Donald Trump è uno degli uomini più ricchi del mondo. Attualmente è anche il favorito nelle primarie per decidere il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti. Trump ha causato scandalo e indignazione negli ultimi mesi con una serie di dichiarazioni su minoranze e immigrati. In varie occasioni ha bollato neri e ispanici come criminali, ladri, stupratori. Recentemente ha cominciato ad attaccare i musulmani, che secondo lui, quando non direttamente coinvolti in azioni di terrorismo, sarebbero comunque simpatizzanti dei gruppi terroristici che si richiamano all’Islam.
Il politologo Jeffrey Winters argomenta che, in secoli passati, gli oligarchi tenevano in mano le leve del potere politico e militare in prima persona, ed era così che accumulavano e difendevano i loro enormi patrimoni. A quel tempo gli oligarchi erano spesso re, principi, o comunque capi militari con accesso diretto agli strumenti di coercizione degli stati. Al contrario, nel contesto contemporaneo gli oligarchi normalmente evitano il coinvolgimento in prima persona nelle vicende politiche e militari, che comporta sempre dei rischi. Preferiscono limitare la loro esposizione, e preferiscono che siano invece i governi e i rappresentanti eletti ad agire a protezione dei loro interessi, tramite gli strumenti della politica economica e della politica militare. Come mostrato anche da diversi studi empirici, anche quando democraticamente eletti, governi e rappresentanti finiscono spesso per promuovere gli interessi delle oligarchie economico-finanziarie (domestiche o estere che siano), verosimilmente perché devono operare sotto le loro influenze, pressioni, e sotto i loro vincoli.
Ogni tanto però qualche oligarca – per interesse, ambizione, narcisismo o semplicemente per noia – decide di rompere i ranghi, spezzare la solidarietà di classe e uscire dall’alleanza implicita che lega gli oligarchi, e si butta nella mischia politica. Quando questo succede, gli altri oligarchi non sono affatto contenti: il fuoriuscito mette a rischio gli equilibri esistenti. Trump dice spesso in comizi e interviste che la politica è in mano alle lobby economico-finanziarie, che questa è una minaccia per la democrazia, e che lui può risolvere questo problema perché è sufficientemente ricco da non poter essere comprato, da potersene infischiare di ciò che le lobby vogliono. Mente sapendo di mentire quando dice di poter risolvere il problema dello strapotere politico delle lobby. Ma le sue pagliacciate possono sicuramente creare scompiglio.
Trump è un troll, uno che attacca per provocare, sfasciare, seminar zizzania. È per questo che il suo comportamento preoccupa le élite economiche-finanziarie e le élite politiche che da esse dipendono. E questa preoccupazione spiega (almeno in parte) la guerra contro di lui scatenata all’unanimità dall’establishment economico, politico, istituzionale, e dall’oligopolio mediatico americano – incluso Fox News, il canale televisivo che molti considerano il principale vettore dell’ideologia della supremazia bianca e americana.
Coi suoi folli proclami, attentamente congegnati per attirare il massimo dell’attenzione, Trump squarcia il velo di ipocrisia di cui si ammantano gli USA e altre democrazie occidentali. Oltre che suscitare le simpatie di un certo tipo di elettorato, mette involontariamente in luce le tendenze razziste e imperialiste che purtroppo spesso affliggono e caratterizzano la nazione più potente del mondo. Le proposte politiche di Trump non sono poi così diverse da quelle di cui già si avvantaggiano le élite statunitensi e occidentali, e che spesso finiscono per aumentare le disuguaglianze a livello domestico e per fomentare alcuni conflitti internazionali, inclusi quelli che insanguinano il Medio Oriente. Ma il modo scomposto e sfacciato con cui Trump presenta queste politiche rischia di rendere inefficace l’opera di mistificazione con cui i potentati nascondono la violenza e i problemi causati dalle loro politiche.
Questa mistificazione ha un ruolo importante nel mantenimento dello status quo. È anche per questo che le pagliacciate di Trump non piacciono alle élite economico-finanziarie, che invece (come mostrano i sondaggi) avevano puntato inizialmente su Jeb Bush, il fratello minore di George W. Bush. Ora, vista l’incapacità di Jeb di attrarre consensi, hanno invece deciso di disinteressarsi alle primarie repubblicane e puntano direttamente su Hillary Clinton per la presidenza. I Clinton d’altronde fanno da tempo parte dell’establishment internazionale, e la cautela suggerisce alle oligarchie di confidare nella volontà di Hillary di mantenere gli equilibri attuali. È chiaro che, per chi invece ritiene che gli equilibri attuali a favore dei potentati economico-finanziari siano da modificare, è necessario evitare di reagire a Trump stringendosi a coorte a difesa incondizionata dei candidati preferiti dai potentati stessi.
Trump è una scheggia impazzita. E in quanto tale, non può essere d’aiuto, neanche involontariamente, a coloro che si oppongono allo strapotere politico delle oligarchie, e ai conflitti che questo strapotere causa. Tutt’al più può servire appunto a palesare gli effetti distruttivi delle attuali politiche. Purtroppo, solo molto raramente le guerre tra oligarchi vanno a vantaggio dell’emancipazione sociale ed economica di chi alle oligarchie non appartiene.
Fonte: http://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/6284-lorenzo-del-savio-e-matteo-mameli-il-significato-di-donald-trump.html