Muore con Pietro Ingrao, non solo un testimone nobile del secolo grande e terribile che è stato il ‘900 ma un maestro importante, originale e unico per me. Nel momento dell’addio vorrei rimanere ai ricordi personali. Ingrao è stato un intellettuale prestato alla politica e scelse la militanza integrale, il lavoro politico come prescriveva Gramsci, come intellettuale organico per aiutare i subalterni a ragionare. Sono affezionato al suo amore per il cinema e per la poesia, che mantenne in lui la curiosità per le novità sociali e culturali. Ricordo quando Guido Aristarco mi raccontò di come Ingrao entrò in quel collettivo di giovani antifascisti che guidati da Luchino Visconti realizzarono nel 1943 “Ossessione” cioè l’opera che aprì il neorealismo. Questa vocazione di avanguardia riemerse all’inizio degli anni 60, a cavallo della morte di Togliatti, quando iniziò ad aggregare un nucleo di giovani attorno alla necessità di ragionare sulle novità del capitalismo, sul neocapitalismo. Quella sinistra comunista sarebbe poi stato essenzialmente “il manifesto” cioè i miei maestri di politica, la mia stessa militanza che cercò di spostare il destino segnato del PCI. Ingrao non seguì “il manifesto” e nel 1991 quando Occhetto fondò il PDS lui rimase lì: non fui d’accordo e anzi mi infuriai al congresso della federazione romana quando appresi della sua decisione di rimanere nel gorgo. Tuttavia negli anni successivi ho capito la sua intima fedeltà al PCI, al partito, al “grosso” del movimento dei lavoratori: era la stessa fedeltà giovanile verso il popolo divenuta realistica visione dell’inevitabile destino della fine della sinistra novecentesca. Per questo al suo crepuscolo Ingrao cercava nella poesia quell’entusiasmo giovanile per mantenere ancora viva la curiosità verso l’umanità ed in fondo, così, ha mantenuto aperto uno spiraglio -questa è la stretta visione della poesia- verso il comunismo.