Una finanziaria depressiva

Finalmente, dopo oltre due settimane dalla sua presentazione, il Governo Renzi mette a disposizione tabelle e numeri del disegno di legge di stabilità, dopo averne discusso in segrete stanze con burocrati europei, il cui parere vale, evidentemente, molto di più di quello del Parlamento e dei cittadini. Emerge in modo ancora più chiaro, tanto che la Corte dei Conti ne dà una sostanziale bocciatura, l’impressione iniziale che avevamo avuto, ovvero quella, per parafrasare Churchill, di un nulla avvolto dal niente, costruito per mirabolanti slide piene di slogan elettoralistici. Ma sostanzialmente dannoso.
Le forze sociali confindustriali che, a questo punto devo dire in modo del tutto suicida, continuano a sostenere la narrazione rignanese, sostengono, in piena linea con la comunicazione renziana, che si tratta della prima manovra finanziaria “espansiva” degli ultimi anni. Lo fanno davanti ad una opinione pubblica narcotizzata, privata di chi sia in grado di proporre uno straccio di analisi critica.
Eppure basterebbero poche operazioni algebriche, condotte sui documenti ufficiali di fonte governativa, per capire la direzione di questa manovra. Si parte da un indebitamento netto pari, nel 2015, a 42,5 miliardi. Su tale base di partenza, il Governo stima due scenari previsionali per il 2016: uno detto “tendenziale”, ovvero uno scenario che stima i parametri macroeconomici e finanziari nell’ipotesi che non si intervenga con nuove politiche sull’assetto esistente, ed uno “programmatico”, le cui stime scontano gli effetti previsti da nuove politiche di intervento, come in particolare quelle contenute nel ddl di stabilità. Il primo scenario, quindi, evidenzia, per gli anni a venire, soltanto gli effetti di trascinamento delle politiche fatte nel passato, e, per il 2016, stima un rapporto disavanzo/PIL pari all’1,4%, ovvero a una diminuzione di 19,7 miliardi rispetto al disavanzo del 2015.
Lo scenario programmatico, invece, prevede un disavanzo del 2,2% del PIL, che, unitamente ad una revisione delle stime di crescita, porta ad un maggior disavanzo pari a 14,6 miliardi indotto dalla manovra finanziaria. Questi 14,6 miliardi sono le cosiddette clausole di flessibilità, ovvero il margine di deficit che la Ue ci accorda come contentino per aver fatto le riforme strutturali di impronta neoliberista che stanno sudamericanizzando l’Europa. La differenza fra i 19,7 miliardi di minor disavanzo prodotti dal trascinamento delle politiche vigenti, ed i 14,6 miliardi di maggior disavanzo prodotti dal ddl di stabilità è pari a 5,1 miliardi. Di conseguenza, nell’insieme, il disavanzo pubblico italiano continuerà a decrescere, per oltre 5 miliardi, nel 2016, portandosi dietro numerosi effetti recessivi legati ad una riduzione netta della spesa pubblica pari a 3,5 miliardi, che inciderà negativamente sui livelli di domanda aggregata e quindi sulla crescita.
L’approccio neoliberista oramai dominante ribatte che, a fronte dei 3,5 miliardi di minore spesa, vi sono 18 miliardi di minori entrate nette, replicando stancamente l’approccio di Laffer sugli effetti espansivi di un calo delle imposte, che non trova riscontri empirici (si vedano gli effetti disastrosi su crescita, occupazione e bilancio federale statunitense della sua applicazione nella reaganomics) per il semplice motivo che i moltiplicatori delle entrate sono di valore più modesto rispetto a quelli della spesa.
Che poi fosse vero che la pressione fiscale scende veramente! La Corte dei Conti, nella sua requisitoria odierna, ci ricorda che i 18 miliardi di minori entrate nette derivano per il 60% dalla disattivazione delle cosiddette “clausole di salvaguardia”, ovvero gli aumenti dell’IVA e delle accise ed i tagli alle tax expenditures che sarebbero dovuti scattare nel 2016, per un valore di 37 miliardi. In pratica, si disattivano aumenti fiscali che nella realtà non si sono mai verificati, perché previsti sulla carta, non ottenendo quindi nessun reale taglio a imposte realmente esistenti. C’è di più: nella sua nevrosi comunicativa, Renzi ha più volte annunciato, nei mesi scorsi, la rimozione di tali clausole, talché essa era già ampiamente inclusa nelle aspettative degli operatori, e non genera nemmeno, quindi un effetto positivo sul clima di fiducia.
L’abrogazione dell’imposizione sulla casa evidenzia tutta la sua carica propagandistica: il relativo onere sarà recuperato nel 2017 con un bel taglio di detrazioni e deduzioni fiscali, colpendo soprattutto le classi popolari, ed accentuando ulteriormente il connotato socialmente iniquo e regressivo di questa manovra.
A fronte di un taglio di imposte pressoché virtuale, tanto che, per ammissione dello stesso DEF governativo, la pressione fiscale sul PIL crescerà dal 43,7% del 2015 al 44,3% nel 2016, si continua ad incidere nella carne viva della spesa pubblica, sterilizzando pezzi di spesa sanitaria, con effetti sociali disastrosi ed effetti economici, sull’industria medico-farmaceutica, negativi, continuando a tosare la spesa corrente delle Amministrazioni Pubbliche, che con tale spesa, per l’acquisto di beni e servizi, mantengono in piedi segmenti di tessuto produttivo ed occupazione, ed infine, con un umiliante regalino di 5 euro al mese, si lascia che i dipendenti pubblici continuino a perdere potere d’acquisto reale, con effetti recessivi sui consumi e sulla domanda. Si definanziano 1,6 miliardi di investimenti, che avrebbero potuto portare occupazione. Per motivi puramente ideologici, privi di qualsiasi riferimento al bilancio, si taglia di 48 milioni all’anno il finanziamento dei CAF sindacali, fingendo di non sapere che di tali servizi si avvalgono soprattutto utenze di reddito basso.
Questo massacro sociale non serve nemmeno all’equilibrio dei conti pubblici, perché nella fretta di fare le slide sul segno più per farsi bello con cazzate come “ci occupiamo di chi arranca” (ed anche questo linguaggio, umiliante per chi è in difficoltà economica tradisce, come un lapsus freudiano, la natura reale di questo esecutivo) Renzi si è dimenticato delle coperture. Che sono, a dir poco, fantasiose. In alcuni casi contabilmente errate, perché si inseriscono misure una tantum (come la voluntary disclosure) per coprire voci strutturali. In altri casi irraggiungibili, come l’idea di mettere insieme, in tre anni, 17 miliardi di spending review sulle Amministrazioni Regionali ed altri 5,8 su quelle centrali. Quando, dopo oltre un lustro di risparmi forzosi, le amministrazioni italiane sono esauste e prosciugate, si ritiene che vi sia ancora grasso da asportare. Evidentemente, come molte altre voci sulle quali i tecnici del Senato hanno sollevato dubbi circa le stime fatte dal Governo (dalla voluntary disclosure alla stima di gettito aggiuntivo di oltre 1 miliardo dell’imposta sui giochi) o che saranno inattivate da ricorsi degli utenti (come la geniale idea di mettere il canone televisivo nella bolletta della luce, inaugurando una presunzione di possesso di apparecchi radiotelevisivi) ci troviamo di fronte ad una manovra che rischia, per assenza di coperture realistiche, di ottenere il brillante risultato di peggiorare i conti pubblici senza esercitare un effetto tangibile sulla crescita.
Un cenno sulla spending review delle Regioni e delle Amministrazioni Centrali. Anche qui, in realtà, dietro l’assurdità di numeri sparati più o meno a casaccio, c’è un messaggio politico: se le Regioni sono chiamate a tagliare per tre volte in più rispetto ai Ministeri, l’intento è quello di metterle in ginocchio, per poi smantellarle, sul modello della cancellazione delle Province. E, siccome i tagli rilevanti sono previsti per il 2017-2018 (per il 2016 vi è solo l’effetto delle nuove disposizioni sul pareggio di bilancio delle Regioni, che comunque vale da solo circa 2 miliardi) vi è anche una indicazione previsionale su quando si intende intervenire per realizzare il disgraziato intervento sulle macroregioni: si massacrano finanziariamente le Amministrazioni regionali nel 2017-2018 così, nel frattempo, a partire dalla fine del 2016, scapolato il referendum sulla riforma del Senato, si lavorerà sul progetto di legge dei due esimi costituzionalisti Ranucci e Morassut (il primo fa l’albergatore, il secondo è un esperto di atletica leggera, e si occupano di diritto costituzionale ed amministrativo, per dire quale sia il concetto reale di meritocrazia sub specie renziana). Lasciandone l’approvazione definitiva al nuovo governo che scaturirà dalle elezioni.
Diceva Mattioli che “tra i bilanci e le poesie ci sono parecchie parentele: entrambe sono opere di fantasia”. Evidentemente Renzi ed i suoi lo devono aver preso alla lettera. Sembra che la Commissione Europea lascerà passare questa legge di stabilità-arlecchino. Se così dovesse essere, potremmo concluderne la unica cosa che va conclusa: l’austerità è una copertura politica di una enorme operazione di ristrutturazione sociale dell’intera Europa, in senso regressivo. E i fedeli esecutori come Renzi vanno premiati.

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