Il leader russo trova largo consenso nel suo Paese, molto meno in occidente. La cifra politica del suo successo è data dalla spregiudicatezza in politica estera, nonché dalla capacità di risolvere i problemi interni alla Russia.
RETORICA “MADE IN USA”. E’ ormai da diversi anni che è possibile assistere in Occidente ad una campagna denigratoria nei confronti di Putin. Giornali, televisioni ed opinione pubblica dipingono il leader russo come una figura eccessivamente autoritaria ed accentratrice, non proprio un dittatore, ma un aspirante zar. Personaggio in netto contrasto con quell’imperativo tipicamente americano di esportare in Russia un sistema di governo lento e macchinoso: una democrazia tutta “lustrini e paillettes” che mal si adatterebbe alle necessità del Cremlino. Nonostante i fallimentari esperimenti della “primavera araba” c’è ancora chi crede che il motto “potere al popolo” debba essere principio fondamentale di ogni Stato. Mix di buonismo e retorica in salsa nostrana. Quello che veramente infastidisce la potenza a stelle e strisce è di aver scoperto in Putin un leader non arrendevole e ubbidiente, che non segue l’ideale “politically correct” al quale l’Europa si è inginocchiata da tempo. Quindi o con loro e contro di loro, e l’ex spia KGB ha scelto la seconda. Qual è il risultato? Tanto odiato da noi occidentali quanto apprezzato dal popolo russo, il quale è poco incline a seguire le logiche dominanti dalle nostre parti. Infatti per noi è difficile comprendere quel mosaico di valori ed ideali sovietici che Putin è sempre stato in grado di esprimere. E che hanno determinato la sua fortuna a Mosca.
TEMPI DI RICOSTRUZIONE. Vladimir Vladimirovic arriva al Cremlino nel 2000, in uno dei momenti più difficili della storia russa. Nell’arco di un decennio il Paese ha assistito alla disgregazione dell’Urss, all’espansionismo americano nelle zone di influenza sovietica, a guerre di indipendenza con gli Stati limitrofi (Cecenia in primis) e ad una devastante crisi economica. Negli anni 90’ i russi persero tutto quello che avevano costruito nel corso dei secoli, dalla stabilità interna al primato geopolitico in Asia. Putin sembra l’uomo giusto per far fronte alla situazione: l’aspirante zar di umili origini, cresciuto a soviet e comunismo in una casa popolare nei sobborghi di Leningrado, si mostra spregiudicato e astuto. I russi percepiscono le potenzialità dell’ex Kgb e gli danno piena fiducia, anche perché, per fare meglio di El’cin e dei suoi disastrosi anni al potere, sarebbe servito davvero poco. Due gli obbiettivi fondamentali nei primi anni di governo: riorganizzare lo Stato e dare nuova forma al Cremlino in politica estera. Prima Putin decide di intrattenere buoni rapporti con gli americani, mettendo in secondo piano la rivalità ancora presente dai tempi della Guerra Fredda, poi divide la Federazione russa in sette distretti controllati con attenzione da Mosca, infine nomina come amministratori delle grandi aziende statali (ad esempio Gazprom) i suoi uomini di fiducia.
Al termine del primo mandato, il premier raccoglie i frutti del suo lavoro: tasso di crescita intorno al 6-7 %, povertà dimezzata e industrie che ripartono. Questi risultati valgono a Putin il biglietto di ritorno per il Cremlino alle elezioni del 2004, con il 71% delle preferenze. Un plebiscito che si è realizzato non solo grazie alla crescita economica, ma soprattutto perché il leader russo è stato in grado di dare nuova speranza ai suoi cittadini dopo i catastrofici anni novanta.
PROVE DI IMPERIALISMO. E’ innegabile che i russi siano un popolo fortemente patriottico, forse si potrebbero definire quasi nazionalisti. Un concetto ricorrente e martellante nella loro testa, quasi un’esagerazione: quella Madre russa che affonda le radici in secoli e secoli di storia, alla quale anche i sovietici tenevano più di ogni altra cosa. Dopo la caduta dell’Urss il patriottismo si era notevolmente affievolito. A suon di batoste a stelle e strisce. Il piano di Putin nel suo secondo mandato è alquanto ambizioso, come rivela lui stesso nel 2007 alla rivista Time: “Anteporre la stabilità alla libertà per far sedere nuovamente la Russia al tavolo dei grandi”. Il primo passo lo muove poche settimane dopo, nel discorso di Monaco dell’11 Febbraio 2007. Il leader critica il modello unipolare americano per la guida del pianeta e lo definisce impraticabile perché nessuna potenza ha i mezzi per realizzarlo. Washington è colpevole di aver oltrepassato in ogni modo i propri confini nazionali. Queste frasi segnano la risurrezione russa. Con tutta la spregiudicatezza del caso. Dopo anni di sudditanza e insofferenza del suo popolo, il leader del Cremlino è stato in grado di smarcarsi dall’egemonia americana. Certamente non sono mancate le conseguenze: una su tutte la guerra in Ucraina. Ma poco importa: per essere impero bisogna intraprendere scelte coraggiose e, in alcuni casi, anche azzardate. E la Russia non può tirarsi indietro.