Ovvero come lo Stato sta regalando soldi alle imprese che licenziano e riassumono per accedere agli sgravi fiscali della Legge di Stabilità
Tante imprese hanno licenziato lavoratori assunti a tempo indeterminato per riassumerli dopo sei mesi con il nuovo contratto a “tutele crescenti” ed avere 8.000€ in regalo dal Governo sotto forma di sgravi fiscali. I lavoratori si trovano così con un contratto più precario del precedente e il Governo può esultare per l’aumento dei contratti a tempo indeterminato. Di seguito vi spieghiamo come è successo, i tentativi di lotta dei lavoratori per bloccare la truffa e perché è necessaria una risposta collettiva a quest’attacco. Qui invece potete riascoltare la diretta con Radio BlackOut
A inizio 2015 il governo ha varato i primi decreti che riformano il mercato del lavoro, il cosiddetto Jobs Act, con lo scopo dichiarato di aumentare l’occupazione stabile mediante un nuovo contratto a tempo indeterminato, denominato a “tutele crescenti”. In sostanza, chi è stato assunto col nuovo contratto in vigore dal 7 marzo, non dispone più della protezione contro i licenziamenti illegittimi garantito dal discusso articolo 18 che non tutelava i lavoratori da tutti i licenziamenti, ma soltanto da quelli riconosciuti come illegittimi in sede giudiziale. Col nuovo contratto, invece, si potrà essere licenziati anche senza giusta causa o giustificato motivo, perché a crescere non sono le tutele, ma soltanto l’indennizzo cui si ha diritto: due mensilità dell’ultima retribuzione considerata per il Tfr per ogni anno di servizio, con un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità. Un lavoratore può dunque venire licenziato in qualunque momento, senza una motivazione valida. Una volta avrebbe potuto ricorrere contro il licenziamento e, constatata l’illegittimità del provvedimento, poteva avere diritto al reintegro nelle vecchie mansioni, oltre al ricevimento degli arretrati. Ora, invece, anche nel caso in cui il giudice accertasse l’illegittimità del licenziamento, il lavoratore avrebbe soltanto diritto all’indennizzo, ma non ritornerebbe mai al suo posto. Un bel regalo per i padroni che potranno così liberarsi di lavoratori indesiderati, ad esempio perché particolarmente combattivi nel far rispettare i diritti loro e dei loro compagni sul luogo di lavoro.
Per altro, per ricevere l’indennizzo, il lavoratore dovrebbe intentare una causa all’azienda con tempi e costi crescenti che non tutti potrebbero sostenere, tanto più in assenza del reddito da stipendio. Per facilitare ulteriormente la vita ai padroni, il governo ha comunque predisposto la possibilità per l’azienda di proporre un indennizzo alternativo al lavoratore che in cambio rinuncerebbe alla causa e, per rendere ancor più appetibile questa soluzione, ha reso quell’importo esentasse. In una situazione del genere quale lavoratore oserà opporsi alle angherie aziendali col rischio quasi certo di essere defenestrato, ricevendo in cambio un misero indennizzo, e con la prospettiva di dover a breve trovare un nuovo lavoro in un contesto che vede la disoccupazione ufficiale al 12%? Facciamo l’esempio di un lavoratore ultracinquantenne che lavori in azienda da vent’anni: questi, anche se vincesse la causa contro il licenziamento, riceverebbe 24 mensilità, quindi dovrebbe ricollocarsi al massimo entro due anni. Chi sarebbe disposto a rischiare di finire in una simile situazione? E un giovane che lavora da solo 2 anni sarebbe disposto a intentare una causa anticipando i costi per portare a casa 4 mensilità (di uno stipendio per altro prevedibilmente basso) e poi a dover sgomitare in mezzo ad una disoccupazione giovanile del 44%? Ovviamente i lavoratori che si esporranno a questi rischi saranno comprensibilmente molto pochi e la diretta conseguenza sarà che i padroni potranno imporre le loro decisioni sui lavoratori senza che questi possano fiatare perché sempre a rischio licenziamento.
Un caso particolare riguarda poi i settori gestiti con appalti, dove il cambio frequente delle cooperative appaltatrici genera un elevato turn over con lavoratori che cambiano spesso azienda: in questi casi il licenziamento diventa ancora più “leggero”, perché i mesi di occupazione su cui si calcola l’indennizzo saranno sempre pochi. Ecco allora che fin da subito proprio i settori dove sono frequenti appalti e subappalti sono parsi quelli più in pericolo.
Tuttavia i padroni non si accontentano mai e la sola facoltà di licenziare liberamente i lavoratori (flessibilità in uscita) non era sufficiente a convincerli ad usare il nuovo contratto a tutele crescenti al posto dei contratti precari fin qui utilizzati (e il cui utilizzo era stato ulteriormente incentivato grazie al Decreto Poletti del 2014 che aboliva l’obbligo della causalità). Ecco allora che il governo Renzi lancia per il 2015 una manovra che garantisce alle aziende che assumono a tempo indeterminato (o convertono precedenti contratti precari) sgravi fiscali fino a 24.180 euro in 3 anni per ogni lavoratore, purché tale lavoratore non abbia avuto un contratto stabile nei 6 mesi precedenti. Una postilla importante, questa dei 6 mesi, perché di fatto esclude dai benefici della Legge di Stabilità tutti i casi di lavoratori che già possedevano un contratto a tempo indeterminato. Ma i padroni non si arrendono mai ed ecco che, tra le pieghe della legge, hanno scovato la maniera di far fruttare anche questa quota di lavoratori stabili: basta licenziarli, fargli un contratto di 6 mesi, e poi riassumerli entro fine anno per usufruire degli sgravi. Il lavoratore era a tempo indeterminato e tale rimane (nessun nuovo posto stabile è stato creato), ma l’azienda risparmia 24mila euro e si ritrova con un lavoratore che ora può licenziare come e quando vuole.1
Sul Jobs Act abbiamo scritto molto: un’analisi dei primi decreti (sulla fine dell’art. 18 e gli ammortizzatori sociali), un’analisi politica dell’ideologia del Jobs Act, un riassunto degli aspetti più gravi della riforma, numerosi articoli e perfino un cartone animato. Ma andiamo ora a vedere gli effetti statistici dell’introduzione del nuovo contratto a tutele crescenti e come questa riforma è stata sfruttata dai padroni.
Il Jobs Act ha fatto aumentare i contratti a tempo indeterminato?
La prima domanda che ci facciamo è se davvero la riforma del mercato del lavoro abbia creato nuovi posti di lavoro stabili. “INPS Crescono i lavori stabili, più 36%. Come era quella del Jobs Act che aumenta il precari? #italiariparte tutto il resto è noia…” Scrive Renzi su twitter (il social network più usato dai politici) il 10 agosto, dopo l’uscita del report dell’Inps sui contratti firmati nella prima metà del 2015. Ovviamente non sono aumentati i lavori stabili del 36%, come scrive Renzi, non avremmo di certo la disoccupazione al 12% e gli inattivi (che non essendo passati per il centro per l’impiego nell’ultimo mese non figurano tra i disoccupati) al 36%… Ad essere aumentato è il numero di nuovi contratti a tempo indeterminato firmati nei primi 6 mesi del 2015 rispetto ai primi 6 mesi dell’anno precedente: 286.000 in più. Qualche settimana dopo sono arrivati anche i dati del ministero del Lavoro, il ministro Poletti esultava per 420.000 nuovi contratti a tempo indeterminato “grazie al Jobs Act”. Qualche giorno dopo è arrivata la rettifica “un errore nei calcoli ha creato dati non esatti”, i nuovi contratti a tempo indeterminato sono – poca la differenza con i dati dell’Inps – 1.084.000, ma le cessazioni dei rapporti a tempo indeterminato non sono 665.000 come precedentemente annunciato, bensì… 960.000.
Chi vuole sfidare la massa di cifre dell’Inps può trovare qui il suo report, ma in sintesi si può dire che:
- Sono stati firmati 3.300.000 nuovi contratti, ma 2.600.000 sono arrivati al loro termine naturale o sono stati interrotti per licenziamento. Di questo saldo positivo di 700.000 contratti, non tutti sono nuovi posti di lavoro perché ci sono persone che lavorano passando da un contratto all’altro, e nell’arco di 6 mesi firmano più contratti. L’Inps non ci fornisce dati sul numero delle persone interessate, ma dai dati dell’Istat per il periodo 2011-2013 si capisce che il numero dei contratti è sempre maggiore del 25-40% delle persone interessate.2
- Il tipo di rapporto di lavoro che ha subito una vera e propria impennata non è quello a tempo indeterminato ma quello più precario in assoluto: il lavoro occasionale pagato con i voucher dell’Inps. Sono buoni che si comprano all’ufficio postale o dal tabaccaio, comprendono la quota da versare per tasse e contributi (bassissimi) e servono a pagare la singola ora di lavoro. In questo modo si può far lavorare perfettamente in regola qualsiasi persona, senza dargli ferie, malattia, maggiorazioni per straordinario, notturno o domenicale, potendolo mandare a casa senza nemmeno bisogno della lettera di licenziamento: il top della precarietà. Essendo lavoro occasionale le leggi stabiliscono un limite al suo utilizzo: la legge 30 (la Biagi-Sacconi del 2003) fissava un tetto di 5.000 euro l’anno, Renzi lo ha innalzato a 7.000. Grazie a queste concessioni il valore dei voucher venduti è passato da 36 a 62 milioni di euro, +73%.! 3
- I contratti a tempo indeterminato sono aumentati non solo perché grazie al Jobs Act licenziare non è mai stato così facile, rendendo instabile anche il contratto a tempo indeterminato, ma soprattutto perché grazie alla Legge di Stabilità le imprese che assumono non pagheranno fino a 8.060€ di contributi previdenziali, coperti dalle casse dello Stato. L’Inps ci dice che dei nuovi contratti (sempre per il periodo gennaio-giugno) ben 787.000 si avvarranno di questo regalo del governo. Vi sono comprese buona parte delle 320.000 trasformazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, infatti di questi ben 220.000 avranno diritto agli sgravi contributivi.
Il regalo del governo alle imprese per gonfiare i nuovi contratti a tempo indeterminato
“Lo Stato spreca troppi soldi! Bisogna fare una spending review!”, ossia una “revisione della spesa”. Si sa che i ciarlatani, dai tempi dell’azzeccagarbugli dei Promessi sposi, usano tante parole incomprensibili solo per dare l’impressione di saperla lunga. E intanto si fa passare l’idea che i servizi pubblici costano troppo perché i lavoratori sono assenteisti, che le case popolari non ci sono perché si regalano ville agli zingari, che l’assistenza sanitaria fa schifo perché si spendono 35€ al giorno per i rifugiati. Sono tutte bugie, ma è pur vero che lo Stato spende un sacco di soldi per dei parassiti del lavoro altrui, che pensano in primo luogo al loro interesse privato: le imprese. Quante megaopere inutili per favorire l’edilizia privata? Quanti finanziamenti alla sanità privata per dare in convenzione un servizio che lo Stato si dovrebbe incaricare di svolgere? Quanti servizi esternalizzati nel pubblico (pulizia, portierato, facchinaggio, biblioteche…) che gli enti potrebbero svolgere assumendo direttamente i lavoratori con un minor costo e migliori condizioni di lavoro? Un altro capitolo della spesa pubblica utilizzato per aiutare chi dice di fare dell’intraprendenza, del merito e della libera competizione la propria bandiera è quello dei finanziamenti diretti alle imprese, attraverso gli sgravi contributivi e gli incentivi al consumo. Ben un miliardo di euro l’anno dal 2015 al 2017 (500.000, per ora, per il 2018) sono stati destinati dalla legge di stabilità per coprire gli sgravi contributivi per le imprese che assumono con il nuovo contratto a tempo indeterminato (quello che il governo ha chiamato “a tutele crescenti”) dal 1 gennaio al 31 dicembre 2015.
Per ogni nuovo contratto a tempo indeterminato stipulato con un lavoratore che non ha avuto contratti a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti, l’impresa riceve un esonero pari ad un massimo di 8.060€ sui contributi Inps che saranno coperti direttamente dalle casse dello Stato. L’esonero contributivo vale per 36 mesi, arrivando a cumulare per ogni lavoratore 24.180€. Grazie tante che le imprese preferiscono convertire i loro contratti!
“Ma come?”, avranno pensato tanti imprenditori che avevano già alle loro dipendenze lavoratori a tempo indeterminato, “Il Governo, per dopare il numero dei nuovi contratti stabili, per far vedere che il Jobs Act ha avuto successo, regala soldi a chi teneva i lavoratori precari… e io non ci guadagno nulla?”. Ma si sa che questa è gente che non si lascia scoraggiare, che non si rassegna a perdere nemmeno un centesimo, che – anche se non conosce tutte le scappatoie della legge – ha i soldi per farsi aiutare da validi professionisti. E allora avranno chiamato il loro commercialista o il loro consulente legale: “Che dobbiamo fare Anto’? Ho letto sul Sole 24 Ore che gli sgravi fiscali per chi assume a tempo indeterminato sono grossi, a questo punto conviene addirittura assumere così, piuttosto che fare nuovi contratti di apprendistato…”, “Ti dirò di più Fabrizio, possiamo provare a licenziare un po’ di lavoratori dalla ditta Fabrizio Pentole s.r.l. e riassumerli con la Fabrizio Coperchi s.r.l.” “Lo sai che c’avevo pensato… ma per accedere agli sgravi c’è bisogno che i lavoratori vengano da 6 mesi di disoccupazione, o di contratti a termine”, “Questo non è assolutamente un problema, li assumiamo per sei mesi con un contratto a tempo determinato, poi gli facciamo di nuovo l’indeterminato, tanto gli sgravi valgono per tutti i contratti firmati entro dicembre. Ci rientriamo alla grande”, “Fantastico Anto’, chiama i lavoratori e digli che per la salute dell’impresa e per la salvezza del loro posto di lavoro li dobbiamo licenziare e poi riassumere. Se qualcuno non firma o si lamenta digli che è un gufo, che la crisi è a causa della sua rigidità, che deve ringraziare di avere un lavoro, e poi lo cacciamo”. Così da un lato le statistiche sui nuovi posti a tempo indeterminato faranno contento il governo Renzi e le aziende riceveranno un regalo da 24.180€; dall’altro i lavoratori che prima erano protetti dall’art. 18 ora non lo saranno più, i posti totali rimarranno gli stessi e la fiscalità generale pagherà alle imprese 1 miliardo nei prossimi 3 anni: in sostanza saremo tutti noi a pagare il turnover delle aziende.
La reazione dei lavoratori davanti alla truffa del Jobs Act
Chissà quante situazioni del genere sono capitate in questi mesi, in un clima in cui i lavoratori si sentono dire di dover ringraziare solo per aver un lavoro, i più avranno accettato senza colpo ferire. Magari anche nell’ignoranza di quello che stavano facendo, consigliati da chi dovrebbe difenderne gli interessi di fronte allo strapotere dei padroni, visto che in alcuni casi – come alla Dhl di Sesto Fiorentino – gli stessi sindacalisti confederali sono andati a consigliare ai lavoratori di firmare la lettera di dimissioni. In alcuni casi invece i lavoratori, o parte di loro, hanno alzato la testa e hanno lottato contro questa truffa che non è tanto nei confronti della finanze pubbliche, ma di chi paga gran parte della spesa pubblica (gli stessi lavoratori) e di loro stessi: visto che così prima si ritrovano per sei mesi nel dubbio se il padrone farà veramente quanto ha promesso e poi con il nuovo contratto a tempo indeterminato, quello con il licenziamento facile offerto dal Jobs Act. Così è successo ad esempio all’Arcese Trasporti di Vicenza e Bologna, alla Dhl di Firenze, all’Inalca di Lodi, alla Sirap Gema di San Vito al Tagliamento, al Consorzio Albatros di Piacenza, al Consorzio Movimoda a Reggio Emilia, alla Funari a Caserta, ma immaginiamo che i casi siano molti di più di quelli che siamo arrivati a conoscere ed invitiamo tutti i lavoratori che hanno avuto lo stesso trattamento a scriverci per intraprendere insieme una lotta che ha maggiori possibilità di vittoria se affrontata collettivamente.
Non tutte queste lotte hanno avuto gli stessi esiti, ad esempio mentre all’Arcese Trasporti è stata strappata una vittoria importante così non è stato alla Dhl e all’Inalca.
L’Arcese Trasporti ha due magazzini in provincia di Vicenza (Montecchio Maggiore ed Altavilla Vicentina), dove 21 facchini su 26 sono organizzati nell’Adl Cobas, ed altri nella provincia di Bologna. A fine maggio alla cooperativa di cui sono formalmente dipendenti, la Libera, ne devono subentrare altre aderenti a consorzi diversi: Gaia per Vicenza, For Service e Alka per Bologna. Il sistema di subappalto vigente nel mondo della logistica è noto a chi conosce le lotte che si sono sviluppate nel settore negli ultimi 7 anni: ben pochi dipendenti sono impiegati direttamente dall’azienda, i facchini ed anche larga parte dei drivers (quando non sono costretti a figurare come “padroncini”, ossia lavoratori autonomi) sono invece impiegati in cooperative che servono a frazionare i lavoratori, a pagare meno tasse (per i primi due anni di vita della cooperativa i contributi sono ancora più bassi, tanto che le cooperative cambiano nome ogni due anni), a scaricare su un intermediario fantoccio le responsabilità di buste paga false e mancati pagamenti (che prima degli scioperi erano la regola ovunque), a riciclare denaro sporco. Una delle forze delle lotte che hanno visto protagonisti i lavoratori organizzatisi con i sindacati di base Adl e S.I. Cobas è stata proprio l’aver individuato la controparte a cui strappare condizioni migliori, non nelle cooperative, ma nell’azienda committente.
La trattativa tra Arcese Trasporti e i Cobas per il cambio di cooperativa si arena su un punto, come scrivono gli stessi sindacati di base in un’informativa alle prefetture di Bologna e Vicenza:
“La discussione con il consorzio Gaia e con i consorzi For Service e Alka si è arenata su un punto ritenuto inaccettabile dalle scriventi OO.SS, ovvero la trasformazione dei rapporti di lavoro, tutti attualmente con contratti a tempo indeterminato, a tempo determinato per 6 mesi, con l’impegno di trasformarlo a tempo indeterminato alla scadenza dei sei mesi. Questa operazione gestita alla luce del sole da Arcese e dalle cooperative rappresenta la messa in atto di una vera e propria truffa legale per poter usufruire dello sgravio contributivo previsto dal cosiddetto “contratto a tutele crescenti” che peraltro cancella anche l’art. 18. Tutto questo in un periodo nel quale tutti parlano di lotta alla corruzione, di stanare “furbi” e “furbetti”, mentre è proprio una legge dello Stato, il famigerato “Jobs Act”, che dovrebbe servire a creare nuove opportunità di lavoro stabile, che offre, su un piatto d’argento, l’opportunità a migliaia di cooperative e società di vario genere di compiere una magia sensazionale che consiste nel riuscire ad avere uno sgravio contributivo che può arrivare fino a 8.000€ all’anno, semplicemente trasformando contratti da tempo indeterminato in tempo determinato, per poi ritrasformarli in tempi indeterminati. La cosa incredibile è che si chiede al sindacato di essere complice di quella che riteniamo una truffa ai danni dell’Inps, peraltro senza alcuna garanzia nemmeno su una certa futura trasformazione del contratto a tempo determinato in tempo indeterminato.”4
A Vicenza a farsi promotore della truffa presso i lavoratori è stato un dirigente della Filt-Cgil, ricoprendo un ruolo di faccendiere dell’azienda che spesso i sindacati confederali hanno nel settore logistica. Dopo tre settimane di stato di agitazione, con scioperi e mobilitazioni fuori dal magazzino, il 10 giugno è stato firmato un accordo molto positivo che prevede:
- Eliminazione della figura del socio lavoratore, riassunzione di tutti i lavoratori/lavoratrici impiegati nell’appalto come dipendenti di una Srl con contratti a tempo indeterminato, senza periodo di prova.
- Piena applicazione del CCNL logistica e trasporti.
- Malattia e infortunio pagati al 100% dal primo giorno.
- Istituti contrattuali al 100%.
- Buoni pasto giornalieri da 5,29 € netti.
- Riconoscimento dell’anzianità lavorativa e applicazione degli scatti di anzianità in continuità con il precedente appalto.
- Non applicabilità delle nuove normative riguardanti i licenziamenti e i contratti cosiddetti a “tutele crescenti” (Jobs Act).
- Definizione entro 6 mesi di un Premio di Risultato.
- Adozione di tutti gli strumenti necessari per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori/lavoratrici.
- Dal 1° ottobre 2015 verifica dei livelli riconosciuti ai dipendenti.
Alla Inalca-Cremonini di Ospedaletto Lodigiano la battaglia è stata più dura e non ha ottenuto finora gli stessi risultati. L’Inalca è il primo produttore ed esportatore italiano di carne in scatola e confeziona sia carni fresche che surgelate; quello di Ospedaletto, sull’autostrada che collega Piacenza a Milano, è uno stabilimento di macellazione e trasformazione carni che impiega circa 570 operai. Gli stipendi pagati dal Consorzio Euro 2000 hanno sempre tardato ad arrivare, e a giugno non sono stati ancora versati quelli di aprile. L’Inalca decide allora di recidere il contratto con il Consorzio ma vuole che i lavoratori presentino dimissioni volontarie ed accettino di essere impiegati dalla società interinale Trenkwalder con due contratti successivi di tre mesi l’uno: i sei mesi di precarietà necessari per accedere agli sgravi fiscali. La stragrande maggioranza dei lavoratori, su indicazione dei sindacati confederali, firma le dimissioni ricevendo in cambio 1000 euro come “anticipo” delle mensilità arretrate; non firmano solo in 54 tra i quali i 25 iscritti al S.I. Cobas. La prima settimana di giugno parte una lotta con presidi e blocchi fuori dalla fabbrica, per il rifiuto della truffa e l’impegno dell’azienda a pagare i tre mesi di stipendi arretrati lasciati dalla cooperativa uscente. Il 10 giugno interviene anche la polizia, naturalmente non per prendere informazioni su quella che praticamente è una truffa anche ai danni dello Stato, ma per sgomberare il picchetto dei lavoratori. La lotta non riesce a costringere l’azienda a retrocedere, e nel corso di giugno firmano le dimissioni volontarie anche altri lavoratori, lasciando solo 16 iscritti al S.I. Cobas fuori dalla fabbrica. Ancora il 24 luglio il presidio veniva sgomberato dalla polizia ed attaccato dai camionisti che hanno provato a sfondare il picchetto a tutta velocità. L’ultimo blocco è di questa settimana.5
A giugno la segreteria CGIL rivelava di essere pronta a redigere un dossier per testimoniare l’utilizzo “fraudolento” da parte delle aziende di tali benefici previsti dalle leggi anti-proletarie del governo Renzi. Peccato che gli stessi sindacati confederali, CGIL in testa, sono già stati in diverse occasioni complici di tale attacco alla classe operaia, come testimoniano diversi accordi sottoscritti da questi servi, salvo poi lavarsi la faccia sui giornali della borghesia. Uno dei casi più lampanti è quello della Dhl a Firenze. A Firenze la Dhl ha ben due magazzini. In uno di questi lavorano circa 60 drivers, mentre nell’altro sono impiegati solo facchini. Il meccanismo di appalto è molto semplice: Dhl affida a Madilo s.r.l la gestione del magazzino. Madilo a sua volta subappalta il servizio ad altre cooperative, quasi tutte facenti parte del consorzio Dhs. A Giugno il padrone della cooperativa e il rappresentante sindacale della Filt-Cgil, unica sigla presente in magazzino, invitano tutti i lavoratori della cooperativa Flet a firmare dimissioni volontarie. Il meccanismo è facile: se non vuoi perdere il lavoro firma il tuo licenziamento “volontario” perché la cooperativa Flet e tutto il consorzio Dhs non lavoreranno più in questo magazzino. Verrai così riassunto in un’altra cooperativa, ma solo per sei mesi, infine verrai assunto a tempo indeterminato in una s.r.l. Quale s.r.l? Ma come quale? Una nuova, che il sindacalista Cgil giura, promette, spergiura, che verrà aperta giusto in tempo per la scadenza dei sei mesi.
E come verrai riassunto? Ma chiaro: con un contratto a tempo indeterminato. Ma non è dato sapere se questo contratto sarà scritto secondo il Jobs Act oppure se sarà applicato il vecchio art.18, perché il sindacalista Cgil si guarda bene dal mostrare anche solo una volta l’accordo sindacale. Visto il rischio di perdere il lavoro e le rassicurazioni del sindacalista Cgil, solo due lavoratori non firmano e si rivolgono ai Cobas. Per loro comincia un vero e proprio calvario: vengono messi in ferie forzate senza nessuna spiegazione, trasferiti da Firenze a Pistoia a svolgere un lavoro demansionato rispetto al loro inquadramento contrattuale e infine accompagnati all’ingresso. Accettare la buona uscita diventa l’unica soluzione in una situazione di forte mobbing e pressioni. Un esempio su tutti: la reazione dei padroni delle cooperative al primo volantinaggio davanti al magazzino (si, non se n’erano mai visti là: la Cgil non s’era mai mossa) fu una sceneggiata con minacce di licenziamento a chiunque avesse osato tesserarsi nei Cobas, non firmare o scioperare.6
Casi analoghi che non abbiamo potuto seguire direttamente si sono verificati in altre aziende. Ad esempio in un’azienda bresciana, la Sirap Gema, che produce contenitori per alimenti e materiali isolanti in polistirolo. Qui fin dal 2011 la società aveva affidato la gestione del magazzino a una cooperativa, la Soluzioni Coop di Pavia, che dava lavoro a 59 persone, nove nello stabilimento di San Vito e cinquanta negli altri impianti Sirap, tra Mantova, Arezzo e Brescia. I problemi sono cominciati ad aprile del 2015: la Soluzioni Coop, dichiarando difficoltà economiche, ha aperto le procedure di licenziamento per tutti i lavoratori. A questo punto, è entrata in scena una nuova cooperativa, la Mag Solution, costituita, guarda caso, appena prima, il 15 maggio 2015. Subito le viene affidato l’appalto in precedenza gestito da Soluzioni Coop. Pochi giorni dopo, le due aziende e i sindacati firmano due accordi, sancendo il licenziamento di tutti i lavoratori dalla prima cooperativa e la riassunzione nella seconda. L’intesa prevede che ai lavoratori spetti un contratto a tempo determinato della durata di sei mesi, giustificato con la “necessità della cooperativa di valutare le compatibilità economiche dell’ingresso nella gestione dell’appalto”. Una volta terminato questo periodo definito di “sperimentazione”, la società si impegna, “fatte salve condizioni economiche e non prevedibili, alla massima stabilizzazione possibile dei lavoratori”. Il solito trucchetto: dal primo dicembre è facile prevedere che la Mag assumerà a tempo indeterminato col nuovo contratto a tutele crescenti e ricevendo in cambio quasi un quasi un milione e mezzo di euro in tre anni (24.180 euro per ogni dipendente)! Un bel regalo considerando che quei 59 dipendenti già possedevano un contratto a tempo indeterminato: l’ennesima dimostrazione di come questa “geniale” legge sia un regalo per i padroni e li invogli ancor di più, se ce fosse bisogno, a trasformare vecchi contratti con art. 18 in nuovi a tutele crescenti. Questa volta la CGIL non sostiene la “porcata”, così l’azienda risponde licenziando i 9 lavoratori dello stabilimento friulano: come all’Inalca si conferma l’estrema ricattabilità dei lavoratori che o accettano le manovre aziendali oppure restano a casa.
Negli ultimi tempi, in seguito alle denunce dei sindacati (soprattutto il S.I. Cobas) ed all’interesse mediatico che la questione ha sollevato, il ministro Poletti ha dichiarato di aver già fornito indicazione alle sedi territoriali di effettuare ispezioni per contrastare “comportamenti elusivi, volti alla precostituzione artificiosa delle condizioni per poter godere del beneficio” previsto dalla legge di Stabilità. Sarà, ma ormai la fregatura è servita: i 6 mesi di tempo determinato dovevano scattare entro fine giugno per dare tempo alle imprese di passare al tutele crescenti entro fine anno e poter così accedere agli sgravi. Ciò significa che, a meno che il governo non decida di prolungare gli sgravi (cosa tutt’altro che impossibile visto che la stampa si prodiga a riferire come l’ ”impennata” di assunzioni sia dovuta proprio a questi sgravi, col sottinteso che occorra prolungarli almeno al 2016 se non si vuole arrestare la “crescita” dei posti a tempo indeterminato), ormai le aziende che volevano sfruttare la legge dovrebbero aver attivato i tempi determinati.
Se Poletti avesse voluto evitare questa fregatura avrebbe dovuto attivarsi a suo tempo. Invece svegliandosi solo ora al massimo potrà non pagare gli sgravi (limitando la truffa all’Inps e il peso sulla fiscalità generale, cioè su tutti i lavoratori), ma rischia di risultare un doppio danno per i lavoratori coinvolti. Infatti, senza più l’incentivo per assumere a tempo indeterminato, le aziende potranno optare per 3 soluzioni:
- Non rinnovare i contratti, lasciando scadere i 6 mesi di tempo determinato: in questo caso i lavoratori, che prima avevano un tempo indeterminato, si troveranno senza più un lavoro.
- Rinnovare il contratto a tempo determinato: in questo caso i lavoratori passano da un contratto indeterminato a un contratto a tempo determinato: ottimo risultato per una legge che si proponeva esattamente l’opposto.
- Effettuare ugualmente la conversione col nuovo contratto a tutele crescenti che di fatto è il contratto precario per eccellenza visto che ora si può essere licenziati in ogni momento dietro misero indennizzo. L’indennizzo infatti viene calcolato sui mesi di lavoro presso l’attuale azienda: in questo caso i lavoratori risulterebbero assunti solo da 6 mesi nonostante fossero in organico per una cooperativa che svolgeva le stesse mansioni per la stessa committenza in tanti casi da anni!
Nella migliore delle ipotesi insomma sarebbero sempre i lavoratori a pagare questa truffa passando obtorto collo (ricordiamo cosa è successo a chi ha rifiutato come a Inalca e Sirap, due casi raccontati prima) da un contratto a tempo indeterminato a un contratto molto più precario come quello a tutele crescenti.
Qualche valutazione
Se il Governo dice che la crescita dei contratti a tempo indeterminato è dovuta al Jobs Act, gli imprenditori dicono che è merito della decontribuzione sottintendendo che il governo dovrà rinnovare gli sgravi nel 2016 se vorrà continuare a poter twittare “mirabolanti” cifre sulla crescita dei contratti stabili. Non a caso proprio la scorsa settimana Renzi ha lasciato intendere, intervenendo a “In 1/2h”, il programma domenicale della Annunziata, che gli incentivi saranno ridotti (probabilmente a 6.000 euro l’anno), ma dovrebbero essere rinnovati anche per il 2016. A noi importa poco stabilire quanto pesino l’una e l’altra causa. Il contratto a tutele crescenti è un contratto certamente peggiore del vecchio contratto con art. 18 che non proteggeva dai licenziamenti (forse prima del 7 marzo 2015 le aziende non avevano facoltà di licenziare?!) ma solo da quelli illegittimi (e solo quando riconosciuto da un giudice), quindi la trasformazione di vecchi contratti con art. 18 in tutele crescenti è comunque per la nostra classe un passo indietro in una situazione già difficile.
Ciò che però ci preme denunciare è come noi lavoratori oltre ad essere vittima di una flessibilizzazione crescente siamo ora addirittura usati come ulteriore fonte di profitto, come mezzo per ottenere sovvenzioni statali. Non solo dobbiamo essere sempre più flessibili in entrata (contratti precari anche quando spacciati da indeterminato come nel caso del tutele crescenti), in uscita (licenziabilità continua e priva di motivazione) e nell’orario di lavoro (possibilità di demansionare il lavoratore, turnazione sempre più estesa, ritmi sempre più veloci, orario variabile secondo le convenienze dell’azienda da poche ore di part time a molte di straordinario). Ora noi lavoratori dobbiamo far vincere anche un premio alle aziende che ci assumono a queste condizioni: lampante il caso della FCA che per le assunzioni che Marchionne avrebbe comunque fatto, come da lui stesso ammesso, risparmierà 11 milioni in 3 anni! Sovvenzioni che, è bene ricordarlo, ammonteranno a 1 miliardo l’anno almeno per i prossimi 3 anni.
Di fronte al moltiplicarsi dei casi di licenziamenti per poi riassumere con gli sgravi fiscali, il governo, per bocca del ministro del lavoro Poletti, rassicura che il ministero sta già vigilando sui casi dei “furbetti”. Questa rassicurazione però non ci tranquillizza per niente. L’attività ispettiva potrà al massimo evitare il danno erariale (e anche qui ne siamo dubbiosi perché significherebbe mettere a repentaglio le conversioni a tempo indeterminato minando le cifre entusiastiche, ancorché spesso false o gonfiate, del ministero), ma a pagare saranno sempre e comunque i lavoratori che, nella più “rosea” delle situazioni, si ritroveranno con un contratto molto meno sicuro del precedente.
Come dimostrano i casi di Inalca e Sirap i lavoratori che si oppongono sono assolutamente privi di armi, perché il rifiuto a sottostare alla truffa di fatto porta loro al licenziamento, soprattutto per i lavoratori di cooperative in appalto dove è molto facile far scadere il contratto e sostituire la cooperativa.
La questione riguarda le politiche del governo e colpisce lavoratori di migliaia di aziende sparse su tutto il territorio nazionale per cui non può essere affrontata azienda per azienda col rischio di subire sconfitte pagate care da lavoratori sempre più ricattabili.
Occorre invece una campagna nazionale che sostenga e dia visibilità alle lotte nei singoli posti di lavoro che a questo punto devono avere come obiettivo minimo il riconoscimento delle vecchie condizioni contrattuali (quelle con l’art. 18 per intenderci) ai lavoratori licenziati e riassunti a tempo determinato, nonché l’opposizione a nuove conversioni nel caso in cui l’estensione degli incentivi dovesse venire confermata anche dalla Legge di Stabilità per il 2016.
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Note
3. In teoria ogni voucher serve a pagare un ora di lavoro, valore lordo 10€ di cui 7,5 vanno in tasca al lavoratore, 2 sono di contributi Inps (gestione separata) ed Inail, e 0,50 servono a pagare il “servizio”. Ma nella pratica, chi controlla quante ore si è lavorato per ottenere un voucher? Più che all’emersione del lavoro nero, come è stata propagandata, sembra finalizzata alla sua copertura visto che tenere una dozzina di voucher nel cassetto può essere una comoda risposta ad ogni controllo.
Fonte: http://www.clashcityworkers.org/documenti/analisi/2109-truffa-jobs-act.html