Una prima impressione di questa tre giorni che lancia il progetto di SI. Positiva l’energia che si respira, la grande determinazione a rilanciare un progetto di riscatto della sinistra. Si capisce che stavolta si vuole scommettere veramente su qualcosa di non ancora ben delineato. Positiva la presenza diffusa di militanti giovani e giovanissimi. E’ positivo che, nelle parole di Mussi, che parla di tempesta economica perfetta, in quella di tanti costituzionalisti, che evidenziano la possibile fine della democrazia parlamentare, nelle parole preoccupate di Prospero, vi sia la netta consapevolezza della gravità estrema della situazione.
E proprio questa consapevolezza diffusa di quanto grave sia lo stato del Paese e del mondo rende poco comprensibile una certa leggerezza dei temi programmatici trattati da quella che sarà la dirigenza di quel nuovo soggetto politico. Nemmeno una parola sull’euro, da parte di nessuno, ma in compenso una cacofonia sulla necessità “storica” di proseguire nel processo di unificazione europea, gli Stati Uniti d’Europa, l’omaggio oramai stereotipato a Ventotene, il progetto, che si ripete nelle bocche di ogni oratore, di fare una fantomatica alleanza politica transnazionale con Podemos, Syriza, socialisti portoghesi, per cambiare i Trattati. Qualcuno degli oratori arriva persino ad ipotizzare un unico partito di sinistra europeo, non si capisce come, non si capisce in quale forma, se al di fuori dalle famiglie politiche europee esistenti (una Internazionale del keynesismo?) oppure dal di dentro (e allora sarebbe bene studiare e capire che esistono già, in una assise che si chiama Parlamento Europeo, il problema è che quella assise non ha alcun reale potere).
Eppure per tanti mesi è stato largamente detto, e spiegato (e quindi non tenerne conto è imperdonabile) che un’area valutaria comune con grandi divergenze fra i parametri macroeconomici di ogni partecipante, e priva di meccanismi di perequazione interna di tali divergenze, è costretta automaticamente a seguire la direzione delle politiche economiche del Paese leader, quello con la più robusta credibilità sui mercati finanziari. Quindi tu puoi fare tutte le alleanze europee che vuoi (ammesso e non concesso che ci si riesca, fra l’altro il quadro politico spagnolo è ancora incerto, e il fragile Governo portoghese rischia di esplodere in ogni momento per le sue stesse contraddizioni, mentre Syriza è oramai impegnata ad applicare un memorandum di austerità ancor più terribile di quelli del passato, e sarebbe difficile per Tsipras tornare indietro senza dare automaticamente ragione ai suoi detrattori), puoi fare il partito transnazionale, l’Internazionale de noantri, ma alla fine sei costretto, se vuoi rimanere dentro l’euro, a seguire le politiche del leader. Il quale non cambierebbe mai la direzione delle sue politiche economiche, sulla quale la Merkel e la Cdu/Csu si giocano il loro futuro, nemmeno se a fare pressione ci fosse una coalizione politica in grado di includere anche lo Spirito Santo. Ed al limite, ove messa alle strette da troppe richieste di cambiamento delle regole dell’austerità, la Germania ha già dimostrato, con Schaeuble, di non aver tante remore ad immaginare una rottura traumatica dell’euro. Evidentemente fatta nei tempi e nei modi che convengono alla Germania ed all’area delle economie nordiche ad essa legate, affossando definitivamente nel default le economie mediterranee, per poi farne campo di conquista. E tutto questo non è teorico: lo si intravede nel piano tedesco che vorrebbe imporre alle banche di aumentare il patrimonio di sorveglianza per tener conto del rischio-Paese sui titoli pubblici detenuti, che produrrebbe automaticamente o il collasso creditizio finale oppure quello dei conti pubblici, o tutti e due, nei Paesi indebitati. Non si riesce nemmeno ad evocare un piano B come strumento di pressione per ottenere il piano A del cambiamento dei Trattati, un piano B che, come suggerito, tra gli altri, da Lafontaine, preveda un sistema di cambi a parità centrale e ampi margini di oscillazione, che consenta di assorbire tramite le oscillazioni del cambio, anziché del salario, le esigenze di competitività di costo, e di recuperare sovranità monetaria.
Non riuscire a dire una simile ovvietà significa non essere nemmeno in partita. Significa non saper dare alle parole tanto sbandierate in questa tre giorni, come giustizia sociale o redistribuzione, un significato superiore a quello dell’aria fritta. Confondere il ritorno a valute nazionali in un sistema europeo simil-Sme con il nazionalismo aggressiva da ustascià, come hanno fatto molti degli intervenuti, è, nel migliore dei casi, il frutto di un blocco psicologico, basato sull’incapacità di affrontare una analisi sbagliata fatta in tutti questi anni. Significa non voler accettare che la crisi democratica e sociale in atto è il portato di una globalizzazione che svuota lo Stato nazionale di ogni possibilità di difesa.
E più in generale manca completamente una visione realistica di politica internazionale. Sento qualcuno, purtroppo con incarichi istituzionali, dire che la chiave di tutto è abolire il permesso di soggiorno. Decidendo di non fare politica, perché la politica significa governare, non rinunciare a governare. Significa non capire che il fenomeno migratorio va governato, certo con metodi non brutali come quelli della destra o del Governo danese ma con il massimo di accoglienza e di integrazione, puntando ad integrare i migranti in un sistema di diritti crescenti, sia per loro che per i lavoratori italiani, evitando il rischio di guerre fra poveri. Ma il flusso va governato, perché è una esigenza che tocca il senso identitario e di sicurezza proprio degli strati popolari che una sinistra dovrebbe ambire a rappresentare. Si rinuncia a capire che è ovvio che si debba offrire il massimo della solidarietà e dell’integrazione socio-culturale e lavorativa all’immigrato che attraversa il mare per venire da noi, ma la vera chiave di volta è creare le condizioni affinché egli non sia costretto alla scelta dolorosa di emigrare. Il che significa recuperare la vecchia parola che si chiama “anti-imperialismo”, che da Lenin e dalla Luxembourg ha rappresentato il cuore dell’analisi internazionale delle sinistre.
Nell’insieme, siamo ancora alla narrazione analgesica, al minestrone di buonismo, pacifismo di maniera, ambientalismo accademico (purché compatibile con la crescita economica, mi raccomando) privo di analisi sociale e di qualsiasi reale spirito antagonistico, proposte di reddito minimo garantito alla Negri-Vercellone che non tengono conto della complessità di un welfare a misura del proletariato cognitivo, che richiede strumenti di riqualificazione professionale, oltre che monetari. Il tutto nel solito quadro contraddittorio e conflittuale rispetto alle alleanze, che fa sì che, con una mano, si critichi il Pd come partito irrimediabilmente spostato al centro, e dall’altro si dia la possibilità di parlare a Cuperlo, che propone improbabili alleanze per un improbabile centrosinistra di ritorno. Che Cuperlo sia un interlocutore essenziale per le imminenti sfide referendarie non implica che lo si faccia addirittura parlare, disorientando persone entrate in SI proprio perché non condividevano la condotta gattopardesca della Sinistra Dem.
Questo minestrone programmatico e questa ambiguità tattica le conosciamo, sono quelle degli ultimi anni. Vale il 3% circa dell’elettorato. Se così dovesse essere, allora il progetto si ridurrebbe ad una operazione meramente commerciale di lancio di un nuovo brand, ed una apparenza di processo unitario guidato tutto dall’alto e da tatticismi di posizione rispetto al Pd, che, esaurito l’effetto-annuncio, riporterebbe sui valori elettorali marginali di questi anni. Una operazione che farebbe comodo solo a chi è geneticamente nato per fare da stampella al Pd, o a chi ne è uscito solo nella speranza di rientrare.
Se si vuole evitare un simile percorso, allora bisogna lavorare nella chiarezza. Che è quella che chiede l’elettorato, non composto certo da politici di professione o da amanti della tattica di posizione, ma da persone che chiedono risposte chiare a dei problemi concreti, e coerenza dei comportamenti e delle scelte rispetto alle risposte stesse. Iniziare a dire che il problema è l’Europa, e che se non si riuscirà a cambiarla occorrerà fare altre scelte. Che si identifica chiaramente l’area sociale che si vuole rappresentare, e che tale area sociale richiede un welfare specifico, anche innovativo, ma caratterizzato da elementi di inclusione reale (non il reddito minimo ma il reddito di inserimento, ad esempio) e di politiche economiche e dei redditi idonee a rilanciare la domanda, le prime, ed a riequilibrare il rapporto fra salario e capitale, le seconde. Che l’ondata di cambiamento tecnologico che sta investendo le economie mature in questi anni richiederà, in futuro, di ragionare su temi come l’equilibrio fra una sempre minore necessità di lavoro e la garanzia di benessere diffuso ed equamente distribuito, altrimenti finiremo in un Medioevo dove la cittadella di chi manovra le leve della tecnologia sarà assediata dai tanti esclusi privi di riconoscimento lavorativo, e quindi sociale. Che gli aspetti negativi o esplosivi della globalizzazione vanno governati cercando di agire sulle cause strutturali che li originano. Non subiti o affrontati in modo buonista o umanitario, un po’ con la logica della compensazione delle esternalità sociali negative per terrore di tornare a ripiegarsi su concetti, in realtà neutrali, ma apoditticamente colorati di valenze negative incomprensibili, come la comunità nazionale o le comunità locali, come suggeriscono le sinistre liberalsocialiste incarnate dai partiti appartenenti al Pse. Che il diritto all’inclusione socio-lavorativa ed a una vita libera da affanni materiali è, come minimo, importante tanto quanto i diritti civili (io direi più importante di questi). E che per fare questo non servono strane piattaforme informatiche, consultazioni on line o illusioni di partecipazione diretta, o ingannevoli spontaneismi dal basso che alla lunga non reggono alla durezza della fatica del governo, ma corpi sociali robusti e dotati della capacità di fare sintesi degli interessi sociali che intendono rappresentare, e mediazione rispetto agli interessi contrapposti. E che per fare questo occorre recuperare il meglio delle culture politiche socialiste, comuniste, socialdemocratiche e cattolico-sociali, attualizzandolo alla situazione. Che questo recupero non si fa con i tavoli di lavoro di tre giorni o con qualche chiacchiera su facebook, ma con un confronto intellettuale che sia il frutto dello studio e dell’analisi.
E bisogna dire che tutto questo è preliminare ai ragionamenti sul posizionamento nell’arco politico. Centrosinistra, ulivismo, oppure, alternativamente, contrapposizione ex ante rispetto al Pd sono marchingegni tattici utili a coltivare diversi tipi di orticelli, ma che non interessano minimamente agli elettori. Le alleanze devono essere guidate dalla proposta, non discusse quando la proposta non c’è. Da questo punto di vista, è condivisibile chi dice che, dalle amministrazioni locali guidate in alleanza con il Pd, occorre scendere man mano che tali amministrazioni vanno a scadenza. Per ricominciare daccapo. E dal capo giusto, che è quello della cultura politica. Non da quello degli apparentamenti.
Se non si dicono queste cose, non si dice niente di nuovo o di autonomo. Non si può ambire a rappresentare la “trasformazione”, come spesso detto durante la tre giorni. O si finisce per essere schiacciati dall’europeismo acritico e dal liberalismo moderato tipico del socialismo europeo, o ci si allinea alla demagogia grillina della democrazia diretta. Oppure si fanno narrazioni, ma oramai, come disse un famoso napoletano, ‘o presepe nun ce piace chiù. La vedo molto, molto dura.