Introduzione/Prefazione a Diario della crisi infinita (ombre corte) di Christian Marazzi
Questo libro di Christian Marazzi non è solo un diario dell’involuzione “austeritaria” che sta distruggendo la società europea, è anche un’indagine sugli effetti della piena realizzazione di un modello che lo stesso Marazzi aveva cominciato a delineare venti anni fa, ne Il posto dei calzini[1].
Nel 1994 quel libro anticipava gli effetti dell’integrazione linguistica dei processi produttivi, e al tempo stesso cartografava concettualmente il duplice mutamento che la svolta linguistica del capitale comporta.
Il primo aspetto del mutamento consiste nella sussunzione della dimensione comunicativa, affettiva, relazionale all’interno del processo di valorizzazione. Il secondo aspetto è la transizione che porta il denaro ad assumere sempre più una funzione pragmatica in quel ciclo della comunicazione umana che siamo abituati a chiamare “economia”.
A partire dagli anni Novanta, la ricerca di Marazzi converge con la ricerca di quei filosofi del linguaggio che cercano di capire come il verbo si faccia carne, primo tra tutti, naturalmente Paolo Virno.
Il denaro è un caso particolare ma anche esemplare del farsi carne del linguaggio, ovvero del farsi merce del segno monetario. Lo sviluppo di questa analogia tra denaro e segno linguistico ci ha portato però molto lontano. Vediamo dove.
Uno dei punti di partenza della riflessione di Marazzi, negli anni in cui Il posto dei calzini stava formandosi nella sua mente, è stato un breve testo di Vittorio Mathieu, che nel 1988 fungeva da introduzione all’edizione italiana di un libro di Marc Shell dal titolo Money Language and Thought.
In questo breve testo, Mathieu scriveva che “il denaro agisce non per una vis a tergo, bensì per una previsione, dunque per una rappresentazione di ciò che (ancora) non c’è, che può ben chiamarsi idea, nel senso non platonico ma anglosassone della parola”[2].
Pur partendo da queste considerazione, Marazzi però va ben oltre. Quelle parole di Mathieu permettevano di capire che il denaro funziona come previsione, come promessa, come ingiunzione, se vogliamo. Ma il denaro di cui parla Mathieu è pur sempre soltanto una rappresentazione di ciò che ancora non c’è, un’idea, come dice lui stesso.
La svolta linguistica, la transizione a quella forma compiuta di finanziarizzazione che a me piace chiamare “semiocapitale” comporta qualcosa di più. Qualcosa di decisivo in più. Il denaro non è più soltanto rappresentazione, non funziona più soltanto per la sua valenza semantica. Esso acquista una forza pragmatica diretta in quanto si fa agente semiotico capace di attivare una catena di implicazioni linguistiche indissociabili dalla sfera della produzione e dell’accesso al consumo.
Dal momento che “le tecnologie comunicative […] sono dispositivi che concorrono a fare il mondo della nostra esperienza sociale”, allora “non è più possibile misurare la produttività del lavoro separatamente dalla produttività del linguaggio”[3].
Tutto bene? Sì, ma fino a un certo punto, perché la produttività del linguaggio implica simulazione, menzogna, inganno, violenza, insomma l’intera gamma delle risorse illusionistiche e coercitive di cui il potere dispone.
Analizzando la strabiliante avventura del cavalier Berlusconi con uno sguardo ironico e volto a comprendere, piuttosto che con sguardo moralistico volto a condannare, ne Il posto dei calzini Marazzi aveva scritto: “la menzogna fa parte dell’arsenale linguistico comunicativo che utilizza per produrre beni e servizi”[4].
Quando il denaro era strumento di interpretazione e di valutazione quantitativa, quando funzionava solo semanticamente, aveva un potere di rappresentazione e di promessa. Ma ora, grazie all’integrazione delle tecnologie di comunicazione con il processo di produzione, il denaro funziona pragmaticamente. Non più solo come misuratore del valore, ma come produttore di valore. È quel che chiamiamo finanziarizzazione.
Saskia Sassen si esprime in termini particolarmente chiari quando dice che il denaro “funziona sempre meno come un mezzo di scambio e sempre di più come uno strumento con cui i governi e le corporation estraggono risorse dalle famiglie per volgerle a loro vantaggio spesso passando sopra i bisogni fondamentali della popolazione di un intero paese”[5].
Marazzi aveva anticipato tutto questo processo quando, nel suo libro del 1994, aveva denunciato “l’insufficienza della scienza economica nelle’analisi delle trasformazioni in atto, in’insufficienza che deriva che deriva dalla stessa ‘missione’ dell’economia, il suo obiettivo di eliminare dal campo della sua indagine l’analisi politica del potere e dei suoi effetti sulle grandezze micro e macro-economiche”[6].
La violenza della finanza entra in campo come attore principale del dramma economico nel primo decennio del secolo nuovo. In Finanza bruciata (un libro del 2009 che esce l’anno successivo in America col titolo The violence of financial capitalism), il nucleo essenziale della sistematica predazione di cui siamo testimoni e vittime è sintetizzato in due righe: “Allo stato, cioè alla collettività, i titoli tossici, ai privati le good banks! È la solita musica: socializzare le perdite e privatizzare i benefici”[7].
Ma se di questo processo vogliamo ricavare tutte le implicazioni, ecco che la dinamica fondamentale del capitalismo comincia ad apparirci in una luce nuova. Non mi risulta (ma posso sbagliare) che qualcuno abbia lavorato su questo punto, nemmeno Christian Marazzi, che pure in una lezione tenuta il 23 marzo del 2012 all’Università di Bologna si lasciò sfuggire alcune considerazioni tanto azzardate quanto a mio parere preziose.
Da buoni marxisti, siamo abituati a pensare che il processo di accumulazione del capitale passi attraverso l’estrazione di plusvalore, ma prima ancora attraverso la produzione di beni utili che vengono immessi sul mercato per poterli scambiare con denaro, in modo tale che questo denaro vada a pagare il salario dell’operaio e a incrementare il profitto del capitalista.
Il capitalista borghese della passata società industriale doveva dunque produrre qualcosa di utile (o meglio, doveva indurre l’operaio a produrre qualcosa di utile) se voleva realizzare quello scambio da cui dipende la realizzazione del valore e quindi l’estrazione del plusvalore.
Ma nella sfera del capitale finanziario stiamo assistendo a un fenomeno difficilmente spiegabile nei termini dell’analisi di Marx. La dinamica dell’accumulazione di capitale ha assunto una forma che assomiglia sempre di più al gioco delle tre carte, o forse a uno scherzo che non fa ridere.
L’inceppamento del ciclo tradizionale della crescita è dovuto a fattori tutti interni al processo produttivo: incremento tecnologico della produttività, riduzione del tempo di lavoro necessario, aumento della disoccupazione, saturazione dei mercati, riduzione e tendenziale blocco della crescita.
Come può dunque continuare l’accumulazione di capitale se si ferma la crescita? Da un punto di vista marxista risponderemmo che non ha più ragion d’essere l’accumulazione, dal momento che il lavoro e l’intelligenza collettiva sono in grado di sopperire ai nostri bisogni senza più bisogno della pulsione costante verso l’espansione. Ma visto che i marxisti hanno perduto la partita del xx secolo, ecco che la riposta a quella domanda viene da un nuovo ceto proprietario, che deve la sua ricchezza alla produzione semiotica (alla proiezione, interpretazione, scambio, previsione di segni monetari), e che ha creato le condizioni per realizzare enormi incrementi di capitale senza produrre alcun bene utile.
Marx non immaginava che si potesse creare valore senza passare attraverso la mediazione di oggetti utili. Eppure ci troviamo oggi di fronte a un modo di accumulazione che realizza incrementi di capitale senza scambiare nulla di utile. Com’è possibile? Da dove proviene quel più di valore che il ceto finanziario ha realizzato negli ultimi anni, durante i quali, sia detto per inciso, la diseguaglianza ha raggiunto vertici mai prima immaginati?
Quel pomeriggio del 23 marzo, nell’aula terza della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, forse scherzando con quel risolino un po’ amaro e nervoso che certe volte gli scappa, Marazzi disse che forse dobbiamo abbandonare l’ipotesi del plus-valore per adottare l’ipotesi del minus-valore.
Il suo intervento compare riscritto verso la fine di questo volume col titolo Moneta e capitale finanziario. Nella stesura definitiva del saggio l’espressione “minus-valore” non compare. Me la sono sognata io o forse l’Autore ha deciso di non riproporre un’intuizione piuttosto bizzarra. Forse stava scherzando, ma in vino veritas.
Interpreto liberamente il pensiero di Marazzi e sviluppo questo punto del quale mi assumo intera la responsabilità.
Cos’è il minus-valore? Diciamolo così: nei passati due secoli i lavoratori, pungolati dal bisogno, ricattati dal salario e sfruttati da un padrone, hanno prodotto un mondo di beni, quelli che ci permettono di vivere, di consumare, di viaggiare e di fare molte altre attività divertenti. C’è di più: essi continuano a farlo, perché in ogni parte del mondo ogni giorno ci sono milioni di lavoratori che producono beni fisici e beni semiotici. Essi rendono accessibili e fruibili le risorse della natura, essi inventano tecniche utili a ridurre la fatica, a curare le malattie eccetera, eccetera.
Ma la massa dei beni prodotti nei due secoli passati e dei beni che ogni giorno continuiamo a produrre sembra di notte ridursi, dissolversi, impoverirsi, languire, quasi sparire. Un quarto dell’apparato produttivo è sparito in Italia, mentre il sistema scolastico di questo paese è ridotto a un moncherino pietoso. In Spagna metà dei giovani debbono vivere di accattonaggio oppure emigrare. In Grecia le donne colpite dal tumore al seno che dieci anni fa venivano curate senza difficoltà, debbono oggi affrontare un calvario e sempre più spesso prepararsi a morire. E lo stesso succede dovunque, anche se di tanto in tanto viene fuori un cretino a comunicarci che la ripresa è alle porte. La vediamo negli Stati Uniti d’America la ripresa di cui si parla. Grazie a politiche più ragionevoli di quelle suicidare dell’austerità adottate in Europeo, l’amministrazione Obama è riuscita a far ripartire l’occupazione. Ma il giornalista Frank Bruni ridimensiona l’entusiasmo avvertendo: “I nuovi posti di lavoro non sembrano essere così solidi come quelli del passato. Occorrono più ore di lavoro per avere lo stesso salario, o per sostenere lo stesso stile di vita. Gli studenti accumulano debiti. La mobilità verso l’alto sembra sempre più un miraggio, un mito”[8].
Occorrono più ore di lavoro (molte più ore di lavoro) per avere lo stesso salario, per comprare le stesse merci e gli stessi servizi di un tempo. Perché? Perché la dinamica del capitalismo finanziario funziona come un’idrovora che succhia di notte quel che noi produciamo di giorno, funziona come un buco nero in cui scompare il prodotto di duecento anni di lavoro industriale. Ecco cos’è il minus-valore: accumulazione di capitale a mezzo di distruzione del prodotto comune.
Il vecchio modello industriale di accumulazione era fondato sul ciclo Denaro-Merce-più Denaro. Il nuovo modello di accumulazione sembra fondato sul ciclo Denaro-Predazione-più Denaro, che implica però una conseguenza: Denaro-impoverimento sociale-più Denaro.
Questa è l’origine del buco nero che sta dissipando velocemente l’eredità del lavoro industriale e delle stesse strutture della civiltà moderna. Come attrattore e distruttore di futuro, il capitalismo finanziario cattura energie e risorse trasformandole in astrazione monetaria, cioè in nulla.
Qualcuno ci salverà dall’angelo sterminatore? Al momento il salvatore non lo vedo.
Ma nel libro che state per leggere, Marazzi compie due operazioni parallele: da un lato analizza la “globosclerosi”, il succedersi ininterrotto di bolle di espansione seguita da collassi, nonché la crisi europea in cui il ciclo finanziario è divenuto fattore di regolazione antisociale. Dall’altro lato però tiene d’occhio il manifestarsi di insorgenze soggettive che interferiscono con la governance finanziaria e con il processo di impoverimento che ne consegue. Il diario che state per leggere comincia con un articolo del 2011 in cui si getta uno sguardo particolare sui paesi arabi che erano in quell’anno in ebollizione. Come sappiamo, l’ebollizione del 2011, lungi dal fermare l’offensiva finanziaria, si è risolta in un’involuzione soggettiva e talvolta addirittura in una catastrofe. Marazzi però non pare qui alla ricerca di una via d’uscita politica, ma piuttosto di un’invenzione sociale e insieme epistemica che riapra il gioco e lo sovverta proprio nel punto più ambiguo e più elusivo: il denaro, la ridefinizione del rapporto tra attività e misura.
Nel saggio su Moneta e capitale finanziario, che si trova verso la fine di questo volume e svolge con ampiezza l’argomentazione teorica che sorregge tutto il libro, leggiamo queste parole: “occorre affrontare il problema della misura. La misura oggettiva del valore, probabilmente, non è più possibile. Possibile, anzi necessaria, è la misura soggettiva del valore, e questa rimanda alla soggettività dei movimenti di lotta, e alle forme di lotta e di vita che la sostanziano”.
*In correlazione alla eccellente recensione-riflessione di Francesca Coin e Stefano Lucarelli Gli anfratti inermi del potere. Dialoghi e pensieri sul “Diario della crisi infinita”, densa lettura dell’ultimo libro di Christian Marazzi, pubblichiamo la bella introduzione al testo di Franco Berardi (Bifo)
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Note
[1] Christian Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti nella politica, Edizioni Casagrande, Bellinzona 1994, p. 128.
[2] Vittorio Mathieu, Denaro e linguaggio come strumenti di progetto, introduzione a Marc Shell, Moneta, linguaggio e pensiero, trad. it. di A. Rabino. il Mulino, Bologna 1988, pp. 9-16.
[3] Christian Marazzi, E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari, Bollati Boringhieri-Edizioni Casagrande, Torino-Bellinzona 1998, p. 103.
[4] Marazzi, Il posto dei calzini, cit., p. 35.
[5] Saskia Sassen, Foreword to the MoneyLab Reader, Institute Network Cultures, Amsterdam 2015.
[6] Marazzi, Il posto dei calzini, cit., p. 74.
[7] Christian Marazzi, La finanza bruciata, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2009, p. 69.
[8] Frank Bruni in “The International New York Times”, 27 agosto 2014.