In viaggio a Srebrenica

“Il nostro giovanissimo amico, Alessandro Miro, che da alcuni mesi a questa parte collabora con la nostra testata, si è recato a Srebrenica per ragioni personali e ne ha “approfittato” (e lo ringraziamo per questo) per inviarci queste sue impressioni che pubblichiamo con piacere.

Tuttavia ci troviamo nell’obbligo di spendere qualche parola per chiarire la nostra posizione nel merito. Questo perché il reportage di Miro, sia pure giornalisticamente pregevole, potrebbe essere politicamente equivocato, dal momento che si limita (né potrebbe essere altrimenti) a riportare la sua diretta e personale esperienza del suo soggiorno a Srebrenica.

Ma noi sappiamo che la vicenda della ex Jugoslavia è estremamente complessa e va ben oltre i tragici fatti accaduti in quel luogo (ne sono accaduti tanti, purtroppo, commessi un po’ da tutte le parti in conflitto, non certo solo dai serbi) e affonda le sue radici in una serie di fattori interni ed internazionali. Mi limito in questa sede solo a dei brevissimi cenni.

La guerra nei Balcani e in particolare l’aggressione alla Serbia è stata la prima guerra imperialista promossa dagli USA e dalla NATO – con l’interessata complicità della Germania appena riunificata – subito dopo la caduta del muro di Berlino e il dissolvimento del blocco sovietico. L’obiettivo strategico era quello di smembrare e dissolvere lo stato jugoslavo che aveva il suo perno nella Serbia guidata da Milosevic al fine di continuare con il processo di annessione economica da parte soprattutto della Germania (dopo l’annessione della ex DDR, perché nei fatti di questo si è trattato) e cominciare il processo di graduale ridimensionamento dell’area di influenza russa. E’ evidente che nella “nuova” Europa non poteva esserci posto per una Jugoslavia o di ciò che ne restava egemonizzata da una Serbia legata alla Russia per ragioni storiche, politiche e culturali. A tal fine sono state alimentate ad arte (dai paesi membri della NATO) le storiche divisioni etniche e culturali che in qualche modo convivevano durante l’era di Tito, che a quel punto sono drammaticamente esplose. La Serbia, in questo contesto, è stata non a caso individuata come il nemico pubblico numero uno e criminalizzata secondo la ormai ben nota strategia che trasforma in “stati canaglia” tutti quei paesi e quei governi che si rifiutano di sottomettersi alle politiche degli USA e della NATO. Possiamo anzi dire che la vicenda della ex Jugoslavia è stata l’apripista in tal senso, di tale strategia, a cui faranno seguito gli interventi militari in Iraq, in Afghanistan, in Libia e il tentativo, tuttora in corso, di destabilizzare la Siria.

Seguirà una fase di scontri sanguinosi, di reciproci, terribili e indiscriminati massacri (in cui si distinsero in particolar modo i miliziani kosovari dell’UCK) che opponevano questa e quell’etnia l’un contro l’altra armata. Ma la strategia politico-mediatica occidentale, come abbiamo spiegato, era quella di criminalizzare la Serbia, che agli occhi della pubblica opinione europea e occidentale doveva diventare la responsabile di tutto quanto stava accadendo. Il risultato finale di questa strategia opportunamente studiata fu naturalmente l’aggressione alla stessa Serbia da parte della NATO con relativi “bombardamenti etici” sostenuti anche da una buona parte della “sinistra” politicamente corretta occidentale.

Un ruolo fondamentale l’hanno svolto in tutta la vicenda i media che hanno opportunamente, sulla base di una precisa strategia di comunicazione (e di manipolazione), insistito su questo o su quel fatto di sangue piuttosto che su altri. Insomma, erano i serbi che dovevano sempre e comunque emergere agli occhi del mondo occidentali come i massacratori e i genocidi. In seguito si è appunto scoperto che gli albanesi dell’UCK erano anche e molto più feroci ma quello che contava non era raccontare le cose per come effettivamente stavano ma dipingere la Serbia e i serbi come i “cattivi” per eccellenza.

E’ in questo contesto che vanno inseriti (senza naturalmente giustificarli in alcun modo) i drammatici e terribili fatti di Srebrenica. Mi permetto di portare un esempio che forse può spiegare meglio ciò che voglio dire: le Foibe. Per quarant’anni non se ne è parlato perché nessuno aveva interesse a parlarne. Da vent’anni a questa parte, diciamo dal crollo dell’URSS e del socialismo reale, non si fa che parlare del massacro delle Foibe e dei criminali partigiani titini che l’hanno perpetrato. Dimenticandosi però di cosa hanno significato anni di occupazione nazifascista della ex Jugoslavia, il milione e mezzo di morti che quella occupazione ha provocato in quelle terre, le centinaia di villaggi rasi al suolo dai nazisti e dai loro alleati in loco, le torture, le impiccagioni, le deportazioni in campi di concentramento e le violenze inflitte alla popolazione civile. Parlare quindi della tragedia delle Foibe, decontestualizzandola, come se fosse un fatto a se stante, senza considerarla all’interno di quella tragedia più grande che è stata appunto quella dell’occupazione nazifascista della Jugoslavia, non ha nessun senso ed è depistante sotto ogni punto di vista.

Sono assolutamente convinto che questo approccio e questo metodo di indagine debbano valere sempre, in ogni circostanza. Specie per chi, come noi, vuole portare avanti una riflessione libera e critica, fuori dai pregiudizi e dalle liturgie. Per questo, pur ribadendo la parzialità, con tutti i limiti che comporta, di questo contributo, scegliamo volentieri di pubblicarlo”.  (Fabrizio Marchi)

 

Vent’anni dopo il genocidio a Srebrenica nulla è cambiato?

Nel luogo in cui si è consumato uno dei più efferati genocidi degli ultimi anni la cooperazione internazionale e la politica locale hanno fallito su più fronti. Storia di uno Stato fantoccio che ancora non ha conosciuto la pace. Sullo sfondo però un barlume di speranza.

L’11 luglio a Potocari si celebra per il ventesimo anno consecutivo la commemorazione delle vittime di Srebrenica. Ultimo grande genocidio del ventesimo secolo. Avvicinandosi al cimitero, lungo un’affollata via, si mescolano sapori e persone che richiamano a un giorno di festa. Il fiume di folla a tratti si apre per permettere il passaggio di automobili scortate dalla polizia, dentro alle quali alte cariche istituzionali avanzano con finestrini oscurati. Impossibile non notare la distanza tra loro e i passanti. Questa piena trascina direttamente all’entrata del cimitero, dove il profano lascia posto al sacro. Il luogo è presieduto dalla Polizia della Repubblica Srpska, una delle due Entità etniche che costituisce la Bosnia Erzegovina. Passati i cancelli cambiano le uniformi, poiché qui la competenza passa alla Polizia di Stato.
Dall’ ingresso è possibile scorgere l’immensa distesa di più di 9000 lapidi bianche che si inerpicano sulla collina in lunghi filari ordinati ove i parenti si accalcano intorno ai propri defunti. L’ambiente percepibile è quello di una famiglia che si riunisce a tavola, per ricordare la memoria del proprio caro.

Figura 1 Famiglia in lutto davanti alla bara del proprio caro ricomposto quest'anno (foto Vanessa Maccherini).

Figura 1 – Famiglia in lutto davanti alla bara del proprio caro ricomposto quest’anno (foto Vanessa Maccherini).

Sulla destra , invece, sfilano le lapidi verdi degli ultimi morti ricomposti durante l’anno. Questa volta 136 persone sono entrate a far parte della memoria del luogo. Mentre, di sottofondo, una preghiera musulmana accompagna la cerimonia religiosa. Due sono i colori della giornata: il verde delle nuove bare e il bianco, simbolo del lutto. Infatti sui vestiti di molte persone è possibile notare un fiore ricamato con gli stessi colori; i petali rappresentano i parenti che cercano di congiungersi con il defunto, la parte centrale richiama lo stesso.

Dall’altro lato della strada si staglia un imponente e trasandato edificio nel quale sono radunati politici e ambasciatori dei diversi Paesi. L’unico ponte a collegare i due mondi è un maxischermo installato all’esterno, di fronte al cimitero. Da qui si alternano nell’arco della mattinata dichiarazioni e interventi dei vari personaggi. Fra i tanti, a rappresentare le donne musulmane , che hanno perso i loro figli durante il genocidio, le due presidentesse dell’Ong ˝Madri di Srebrenica˝, Munira Subašić e Hatidža Mehmedović. Per la parte italiana parla la Presidentessa della Camera Laura Boldrini che nel suo discorso ribadisce la colpevolezza dell’Unione Europea per il mancato intervento determinante ai tempi della guerra civile.

Figura 2 Vecchio compound dei caschi blu (foto Vanessa Maccherini).

Figura 2 – Vecchio compound dei caschi blu (foto Vanessa Maccherini).

Prosegue prospettando un maggior impegno economico al fine di risanare la situazione bosniaca. Infine le parole di Bill Clinton, ospite di maggior spicco, il quale si impegnò personalmente nella costruzione del memoriale. L’ex presidente degli Stati Uniti ringrazia per lo sforzo collettivo che ha permesso il mantenimento di questa pace ventennale e pone l’accento sull’importanza della partecipazione del Primo Ministro serbo Vučić all’evento. Infine chiude l’intervento ribadendo il suo attaccamento al paese bosniaco.

A dispetto dei toni altisonanti e speranzosi, la distanza tra i discorsi di conciliazione e i fatti è ancora marcata: dopo essere usciti dall’edificio della conferenza Vučić viene salutato con sassi e bottiglie. Ennesima dimostrazione di quanto la tensione nei Balcani sia ancora alta. Ma, paradossalmente, proprio Munira aiuta il serbo facendogli da scudo con il proprio corpo, per dare un forte esempio: non gettare al vento quanto di buono è stato ottenuto in questa giornata. Nonostante l’importanza di questo evento, non è possibile sanare a parole un’inadempienza ventennale. Dall’Unione europea che non è stata in grado di mettere in campo un progetto di cooperazione valido a causa delle divergenze tra i vari Stati; all’Unprofor ( una forza di mantenimento della pace creata dall’Onu) che non possedeva mezzi logistici e finanziari adeguati; fino agli accordi di Dayton che, in poche pagine, hanno rinforzato la divisione etnica già presente sul territorio: dopo il 95′ la Bosnia viene configurata come unione di due Entità etniche, Repubblica Srpska (a maggioranza serbo-ortodossa) e Federazione di Bosnia ed Erzegovina (a maggioranza croato-cattolica-bosniacco musulmana). E’ possibile quindi affermare che Dayton è stato solamente un armistizio non in grado di assicurare la pace. La chiave di volta che mantiene questo equilibrio precario è l’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite, il quale ha potere di veto sui due Parlamenti. Questa figura istituzionale può essere intesa come espediente per mantenere in piedi il trattato di Dayton, tantoché il suo incarico, che era scaduto nel 2005, è stato rinnovato ad oltranza: senza la sua presenza il Paese ritornerebbe nuovamente nel caos. Infatti ciclicamente il Parlamento della Repubblica Srpska approva all’unanimità l’annessione del suo territorio alla Serbia. E ogni gennaio l’Alto Rappresentante pone il veto sulla suddetta proposta di legge. L’intervento degli altri Stati non ha giovato a che le due entità si riconciliassero davvero, ma solo a salvaguardare gli equilibri internazionali. Due giorni dopo la commemorazione di Potocari avviene un altro incontro volto a non dimenticare ciò che è successo in questo Paese: le madri di Srebrenica ripercorrono i luoghi del genocidio insieme ai ragazzi europei e bosniaci presenti al campo di lavoro ˝Franco Bettoli˝. La partenza è di mattina presto, come luogo di ritrovo il piazzale davanti al vecchio edificio dei caschi blu olandesi, oramai dismesso da tempo, ma pur sempre presente nella memoria della guerra civile. A completare il team anche antropologi, scrittori e giornalisti interessati alla vicenda. Immancabile poi la presenza della Polizia Srpska: quella che potrebbe apparire come una normalissima giornata di ricordo invece viene ancora vissuta con grande tensione. I posti da visitare sono dislocati sul territorio della Repubblica Srpska, e la popolazione del posto guarda con molta diffidenza tutta la carovana.

Figura 3 Fabbrica di Kravica: 1100 morti, soprattutto bambini. Oggi una comune rimessa di attrezzi.

Figura 3 – Fabbrica di Kravica: 1100 morti, soprattutto bambini. Oggi una comune rimessa di attrezzi.

La prima tappa si trova a pochi metri dal punto di partenza. Si tratta di una piccola casa con giardino dove l’esercito di Mladić divideva gli uomini dai bambini: i primi venivano fucilati, i secondi imprigionati. Ci spostiamo poi
a hovica, precisamente in una scuola utilizzata come luogo di fucilazione. Uno di loro prende la parola, non si può non notare la commozione nei suoi occhi. ˝Scesi dall’autobus li hanno portati dietro gli alberi e lì- spiega- hanno fucilato i miei connazionali˝. Questo luogo dell’orrore era destinato a scomparire dalla memoria collettiva, come tutto ciò che in questo Paese può rimandare alla guerra, ma è stato ritrovato grazie all’aiuto di un bambino di 7 anni, il quale dopo esser scappato dai militari serbi, è stato in grado di riconoscerlo. Passiamo da una scuola a un’altra. Questa volta però quella di Petkovci. Una delle madri racconta a un giornalista come qui abbia ritrovato suo figlio, fatto a pezzi, senza testa. Lei ha deciso comunque di seppellirlo. ˝Non è giusto che in questo edificio venga ancora fatta lezione ai bambini, senza che essi sappiano niente di quanto è successo in questo luogo. Nella scuola- prosegue- ci sono due insegnanti che hanno partecipato al genocidio. Essi sono stati condannati dal tribunale dell’Aia, però sono, nonostante tutto, a piede libero. ˝Noi, in qualità di associazione delle madri di Srebrenica, abbiamo chiesto allo Stato di Bosnia ed Erzegovina di imprigionarli˝. Parole forti da parte di questa donna, che mostra grande orgoglio in una giornata così difficile. Per loro è impossibile perdonare i soldati serbi, troppo forte il dolore per la morte di un marito o di un figlio, però vogliono superare la drammatica situazione in cui versa la Bosnia ed Erzegovina. Solo così trovano la forza per riunirsi e parlare della loro triste vicenda davanti alle telecamere, con la speranza che questo sforzo possa servire alle nuove generazioni. Non possono permettere che queste crescano in un Paese che non sa ricordare, perché in un posto dove non c’è memoria può accadere quanto già successo. Come terza tappa la diga situata dietro una collina di sassi. Negli anni, in mezzo alle sterpaglie, sono stati ritrovati molti fucili che appartenevano ai militari serbi.

Figura 4 - Intervista alle madri davanti alla scuola.

Figura 4 – Intervista alle madri davanti alla scuola.

Oggi non ci sono più, però sono rimasti ancora i bossoli delle armi, probabilmente AK47. Le donne musulmane, dopo il solito momento di preghiera, iniziano a spostare le pietre. Al di sotto un grande numero di proiettili. Poi si alzano e mettono in tasca quanto trovato, come se anche questi dovessero entrare a far parte del ricordo. Sì, perché forse uno di quelli ha ucciso i loro mariti.

Tornate nell’autobus, le madri si avviano, nel caldo soffocante del primo pomeriggio, verso una piccola cittadina, Branjevo. Ad aspettarle pattuglie della polizia che serrano le strade secondarie, per impedire il contatto e lo scontro con le madri serbe. L’atmosfera è irrealistica: tutti gli abitanti di Branjevo stanno immobili a osservare le donne, al ciglio della strada, sull’uscio della porta, in un silenzio interminabile. Al termine della visita, sulla via del ritorno, alcuni bambini che giocano in un parco vicino all’autobus mostrano il tre con le dita, simbolo della vittoria serba. Esempio di come le giovane generazioni siano indottrinate secondo i dettami del nazionalismo. In un paese dove non esiste una cultura unica, dove le persone vengono educate secondo tre tradizioni differenti (croata, musulmana, serba), dove è più forte l’odio rispetto all’integrazione, in un paese del genere la guerra è più vicina della pace. Gli attori di Dayton hanno intrapreso il sentiero più semplice: sulle orme di Tito hanno tenuto le etnie fra loro separate, i Bosniacchi insieme ai Croati nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina , i Serbi nella Repubblica Srpska. I politici credono di mantenere questo equilibrio in Bosnia ed Erzegovina utilizzando come strumento cardine la distanza. Questo elemento ha rinforzato l’odio, ciascun popolo si è arroccato nelle sue credenze, ciascun popolo ha pianto i suoi morti dopo la guerra, celebrandoli con la sua religione. L’11 luglio a Srebrenica i musulmani piangono le vittime del genocidio, il 12 luglio a Bratunac, a cinque chilometri di distanza, i serbi ricordano le loro migliaia di morti della guerra. Come non è presente un lutto nazionale, così non si è formato un potere centrale capace di governare. L’autorità è decentralizzata a livello federale e ancor più a livello locale. Lo stile di vita tra le due repubbliche è nettamente diverso: polizie autonome, scuole con programmi discordanti, dove la storia stessa è di parte, alleanze differenti. La componente Bosniacca con i turchi, Serbi con i Russi: infatti mentre alla commemorazione dell’11 il rappresentante della Turchia ha dichiarato con orgoglio che il suo paese ha stanziato molti milioni per la Federazione; invece, da quando, a inizio luglio, Putin ha posto il veto sulla proposta internazionale di definire il massacro di Srebrenica come genocidio, la Repubblica Srpska è tappezzata da manifesti in cui un primo piano del capo di stato russo è accompagnato da parole di ringraziamento. E come potrebbero esserci in Bosnia ed Erzegovina risoluzioni uniche per tutti quando a Sarajevo vi sono tre capi di stato (Presidente della presidenza, presidente del parlamento, primo ministro) ognuno rappresentante di ciascun popolo e un numero esorbitante di ministri i quali devono avere viceministri di etnia differente? Lo Stato centrale di Bosnia ed Erzegovina è un fantoccio creato dagli attori internazionale per mantenere l’equilibrio geopolitico nei Balcani. Ma l’analisi e i giochi di potere dei vari Stati non tengono in alcun conto del dolore provato e ancor vivo, dopo vent’anni, nelle persone. In particolar modo questo sentimento è forte a Srebrenica, dove l’associazione delle madri è alla ricerca della verità su quanto accaduto in quel famoso giorno di metà luglio. Col passare del tempo, i pezzi del puzzle si ricompongono : alcuni soldati olandesi che nel ’95 presidiavano Potocari incontrano le madri nel campo di riconciliazione internazionale intitolato a Franco Bettoli, alla presenza di giovani volontari provenienti da tutta l’Europa. Il 25 luglio è l’ultimo atto della vicenda, dopo 20 anni di silenzio, eccoli tutti seduti intorno ad un tavolo a parlare. L’incontro si protrae per ben quattro ore, tutto ciò che fino ad ora era stato taciuto emerge con prepotenza. La presidentessa delle madri non risparmia gli ex soldati, con tono aggressivo dice : ” Voi non potevate non sapere dove li stavano portando”.

Figura 5 - La rappresentante delle madri di Srebrenica appunta il simbolo del genocidio al petto degli ex soldati olandesi. (IFS Klocotnica)

Figura 5 – La rappresentante delle madri di Srebrenica appunta il simbolo del genocidio al petto degli ex soldati olandesi. (IFS Klocotnica)

Ed è questa la triste realtà: i caschi blu in mancanza di direttive avevano lasciato che i serbi di Mladic entrassero nell’enclave protetta di Srebrenica e uccidessero più di 8000 uomini. I soldati rispondono che in quel momento non avevano idea di quello che sarebbe successo, pensavano che le persone sarebbero state catturate e poi rilasciate.

Uno di loro afferma addirittura di aver appreso del genocidio solamente dopo esser rientrato in Olanda. Lo scontro tra le due parti è duro: le madri non si tirano indietro e in diversi frangenti gli ex soldati scoppiano in lacrime mentre raccontano la loro storia. Sarebbe stato sbagliato immaginarsi un incontro rilassato e pacifico, avrebbe perso di sincerità. Molto più veritiero quanto successo. I volti finalmente si distendono quando uno dei soldati viene raggiunto dal figlio di otto anni. Le madri sorridono e tutta la tensione che si era accumulata fino a quel momento svanisce. E a fine incontro i caschi blu regalano alle madri un fiore simbolo della sofferenza e del dispiacere per ciò che è accaduto.
In queste tre giornate è apparso chiaramente che la guerra in Bosnia non è affatto finita, non ci saranno più le armi ma l’odio tra serbi e musulmani è rimasto quello degli anni ’90. Il Paese non ha superato il conflitto: lo Stato centrale è una scatola vuota che si regge in piedi solamente grazie al potere di veto dell’Alto rappresentante, mentre le vere autorità sono le due Entità etniche che agiscono in modo contrastante tra di loro. Fiumi di denaro investiti dalla cooperazione internazionale non sono stati in grado né di riconciliare i popoli né di ricostruire materialmente la Bosnia-Erzegovina ( metà degli edifici sono ancora crivellati dai proiettili), soldi mangiati da una classe politica inefficiente. In questo quadro estremamente conflittuale in cui il passato non passa , l’unico vero elemento di novità è la presenza dei giovani europei che da dieci anni vengono a Srebrenica, città simbolo della divisione, per portare conforto e aiuto a quelle persone che da troppo tempo sono vittime dei giochi di potere internazionali, abbandonate a loro stesse.

Alessandro Miro-Nico Loreti

foto di Vanessa Maccherini

1 commento per “In viaggio a Srebrenica

  1. Roberto Ventrella
    8 Agosto 2015 at 18:53

    Per i popoli del mondo occidentale, allevati a menzogne di Stato, tutto è stato normale. Siamo noi i migliori, i buoni della storia. Gli altri, serbi in primis, meno che nulla, merda da ripulire.

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