire il loro abitanti); da lì Roma è così:
1) Roma è anzitutto il suo centro “aureliano”, di vicoli, dove occorre posare anche la bici; delle poche direttrici moderne conseguenti gli sventramenti (Corso Vittorio-Via Nazionale-i Fori imperiali-Labicana-Viale Trastevere) e poi il sistema dei lungotevere dove scorre il traffico di auto maggiore della zona. Questo è il nucleo intangibile della città e ciò verso cui occorre tornare. Intangibile nel senso che non si può fare altro sia urbanisticamente (le strade) che architettonicamente ma solo manutenzione e ristrutturazione; dove tornare nel senso che la città ridimensionata e sgravata di funzioni di servizio e politico-amministrative andrebbe “ripopolata”di persone disposte a curarla. L’attraversamento in bici suggerisce una formula: Roma (centro) è come Venezia senz’acqua nelle vie. Conseguentemente il centro va radicalmente chiuso alle auto, regolamentando l’eventuale massiccio uso di bici. L’unico eventuale intervento, e grande opera, che potrebbe pensarsi (fu già pensato) è un sistemazione dei lungotevere (magari con sotterranei) tale da permettere l’attraversamento, nord-sud, del centro.
2) Le indicazioni più interessanti del viaggio in bici le offre l’attraversamento della corona circolare “borghese-moderna” (dalle mura fino agli insediamenti degli anni 50-80 che hanno assorbito le borgate del fascismo Primavalle, Tufello, Trullo, Pietralata, ecc.).
Questi quartieri oramai socialmente abitati da ceti medio-bassi (nella zona Est e sud), medio-alti (nella zona-nord e ovest), sono connessi da una cintura molto verde, unica nel suo genere , che li collega. Questo è il suo periplo: partiamo a est dall’Aniene e giungendo al suo estuario sul Tevere, ci ricolleghiamo (Salaria) al sistema delle Ville Ada-Glori-Borghese con quest’ultima che permette la penetrazione verso il centro, mentre proseguendo per la Moschea e/o ciclabile Tevere arriviamo al Foro Italico e di qui al Parco di Monte Mario con ingresso poi su Pineto-Valle Aurelia dove è possibile per ciclabile Monte-Ciocci arrivare al Vaticano mentre da piazza Irnerio-Aurelia è possibile arrivare a Villa-Pamphili -> dai qui si può scendere o per Trastevere o a Testaccio riconnettersi -Via parco di Caracalla- al Parco Archeologico Appia-Caffarella-Acquedotti-> di qui parco di Centocelle, Villa Gordiani o Parco di Tor Tre Teste-Quarticciolo -> tornando infine all’Aniene. L’ho percorso, completo un paio di volte, la lunghezza complessiva è discreta 40/50 km, la viabilità è di sentieri sterrati (sull’Aniene e nelle Ville), piste ciclabili e marciapiedi, comporta qualche salita seria nella zona Monte Mario che con pochissimi interventi (per es. un impianto a fune o ciclabile a mezzo colle) potrebbero essere evitate, mentre con altrettanto leggerissimo intervento potrebbero venir protetti quei 4/5 km complessivi di connessione tra aree verdi. Ovviamente l’itinerario ha pregio e senso anche se percorso parzialmente o nelle sue varianti radiali (Villa Borghese/la ciclabile del Tevere/il Vaticano/l’enorme parco Archeologico). Credo che questo cuscinetto sia l’elemento più importante da impostare, perché permette la protezione del centro e prospetta il modello di integrazione di periferie “estreme” e campagna. Oltre la ciclabilità e dei suoi lievi interventi, tra di qua e di là del “ring verde” si stendono quartieri disomogenei nelle tipologie costruttive, dalle palazzine signorili e Palazzoni Umbertini agli interventi Popolari e di edilizia economica e popolare, dall’edilizia selvaggia modello palazzetti anni 50/60, all’INA casa dello stesso periodo; quartieri tutti però investiti dal traffico e soprattutto dalla sosta di milioni di veicoli. Qui, non solo al ciclista, il primo, intuitivo, intervento appare quello di trovare il posto per mettere le auto e cercare politiche di disincentivo al loro uso urbano. Invece quello più importante e strategico è creare un collegamento pubblico e razionale tangenziale –che magari segua il ring verde- tra i quartieri dove sono già e potrebbero dislocarsi attività di servizio sgravate al centro. Interventi leggeri di tram e filobus e utilizzo dell’anello ferroviario urbano, tutto ciò per difendere, come detto, il centro e affacciarvisi con delicatezza. Così, questa zona, potrebbe predisporsi a fare da fascia di assorbimento, tra il centro e le attività di mare-campagna-montagna che sono la provincia di Roma.
3) al di là di questo già articolato ma “riformabile” cerchio, c’è l’attuale dissipazione della confusa periferia estrema stesa attorno al GRA (di qua e di là) e che va destrutturata. Con la bici da città si fa fatica ad affrontarla perché è nella terra di nessuno, tracciata lungo le direttrici consolari e autostradali e\o a ridosso dei non-luoghi del consumo come i centri commerciali. Tra tutti i “sacchi” che Roma ha subito queste isole periferiche, certamente con la solita varietà abitativa e antropologica, portano le stimmate del non pensiero assoluto. Derivate proprio dal vizioso interesse finanziario, che si diceva, hanno prodotto il tipico “ammezzato” tra la Los Angeles delle casupole e senza high-way e le banlieue parigine, con i palazzoni e, per fortuna, senza omogenità etnica . Inutile elencare luoghi famosi alla cronaca – soprattutto la zona est e sud est è devastata ma rilevante è anche la distruzione verso il mare – questa confusione interferisce e ostacola il rapporto tra la città e la provincia perché rende irraggiungibile (traffico) la città e sporca il territorio provinciale rendendolo inutile alla città. La potenza che l’azione politica, la direzione degli interventi e la conduzione della battaglia contro la rendita, deve qui esercitare è quella più impegnativa e attualmente non si vede chi ne abbia coscienza (sapere+volontà, teoria/prassi).
La strategia a mio avviso è la radicale ristrutturazione di questi luoghi, con un alleggerimento demografico, il come fare progettuale (la tattica) è legato a ciò che ci dice il giro in bici da corsa nella provincia.
Il giro della tazza: la campagna accerchia la città e la salva
Il nucleo e i due gironi, con cui abbiamo strutturato la metropoli romana, sono iscritti dentro una “tazza” dal diametro piuttosto regolare (unico accorciamento è verso il mare) di 60 km delimitata a nord da Lago di Bracciano e Monte Soratte- a nord est dalla Sabina romana- a est Lucretili Tivoli- a sud est Prenestini Palestrina – a sud inizio Lepini Colleferro – a sud ovest colli Albani – a ovest il mare Ostia. Con la bici, in posizione più china, si possono percorrere le pendici e poi inerpicarsi su questo “rim”. Con escursioni intorno ai 100 km è possibile scoprire la ricchezza e le relazioni che strutturano segmenti del “bordo”: i suoi borghi, dei quali facendo torto a quasi tutti ricordo la straordinarietà di Tivoli-Palestrina-Ostia(che è Roma) e i Castelli come poli geografici della tazza e il rapporto con il territorio circostante. Oltre 80 dei 121 paesi della provincia di Roma sono in questa zona e questi satelliti possono svolgere il fondamentale ruolo “centrifugo” di alleggerire e rianimare il nucleo urbano. Attorno alla varietà antropologica (si va dal mare alla montagna, dalla Sabina, all’inizio della Ciociaria, fino al vivace polo dei Castelli) che è ancor ben accentuata in ogni paese, nonostante l’abbandono di vere politiche di sostengo e l’attrazione “centripeta” e omologante della metropoli, c’è ancora un tessuto produttivo agro-alimentare caratterizzato (dalle ciliegie e l’olio sabino, all’orto e allevamento bovino del litorale, al vino dei castelli, alla pastorizia della zona pre-ciociara); infine un patrimonio edilizio, nei borghi, da riutilizzare (ci sono ampli fenomeni di abbandono dei centri storici anche in luoghi meravigliosi come Rocca di Papa) e un territorio da riorganizzare e presidiare anche concependo innovativi e più lievi (penso alla bioedilizia del legno) insediamenti. Con la bici si ha la conferma di come Roma-provincia (tazza) abbia delle potenzialità produttive immense a patto che si difendano proprio quelle che ha già, insomma il più grande comune agricolo d’Europa riprenda con decisione questo settore (ricordo che la Maccarese è stata la più grande azienda agricola d’Europa): proprio come dicevamo da visionari noi della lista “Repubblica Romana” durante le ultime pessime elezioni comunali del 2013. Questi paesi potrebbero ospitare tutta quella terra di mezzo, il degrado di quella fascia di estrema periferia; con pochissimi investimenti si potrebbero potenziare collegamenti via treno garantendo viaggi tra 25 e 40 min fino al centro di Roma. A tal proposito, scendo ora dalla bici, e riprendo lo smartphone per inviare una mail (è simbolo ma ovviamente intendo ogni device tablet, portatile, PC): il gesto suggerisce lo strumento decisivo per ridurre gli spostamenti tra ogni anello della città. Con l’incremento del telelavoro e i servizi on line, chi già vive – e i nuovi abitanti- in paese non sarà emarginato –ora lo è già meno- dal partecipare a produzioni cittadine anche perché potrà ridurre l’infelicità dello spostamento fisico. Ovviamente il valore guida di tali interventi è non alterare le comunità preesistenti e lo strumento è un fortissimo vincolo “urbanistico architettonico” ispirato a due semplici regole: a) priorità e facilitazione del riuso dei nuclei storici; b) rigida limitazione procapite delle cubature nuove. Questi punti vanno articolati tecnicamente in altra sede nel dibattito politico con le comunità coinvolte.
i) Molti sono gli autori sullo sfondo, non citati, tra tutti ovviamente Serge Latouche cui si deve la concettualizzazione della parola “Descrescita” e Ivan Illich, “sapiente del novecento” come definito da Raniero La Valle, padre putativo della decrescita e attento alla bicicletta. Ho voluto tuttavia aprire con Pierluigi Fagan, per un tributo che devo lui di metodo e di merito. In particolare questi due articoli relativi alla decrescita ne danno piede economico sociale, togliendola da un uso di racconto poetico (mutatis mutandis la storicizzaione del socialismo che Marx opera nei confronti dell’utopismo socialista ne “Il manifesto del partito comunista”). Più in generale preziose sono due sue indicazioni: 1) il superamento aristotelico della pura posizione critica della filosofia per un pensiero “ponente” (non positivista: estensione\riduzione al metodo delle scienze naturali) in grado di rendere la “varietà” degli enti, cioè di portare nel pensiero la ricchezza del mondo. In questo scritto “pongo” ciò che ho potuto variamente sperimentare nella varietà romana; 2) la complessità come approccio “plurimetodologico” per mantenere la ricchezza dei piani di analisi (sociale, economico, culturale, politico) evitando il riduzionismo ad uno dei metodi (sociologismo, economicismo, ecc.) ma non perdendo di vista l’unità ragionante, il fine della spiegazione. Non sono come lui un grande esperto di geopolitica.
ii) Karl Jaspers, Origine e senso della Storia in italiano 1949
iii) Mike Davis, Città di quarzo, manifestolibri, 2008
iv) Spike Lee Fa’ la cosa giusta (Do the Right Thing) Film 1989 prod 40 Acres
V) Michael Hardt, Tony Negri, Impero (2003), Moltitudine (2004), Comune (2010) Rizzoli ed.
vi) Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-1858, 2 voll., trad. di Enzo Grillo, Firenze, La nuova Italia, 1968-1970. “Frammento sulle macchine” pp.389-411 https://criticalab.wordpress.com/2007/02/25/karl-marx-frammento-sulle-macchine-estratto/ “…Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità a esso. Fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale.”
vii) Antonio Labriola, Da un secolo all’altro, 1987-1903, Ed. Bibliopolis 2012, p.101.
viii) Mi riferisco alla trilogia di film dei fratelli Andy e Larry Wachowski: Matrix(1999), Matrix Reloaded (2003) e Matrix Revolutions (2003) ispirato al “mito della caverna” di Platone (libro VII de La Repubblica).
ix) Analoghe considerazioni animano la scelta già ricordata di Ivan Illich Elogio della bicicletta, Bollati Boringhieri 2006.
x) Cito questi autori perché presenti nella mia biblioteca o nella mia esperienza politica, facendo torto ad altri, segnalo le opere più pertinenti l’argomento Leonardo Benevolo Roma da ieri a domani, Bari: Laterza, 1971 Le avventure della città, Roma-Bari: Laterza, 1973, Roma oggi, Roma-Bari: Laterza, 1977; Italo Insolera Roma moderna Einauidi 2012; Italo Insolera, Roma moderna, Einaudi 2012; Paolo Portoghesi, Roma Barocca, Laterza ed.2002; di Antonio Cederna ricordando il suo grande lavoro di ambientalista urbano, fondatore di Italia Nostra, segnalo per la pertinenza all’argomento la vasta produzione giornalistica riguardante la tutela dell’Appia antica e la creazione del parco; Renato Nicolini, Estate romana. 1976-85: un effimero lungo nove anni, Città del Sole ed, Reggio Calabria, 2011; Vezio De Lucia La Roma di Petroselli, con Ella Baffoni, Castelvecchi, Roma, 2011; Paolo Berdini, Le città fallite, 2014.