Intorno all’annosa questione della natura umana si consuma oggi una delle battaglie culturali decisive contro l’ideologia dominante.
Varie analisi pubblicate su questo giornale mettono a fuoco l’odierno scontro fra le tendenze opposte eppur complementari del culturalismo e dell’ontologismo. La loro opposizione è facilmente intuibile: l’una afferma l’assoluta fluidità (e la conseguente infinita malleabilità) dell’uomo, l’altra prende rassegnatamente atto della sua natura immutabile. Più complessa è la loro complementarità, che non va ricercata nel campo della teoria pura bensì in quello della genesi oggettiva, storica e di classe, di tali forme ideologiche (nel senso deteriore del termine): ad essere “naturalizzata” e resa immutabile è soltanto la parte della “natura umana” che si conforma alle leggi dell’economia di mercato, cioè il suo istinto egoistico che renderebbe impossibile un sistema sociale improntato al collettivismo, alla cooperazione e alla solidarietà reciproca; fluidi e manipolabili divengono invece tutti i tratti della “natura umana” che contrastano, in atto o in potenza, con gli interessi del capitale, ossia tutte le tradizioni in blocco, i rapporti familiari, l’identità sessuale, ecc. È palese che la fonte di queste tendenze ideologiche non va ricercata nel progresso del pensiero scientifico e filosofico contemporaneo ma negli interessi di classe della borghesia e in particolar modo dell’oligarchia finanziaria, che soli ci offrono la chiave per la mediazione di queste tesi contraddittorie.
Di simili contraddizioni ideologiche il capitalismo ne produce parecchie: da un lato si proclama in tutte le lingue e i gerghi possibili che l’uomo è e deve essere libero, che l’individuo è sacro, che la sua iniziativa va rispettata e promossa di contro al totalitarismo e all’organicismo, che l’originalità fine a se stessa è un valore, e così via; dall’altro la libertà di pensiero degli individui si risolve nel predominio del pensiero unico e del conformismo, nel livellamento delle coscienze verso il basso, nonché nella quotidiana frustrazione dell’interesse personale di chi non appartiene alla classe dominante. Anche qui l’origine della contraddizione va ricercata nei rapporti di produzione.
Tornando alla questione della natura umana, bisogna registrare un cambiamento di non poco conto nell’ideologia capitalistica dai suoi primordi ad oggi. Secondo un’arguta osservazione di Costanzo Preve, la borghesia dei secoli XVIII e XIX trionfò non con l’hobbesiano “homo homini lupus” bensì con la Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, basata sull’identità dell’interesse individuale e di quello sociale, sulla tesi secondo cui l’iniziativa dell’imprenditore non arricchisce soltanto quest’ultimo ma anche tutta la società. Ora non resta quasi più traccia di questo ottimismo: il capitalismo non è una società ideale ma è l’unica possibile, data la natura intrinsecamente egoistica dell’uomo. L’osservazione di Engels secondo cui gli economisti borghesi, che esaltavano la libera concorrenza come il supremo prodotto della civiltà umana, avevano in realtà dimostrato che nel capitalismo l’uomo si trova nella medesima condizione degli animali coinvolti nella lotta per la sopravvivenza, viene oggi capovolta dagli apologeti dello status quo: il capitalismo è l’unico sistema possibile proprio perché si conforma alla natura umana e, perché no?, animalesca della nostra specie.
Occorre reagire a questo stato di cose e risolvere il problema. Sulle pagine di questo giornale e in particolare in alcuni articoli e commenti del suo direttore, sovente si addita la soluzione in un tertium che superi le unilateralità dell’ontologismo e del culturalismo. Perché un simile terzo sinora non si è dato, perlomeno nella cultura occidentale? Oltre alla scontata constatazione del fatto che la classe dominante non ha alcun interesse a trovare una soluzione, va aggiunto che il dogmatismo ha pesato molto negativamente sulle risposte formulate dai comunisti. Nelle opere di Marx, Engels, Plechanov e altri l’attenzione si concentra sul carattere storico e transeunte degli attribuiti dell’uomo, si illustra la caducità di quei tratti prima ritenuti eterni e fissati una volta per tutte. Ma da ciò sarebbe errato concludere che i classici fossero dei culturalisti ante litteram: in base alla loro concezione tattica dell’attività filosofica (perfettamente compresa dal Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo e peraltro esplicitata da Engels nella sua lettera a J. Bloch del 21 settembre 1890), essi posero l’accento sulla dialettica più che sul materialismo, sulla logica dialettica più che sulla logica formale, sul movimento più che sull’immanenza, ecc. non tanto per ragioni teoretiche quanto per colpire gli obiettivi polemici di allora, ossia i materialisti volgari e i metafisici. Questa impostazione dei fondatori non fu ben afferrata da molti degli epigoni, che tentarono di dissolvere tutta la natura umana nella storicità dei rapporti sociali, negandone perfino l’esistenza, come nel caso di Althusser. In tal modo rimase aperto uno spiraglio alla penetrazione dell’ideologia reazionaria, da questa abilmente sfruttato per “dimostrare” l’impossibilità del comunismo speculando sui risultati delle scienze naturali, sulla psicologia e perfino sul senso comune.
Come uscire dalla difficoltà? Qui nessuno può affermare di avere la verità in tasca, per cui il mio è solo un abbozzo di soluzione. Come nella società socialista avanzata occorre recuperare, privandole della loro limitatezza di classe, tutte le garanzie e i diritti che il sistema legale borghese offre alla persona, eccezion fatta per la proprietà privata dei mezzi di produzione (vedi G. della Volpe, Rousseau e Marx, Editori Riuniti, 1997), anche negli altri campi occorre superare (ossia sormontare i loro aspetti contraddittori-negativi, classisticamente limitati) e insieme conservare (cioè serbare le loro conquiste umanistiche universali) gli elementi che ereditiamo dalle società precedenti. Nel caso in questione, si tratta di recuperare la smithiana Teoria dei sentimenti morali di cui sopra: essa è una pura mistificazione ideologica se applicata al capitalismo, a causa dell’inconciliabilità degli interessi delle sue classi antagonistiche, ma nel socialismo, in assenza di tali classi, risulta perfettamente valida. L’interesse individuale che ogni uomo è portato per natura a perseguire non viene necessariamente declinato in maniera egoistica, a detrimento degli interessi altrui; se si manifesta in questo modo non è per sua propria predisposizione ma a causa delle perturbazioni accidentali che subisce dall’esterno, vale a dire da condizioni oggettive (naturali ma soprattutto sociali) disagevoli. La contraddizione tra interessi individuali e interessi collettivi e sociali non può essere rimossa hegelianamente, in astratto, ma soltanto risolvendo la più profonda contraddizione da cui essa sorge, insita nelle condizioni oggettive.
Marx ci ha fornito una profonda indicazione antropologica di fondo: tutti quei tratti che si suol inscrivere nella “natura umana” sono in ultima analisi un prodotto del lavoro manuale votato alla produzione di strumenti, dal quale deriva lo stesso perfezionamento della corteccia cerebrale che ha reso possibile il notevole sviluppo del pensiero astratto proprio della specie umana. Si tratta, a ben vedere, di un caso inconsueto per la logica tradizionale: un genere di lavoro estremamente specifico determina tutto il successivo articolarsi e diversificarsi delle attività umane, dal particolare si deduce l’universale. Il che suona come un perentorio avvertimento metodico: per risolvere le questioni più complesse, come quella dell’impulso primordiale che spinge l’uomo al lavoro e alla vita associata (tutt’oggi dibattuta), non basta la vecchia logica formale, che semplicemente astrae dal contenuto della conoscenza per interessarsi unicamente alla sua forma. Va altresì detto che la reazione alle aporie della logica aristotelica non può consistere in un puro e semplice ritorno a Hegel, tale da disconoscere l’istanza irrinunciabile della determinatezza, del rigore e della precisione tipici del discorso scientifico, e destinato, nel migliore dei casi, a sfociare in uno storicismo astratto che, al di là di singoli giudizi condivisibili, lascia insoluto il problema fondamentale del metodo. Fusaro insegna, in negativo.