Sono andato a vedere il film di Claudio Caligari, “Non essere cattivo”, dopo aver letto la bellissima e poetica recensione di Roberto Donini “Il realismo sacro di non essere cattivo” e naturalmente, come molto spesso succede, alcune riflessioni sono sorte spontaneamente, a tutto campo, come si suol dire.
Non essendo provvisto della sua stessa vena poetica mi limiterò ad alcune considerazioni a ruota libera, diciamo così, anche perché questo film, a differenza di come molti lo hanno interpretato, non si limita a raccontare la vita di alcuni giovani semi o sottoproletari di una borgata romana, ma apre tanti altri scenari; sociali, politici, psicologici ed esistenziali.
La prima cosa che mi preme sottolineare è che “Non essere cattivo” è un film completo, dove la narrazione si mescola alla potenza del messaggio che l’autore vuole trasmettere. Molti hanno sostenuto che questo film sia una sostanziale ripetizione o riedizione di “Amore tossico”, il film con il quale Caligari si affermò come regista nella metà degli anni 80’ per poi essere subito dopo colpevolmente dimenticato. Ma non è così. “Non essere cattivo” ha una marcia in più, anzi ne ha diverse in più. “Amore tossico” era una fotografia, una sorta di documentario, anche se recitato e ben confezionato, sulla condizione dei giovani tossicodipendenti delle periferie romane (anche se il luogo dove è ambientato è lo stesso) nei primissimi anni 80’, ma non trasmetteva la stessa emozione e lo stesso pathos –struggenti – che coinvolgono e travolgono lo spettatore durante la visione di questa opera che potremmo definire come “neo neorealista”. Semmai, con questo film – come ha giustamente sottolineato anche Roberto – Caligari si avvicina molto di più al Pasolini di “Accattone”, attualizzandolo.
E allora cominciamo col dire che la prima protagonista in ordine di apparizione è senz’altro la “post borgata” metropolitana che fa molto più che da sfondo ai protagonisti stessi del film, come del resto nelle opere di Pasolini. La borgata (postmoderna) non rappresenta solo il contesto, lo scenario, all’interno del quale si svolge il film, ma è ciò che lo rende possibile perché è essa stessa che crea e da vita ai personaggi e alla loro storia che a sua volta è parte organica e integrante della storia stessa della borgata.
E qui le prime considerazioni, di ordine prima sociologico e poi anche politico, che mi sono saltate alla mente mentre ancora scorrevano i titoli di coda. Il film ci dice che la borgata tutto sommato ancora “comunitaria” di pasoliniana memoria non ha retto l’urto del processo di atomizzazione sociale avvenuto negli ultimi quarant’anni, né poteva essere altrimenti, ma non si è del tutto disintegrata, perché alcuni legami, per lo meno secondo l’interpretazione del regista, resistono ancora anche se sono di natura “sentimentale” più che sociale. E’ questo secondo aspetto, quello appunto sociale, che è saltato, fino appunto a disintegrarsi in moltissimi se non la grandissima parte dei casi. Ma il “ricordo”, sedimentato a livello psichico, potremmo dire, di quella dimensione comunitaria che si traduce in amicizia, amore, relazioni umane, sia pur difficilissime, contraddittorie e conflittuali, è ancora fortunatamente vivo, sembra volerci dire l’autore. Il rapporto di amicizia, direi di fratellanza, fra i due personaggi protagonisti (i secondi, in ordine di apparizione, dopo la borgata…), Cesare e Vittorio, così come l’amore che sboccia fra Cesare e Viviana, lo confermano. Tutto ciò potrebbe essere letto come una sorta di visione (e forse come un percorso possibile per un riscatto complessivo) intimista e in fondo ottimista da parte dell’autore, e in parte è così. Ma solo in parte, perché il regista non manca certo di mostrarci gli aspetti più degradati e degradanti di questa borgata postmoderna, una sorta di risacca, anzi di discarica di quel processo di atomizzazione sociale a cui facevo cenno sopra: violenza gratuita, ideologia dello sballo per lo sballo, assunzione massiccia e consumistica di sostanze fine a se stessa, prostituzione diffusa, spaccio, truffe, espedienti di ogni genere per poter sopravvivere, pulsione di morte presente sia pure in modi diversi in tutti i personaggi. Emblematica, in tal senso, una scena apparentemente secondaria del film in cui due ragazze si offrono spudoratamente a Vittorio per una sniffata di roba e quando lui con un gesto stizzito la scaraventa via, queste si gettano in terra sniffando come farebbero dei cani per cercare di recuperarla.
Ma è anche una borgata abbandonata a se stessa, da un certo punto di vista molto più di quanto non lo fosse quella pasoliniana con i suoi “borghetti” (vere e proprie baraccopoli dove la gente viveva ammassata, prive di ogni elementare servizio, in tutto e per tutto simili ai ghetti neri delle città sudafricane, a margini di una realtà già di per sé marginale), la sua totale e cronica assenza di servizi, le sue marane, i suoi prati incolti, la sua distanza anche fisica dal centro che a sua volta simboleggiava un’incolmabile e insanabile distanza con la “società civile”, una vera e propria cesura non ricomponibile, due mondi e due linguaggi diversi e non comunicanti.
Eppure, nonostante le loro misere condizioni materiali di esistenza, quei vecchi “borgatari” erano paradossalmente meno soli e meno abbandonati di quelli attuali, cioè i “borgatari postmoderni” raccontati così bene da Caligari . Oggi le condizioni materiali di vita sono sicuramente (relativamente) migliorate per questa gente; anche i semi-sotto-proletari possono recarsi in centro a fare shopping (in base alle proprie capacità/possibilità di spesa e di consumo) in qualsiasi momento con il metro o anche con mezzi propri (cosa impensabile fino ad una cinquantina di anni fa) oppure in uno dei tanti megacentri commerciali (per lo più, non a caso, dislocati invece in aree periferiche), cioè i nuovi templi secolarizzati della società capitalista assoluta. Ma se la loro distanza fisica (e immaginifica) dal “centro”, cioè dalla “società civile”, è stata drasticamente ridotta, la distanza sociale, culturale e psicologica è aumentata in modo direttamente proporzionale, anche se la partecipazione al rito consumistico di massa sembrerebbe mostrare il contrario. Ma è solo un fatto apparente. L’accesso e il consumo, sia pur differenziato, delle merci, crea soltanto l’illusione di “essere parte” della “società civile”, quando in realtà se ne è fondamentalmente esclusi. Il processo di “omogeneizzazione” culturale e sociale (che nulla ha a che vedere con una vera interazione sociale) ha prodotto anche la distruzione delle identità, siano esse di classe che culturali e naturalmente e conseguentemente anche individuali. Insieme all’ identità viene meno anche il collante che univa quelle persone. Quel collante era appunto l’identità (e la coscienza) di classe, il senso di appartenenza, che il Movimento Operaio, attraverso le sue organizzazioni e la sua capacità di egemonia culturale, riusciva a far arrivare anche nelle realtà più periferiche e deboli e per questa ragione maggiormente esposte al rischio della disgregazione sociale e umana.
La sconfitta strategica del Movimento Operaio e il trionfo del capitalismo assoluto hanno portato a quel processo di disintegrazione e di perdita dell’identità di cui sopra, con gli effetti che ne sono seguiti. Le nomenclature politiche e “intellettuali” dei partiti della “sinistra” post Movimento Operaio, hanno fatto il resto. Siamo di fronte al disastro (di cui queste forze politiche sono largamente responsabili) di un popolo abbandonato al “nulla” della società della mercificazione assoluta postmoderna oppure consegnato nelle braccia della destra, vecchia e nuova, che lo ha “coccolato”, a suo modo, e che ha occupato, come era normale e ampiamente prevedibile che fosse, uno spazio lasciato colpevolmente vuoto. Una “sinistra” post Movimento Operaio che è del tutto estranea a quel mondo, il quale nutre a sua volta nei suoi confronti –giustamente, aggiungo io – lo stesso sentimento di estraneità e di ostilità.
Nel film di Caligari non ci sono riferimenti politici di alcun genere, né avrebbero potuto esserci, ma è palpabile quel senso di disorientamento, di mancanza se non di totale assenza di un sistema di valori condiviso che solo in parte riesce a trovare una risposta, sia pure insufficiente, come dicevo prima, in alcuni rapporti amicali e affettivi. L’abilità di Caligari è quella di far precipitare lo spettatore, anche quello più distante, in quel contesto, e di fargli capire che esiste anche quella realtà, e di fargliela vivere, per un paio d’ore.
Ma anche quei rapporti affettivi non sono certo scevri da contraddizioni e da forti condizionamenti sociali come è del tutto normale che sia. L’incontro di Vittorio con Linda sembra in un primo momento il preludio a un cambiamento di vita, ad un riscatto anche esistenziale, ma in realtà si rivela essere soltanto un maldestro tentativo (da parte di Linda) di integrazione sociale, destinato al fallimento. Linda è una donna separata con un figlio che sbarca il lunario facendo le pulizie ad ore, ma è appunto totalmente priva di una identità e di una coscienza di classe. Una donna proletaria con una mentalità e aspirazioni piccolissimo borghesi che farà di tutto per “inquadrare” Vittorio, frustrandolo nelle sue micro ambizioni (il tentativo di aprire una piccola sala giochi), cercando di persuaderlo ad abbandonare al suo destino il suo amico di una vita, Cesare (a suo modo, un indomito ribelle), spingendolo al lavoro più “sicuro” da manovale ma al contempo colpevolizzandolo e rinfacciandogli di non disporre di quanto sufficiente per una vita degna di essere vissuta. In una delle scene finali del film, a mio parere molto importante, Linda, mentre stanno cenando, mette al corrente Vittorio della sua scelta di svolgere un doppio lavoro e di andare a lavorare anche in una lavanderia. A quel punto Vittorio le domanda:”Scusa, perché dovresti lavorare di più, non ti basta quello che abbiamo?”. E lei risponde con tono visibilmente seccato:”Perché, a te basta?”. Il che significa:”Se tu non sei in grado di provvedere al fabbisogno della famiglia, devo farlo io”. Un rimprovero, anzi, una colpevolizzazione implicita camuffata dietro alla richiesta di fatto esplicita di darsi da fare per migliorare le condizioni di vita (e di consumo) della famiglia.
D tutt’altra pasta invece Viviana, la nuova donna di Cesare, una semi-sotto-proletaria sbandata, spesso ubriaca o comunque quasi sempre “fatta” di qualcosa e aggressiva, ad un primo impatto anche decisamente sgradevole e volgare nei modi, ma in realtà una donna di gran cuore, di grandi sentimenti e di grande dolcezza. Viviana, a differenza di Linda, non vuole cambiare Cesare, non lo vuole addomesticare, non vuole trasformarlo in un “proletario inquadrato”, irregimentato e passivo con aspirazioni micro piccolo borghesi. Lo vuole “salvare” anche lei, certo, ma non al prezzo di privarlo della sua identità, perché lo accetta così com’è, e accettandolo così come è, accetta e rivendica anche se stessa, sia pure in modo istintivo, spontaneo e non ragionato. Il suo modo di essere non è il frutto di un calcolo ma di una autenticità e di una identità non ancora del tutto smarrite, nonostante tutto, nonostante il mondo che la circonda. Anche il suo tentativo sarà destinato al fallimento, anzi, finirà in tragedia, ma non sarà vano. Cesare sarà ucciso durante una rapina in un negozio dal commerciante che gli spara alle spalle mentre lui sta uscendo con il “bottino” (un paio di centinaia di euro, forse…) dopo che lo aveva rassicurato:”Sta tranquillo, non ti faccio niente” (anche perché la sua pistola era scarica…). E va a fare questa rapina subito dopo essersi recato al cimitero a trovare la nipotina morta pochi giorni prima (la madre, cioè sua sorella, era malata di AIDS). Sulla tomba della bimba l’orsacchiotto che lui stesso le aveva regalato che indossa la maglietta con la scritta “Non essere cattivo”. E’ a quel punto che Cesare fa quello che in qualche modo è chiamato/costretto a fare, ma lo fa, come sempre, senza alcuna cattiveria. E per questo resta ucciso.
Viviana darà alla luce, da lì a poco tempo, il figlio suo e di Cesare, e andrà a vivere con la madre di lui, ormai rimasta completamente sola, dopo aver perso tragicamente figli e nipote. Ma Viviana è cambiata, non è più la persona sbandata, aggressiva e volgare di prima ma una donna consapevole che non ha rinunciato alla sua identità. Come non vi aveva rinunciato Cesare.
E’ un vero dispiacere che un uomo come Claudio Caligari non sia più fra noi. Restano le sue opere che, come vediamo, ci hanno fatto e continueranno a farci pensare.