Così come la nascita del fascismo in Italia fu causata principalmente da un elemento materiale, ovvero il basso livello di sviluppo della borghesia nazionale in un Paese in cui la rivoluzione industriale non si era manifestata, in condizioni di un’economia ancora prevalentemente agraria dove la classe dei piccoli proprietari agricoli era ancora molto forte, un elemento cioè di sottosviluppo economico e sociale che non consentì alle classi dirigenti del Paese di veicolare dentro meccanismi democratici le contraddizoni di classe che si palesavano con la fortissima crescita dei movimenti socialisti, comunisti ed anarchici del nascente proletariato, così anche il razzismo italiano del dopoguerra (iniziato con il razzismo del Nord nei confronti degli immigrati meridionali nella fase del boom industriale, e poi deviato progressivamente verso gli zingari, poi verso gli stranieri in generale) deriva da condizioni sociali e materiali: la natura caotica del boom industriale in un Paese che non aveva ancora cementato completamente un sentimento nazionale, l’esigenza del padronato di sfruttare e “sradicare” le nuove leve di manodopera industriale dalle radici contadine e meridionali, per integrarle dentro la nuova società industriale e metropolitana (che poi assunse anche toni grotteschi, si pensi al personaggio che ha reso famoso l’attore Abatantuono, ovvero l’immigrato meridionale che cerca disperatamente di integrarsi dentro la cultura popolare milanese). E poi, con i primi e crescenti segnali di declino economico e sociale del Paese nei primi anni Novanta, quando la fase espansiva era finita, il razzismo nei confronti del meridionale, ma anche del “negher”, scaturì da una serie di conflitti interni non risolvibili: fu una risposta alle paure crescenti della piccola borghesia settentrionale, di fronte alla progressiva perdita di competitività industriale, che in prospettiva ne minava il tenore di vita (per cui assunse la forma leghista della devoluzione, che altro non era che un tentativo di evitare la redistribuzione delle risorse dalle regioni più dinamiche a quelle più arretrate del Mezzogiorno nell’illusione di preservare il tenore di vita delle classi piccolo-borghesi del Nord, di fronte al restringimento della torta), fu la risposta di una destra corporativa e demagogica, ed incapace di modernizzarsi in direzione dei modelli liberali delle destre europee, per reclutare un sottoproletariato urbano privo di formazione politico-culturale, ed abbandonato da una sinistra sempre meno “pasoliniana” e popolare, e sempre più radicalchic ed imborghesita, per cui intere borgate popolari di grandi città come Roma, che nei romanzi di Pasolini erano borgate “rosse”, divennero, abbandonate a sè stesse da una sinistra salottiera e bancaria, borgate fasciste.
Ed a loro volta, questi spostamenti della destra e della sinistra italiana corrispondevano a conflitti interni alla borghesia, fra una componente meno dinamica e meno competitiva, legata alla protezione statale ed a un capitalismo relazionale, più propensa a farsi rappresentare da una destra corporativa, che spegnesse il conflitto sociale indirizzandolo verso un nuovo capro espiatorio (il “negher” o il Rom delle periferie popolari) in cambio dell’accettazione di una leadership paternalistica e poco democratica, e la componente più dinamica della grande industria, del mondo bancario, della media impresa altamente internazionalizzata, che preferiva farsi rappresentare da una “sinistra” social-liberista, pienamente inserita nei processi di globalizzazione ed eurizzazione, e che vedeva il berlusconismo/leghismo come un residuo medievale da superare. Per finire, con la crisi economica esplosa nel 2008, il razzismo è diventato la valvola di sfogo delle tensioni popolari derivanti dal grave impoverimento e dalla crescente sperequazione distributiva, evitando così che tali tensioni si rivolgessero contro le classi dirigenti responsabili del disastro economico e sociale del Paese. Senza parlare degli episodi sanguinosi nel Mezzogiorno, come quello di Rosarno, legati alla presenza persistente di poteri mafiosi che controllano le produzioni agricole ed il relativo caporalato di manodopera immigrata a bassissimo costo ed altissima produttività, indispensabile per un sistema agricolo incapace di innovazione, di ricomposizione fondiaria e cooperativismo, e di tutela della sua immagine di tipicità e qualità, che quindi deve competere con i concorrenti nordafricani, spagnoli e greci, sui costi di produzione.
Lo stesso antirazzismo sbandierato da pezzi dell’establishment economico e politico, per contrastare questo fenomeno, è sintomatico dello stesso, persistente, conflitto interno fra una borghesia arretrata ed una più dinamica e globalizzata analizzato sopra. L’antirazzismo è, ai loro occhi, non una battaglia nobile, ma soltanto la foglia di fico necessaria per dotarsi di lavoratori extracomunitari a basso costo, disposti anche a lavorare con poche o punte tutele, che facilitano anche le riduzioni di tutele e salari per i lavoratori italiani. Oltre che il riflesso ,stavolta giustificabile, di una preoccupazione demografica di fronte al pericoloso invecchiamento della popolazione italiana, che ne rappresenta, in prospettiva, la principale minaccia di tenuta della coesione sociale, allorquando il peso degli inattivi, crescenti, su un numero minore di attivi, diverrà in futuro insostenibile, attivando un prevedibile e distruttivo conflitto generazionale.
Ancora una volta, in tutto questo, manca la sinistra, ovvero manca un modello non competitivo ma cooperativo e inclusivo di accoglienza ed integrazione di quegli immigrati che sono così preziosi per noi, per il nostro futuro. Che sappia però anche affrontare in modo non ideologico e pragmatico la questione, sapendo cioè che non è nemmeno possibile l’accoglienza illimitata e senza vincoli, perché è insostenibile culturalmente e socialmente da un Paese alimentato per vent’anni e più a pane e leghismo (la sostenibilità economica, invece, è solo una cazzata utilizzata da Salvini, non c’è, perlomeno per il momento e l’immediato futuro, un problema di insostenibilità economica e finanziaria dell’accoglienza, anzi è il contrario. Basterebbe guardare i dati anziché dire stronzate in libertà). Che quindi sappia fare politica estera e di cooperazione internazionale per regolare i flussi (che si regolano con l’assistenza tecnica allo sviluppo ed alla riconversione agricola e democratica dei Paesi di origine dei migranti, non certo con le motovedette della Guardia Costiera) e che sappia anche fare le dovute politiche di sicurezza ed ordine pubblico per tranquillizzare i cittadini. E che sappia fare accoglienza con la A maiuscola, nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Ecco cosa servirebbe. Gran parte dei movimenti elettorali del futuro si baserà su questa sfida.