Alcune questioni circa la Cina: confronto tra universalismi. Parte Prima


Questa che pubblichiamo di seguito è la prima parte di una analisi che l’autore, Alessandro Visalli, ha sviluppato in tre parti (le prossime due nelle prossime settimane) e che costituisce l’intelaiatura della relazione che terrà al convegno promosso da L’Interferenza dal titolo “Pianeta Cina. Appunti per il futuro” che si terrà sabato 17 Maggio a Roma presso il Roma Scout Center (Largo dello scautismo 1). Alessandro Visalli interverrà nella sessione pomeridiana che inizierà alle ore 15,30 e che ha come titolo “La Cina tra marxismo e tradizione: questioni filosofiche e ideologiche”.

Scopo del testo e articolazione

Questo articolo è diviso in tre parti, di cui il presente rappresenta la prima. Si tratta di una riflessione che attraversa e mette a confronto due diverse forme di universalismo, riassumibili (pur con le commistioni storiche che si sono date nel tempo) in “Occidentale” e “Orientale. Prestando la dovuta attenzione al carattere politico e ricostruttivo di queste due etichette, come insegna Said, affrontare questo nodo richiede valutazioni sulla filosofia della storia, le diverse ontologie sottostanti e antropologie filosofiche, la teoria politica e culturale, la geopolitica e i diversi pensieri critici che nel tempo sono stati prodotti intorno ai due centri tematici, quello marxista e quello decoloniale. Naturalmente sullo sfondo di tutto ciò è da considerare il conflitto ibrido in corso tra i due principali egemoni dei due campi, gli Stati Uniti e la Cina.

La tesi principale si può riassumere sommariamente nel seguente modo: l’Occidente ha sviluppato, intorno alla tradizione cristiana e in particolare negli ultimi secoli un universalismo verticale, lineare, escatologico e disponibile ad un uso imperialista (se pure contenente semi della sua stessa critica); la Cina, viceversa, propone, anche in chiave strategica e nel contesto del conflitto in corso, un universalismo orizzontale, imperniato sull’immagine-forza di Tianxia, della armonia nella diversità e nel rifiuto della egemonia imposta.

Il rischio, con questa opposizione ancora una volta binaria, è di reificare le due proposte, considerandole omogenee, complete e autosufficienti, parte di due “civiltà” che bastano a sé stesse e si proiettano sul mondo. Anche quando si ammettano più proposte (il ‘buenvivir’ sudamericano, l’islamismo, l’africanismo, il mondo ortodosso russo, e via dicendo) la reificazione di ognuna di queste proposte porterebbe in nuove versioni della proposta multiculturalista relativista, reciprocamente chiusa, che vince oggi; una sorta di multiculturalismo ‘da vetrina’, o ‘da supermercato’. Oppure nella sostituzione/scontro di opposti universalismi imperiali.

Ogni tradizione ha piena legittimità di esistere e deve essere rispettata, tuttavia, al contempo, è da sempre internamente plurale e deve essere pensata come aperta.

Premessa, il contesto del confronto Cina-Occidente.

La questione del nostro tempo è la concorrenza oggettiva tra il sistema politico-economico cinese e quello Occidentale. Si tratta di una concorrenza oggettiva, ma non necessariamente agita da entrambe le parti al medesimo modo[1]. Il motivo principale è chenella mentalità cinese non è presente quella premessa escatologica e messianica, derivata dalla tradizione giudaico-cristiana, per la quale esiste una sola via alla ‘salvezza’ collocata in avanti nel tempo.Ciò anche se non mancano, da sempre, contaminazioni tra le due tradizioni culturali[2].Influenze trasportate sulle gambe e nelle stive dei mercanti, le lance degli eserciti e la fatica dei traduttori, e da sempre esistono diversi livelli di esposizione al set di valori e posizioni ideologiche promosse dall’occidente collettivo. Anche se in entrambe le storie culturali, e nella evoluzione materiale, sono rintracciabili molti momenti di avvicinamento ed allontanamento, la diversa prospettiva è stata cristallizzata dall’idealismo nel corso del XIX secolo; per esso, con una formula sintetica, la Storia ha una sua direzione nella via della salvezza, e questa è incarnata in ultima analisi dall’Occidente.

A questa prospettiva si oppone, dopo il “Secolo dell’umiliazione[3], la ripresa cinese di fiducia ed attenzione alle proprie tradizioni culturali e specifiche aperture al mondo. Attenzione immediatamente rivendicata da Mao, attenuata dopo la svolta di Deng, e particolarmente enfatizzata dal mandato di XiJimping, Presidente dal 2013. Una ripresa che si accompagna alla riaffermazione del proprio ruolo nel mondo da parte del colosso cinese.

La tesi di Xidel “Grande ringiovanimento” (中华民族伟大复兴) è interamente rivolta a superare l’epoca che prese avvio con l’imposizione da parte degli inglesi del traffico di droga, in cambio del tè, e le guerre conseguenti, ma proseguìin un contesto complesso con lo sforzo “riformista” di importare la cultura occidentale (secondo il doppio modello in competizione della democrazia “wilsoniana” o del marxismo “sovietico”[4]). La ripresa, secondo la lettura cinese, avvenne quindi al termine di un cinquantennio di grande confusione, negli anni di indebolimento e caduta della dinastia Qing. Anni nei qualisi determinò una progressiva radicalizzazione, accelerata a partire dalla repressione giapponese di Shanghai del 1925. Si formarono in questo periodo i due attori-chiave della successiva storia cinese: il Partito Comunista e la versione finale del Partito Nazionalista. Dopo una breve fase di alleanza nel 1927 i nazionalisti del Guomindang, guidati da Chiang Kai-Shek, attaccarono infatti i comunisti a Shanghai e in tutta la Cina.  Seguì la guerra civile che vide al termine la vittoria del PCC del 1949. A quel punto si pose il problema di ricostruire un’identità nazionale coesa, in grado di proiettare un modello culturale alternativo a quello Occidentale.

Nel modello che si affermò e che viene sempre più consolidato, al centro c’è il recupero della tradizione confuciana, l’armonia sociale, il dovere collettivo e l’ordine morale; il governo benevolo (renzheng) trasfigurato nel Partito, ed un marxismo sinesizzato[5] (马克思主义中国化) che, assumendo una prospettiva non eurocentrica del marxismo, recupera elementi maoisti[6].Come ha detto Xiin un discorso del 2014[7], “solo senza dimenticare la storia potremo inaugurare un nuovo futuro, solo imparando dall’eredità del passato impareremo ad innovare”. Quel che viene proposto è, quindi, una sorta di “decolonizzazione dell’immaginario”, promossa dall’alto, che si inserisce per certi versi nella vasta tradizione di pensiero post-coloniale che si oppone all’occidentalizzazione del mondo (ed i cui autori sono Franz Fanon[8], Aimé Césaire[9], Edward Said[10], DipeshChakrabarty[11], Josè Carlos Mariátegui[12], Boaventurade Sousa Santos[13], senza dimenticare il pensiero africano del Codesria di Dakar, Samir Amin[14] o il suo, per certi versi oppositore, Achille Mbembe[15]). Nel suo complesso è una costellazione di pensiero che rifiuta la cultura coloniale europea, ed il suprematismo che la contraddistingue, afferma la dignità culturale dei popoli, rivendica modi diversi di essere moderni e di accedere alla verità.

Il potenziale punto debole di queste impostazioni, pienamente comprensibili nel contesto di uno sforzo di rispondere ad un’egemonia tanto più invasiva quanto più si presenta come natura (e si traveste in semplice modernità), è che presumono l’oggetto. Ovvero, lo reificano, immaginano una purezza monolitica che non si è mai data e per certo non esiste oggi[16]. Ancora, che rivendicando una “identità” propria, sia essa africana, indiana, amerinda (o cinese), rischiano di prediligere la logica del frammento, autoreferenziale, e quindi del multi-culturalismo che allinea i propri prodotti come merci sullo scaffale dell’eterno presente. Ovvero, che rischia di dimenticare che l’essenza dell’Uno è sempre l’Altro che è in lui.

Il rischio è ben espresso da un critico della posizione essenzialista, come Amselle:

“tutta la storia passata fatta di contatti fra le diverse culture e civiltà viene in tal modo negata, per riaffermare la definizione di specificità culturali irriducibili. Se in passato ogni cultura, ogni civiltà poteva e doveva essere considerata come esito di una complessa serie di scambi, contatti, prestiti con altre culture a essa più o meno vicine, adesso la regola consiste nel riaffermare identità pure e inalterabili. Così di fronte ad esse e contro la civiltà occidentale cristiana si schierano tutte le altre – anche quando non stiano affatto combattendo per rivendicare le proprie differenze radicali. Con una sorta di rovesciamento dello stigma queste civiltà extraeuropee, dopo aver rifiutato la civiltà occidentale, si impegnano in una battaglia senza quartiere nel tentativo di rivendicare a loro volta la propria esclusione – stavolta però in senso positivo e di riaffermazione”[17].

La questione si può riassumere così: la volontà di fuggire da una forma di universalismo apparentemente astratto, in realtà coloniale, quale quella praticata dall’Occidente suprematista, non deve esitare in forme di nazionalismo identitario e particolarismo culturale. Cioè nella guerra tra culture reificate (gioco nel quale buona parte dell’Occidente sembra da qualche decennio impegnato[18]).

Chiaramente Xi è ben cosciente di questa china, nel momento in cui rivendica l’orizzonte della “Comunità umana dal futuro condiviso”.

Come ricorda:

“Bisogna promuovere uno scambio armonioso tra civiltà, nel rispetto delle diversità, che non escluda nessuno. La varietà delle culture dona colore e bellezza a questo mondo: dalla diversità fioriscono gli scambi, incubatori di integrazione, la sola che possa generare progresso. L’interazione tra diverse culture necessita l’apertura all’armonia nella diversità. Questo mondo potrà essere variegato e fiorente solo se si rispetta reciprocamente nella diversità, si apprende gli uni dagli altri e si coesiste in armonia.

Civiltà diverse condensano la saggezza e il contributo di popoli diversi, senza distinzioni di alto e basso, tra forte e debole. Le culture devono dialogare tra di loro, non escludersi l’un l’altra, devono interagire e non soppiantarsi. La storia dell’umanità è un enorme quadro di interazioni, crescita reciproca e integrazione tra culture diverse; queste devono essere tutte ugualmente rispettate, nessuno deve essere escluso dal processo di reciproco apprendimento, perché la civiltà umana possa realizzare uno sviluppo creativo”[19].

Rileggere le “tradizioni”, dunque, non va interpretato come una reificazione delle identità, in quanto esse non sono mai statiche, sono attraversate da tensioni e incoerenze, sono reciprocamente aperte (nella formazione del pensiero illuminista europeo sono visibili esperienze extraeuropee come quella di Haiti e forse persino influenze del pensiero nativo americano, come sostiene Graeber[20], ma certamente del pensiero orientale e arabo, con la ricezione del taoismo nello stesso romanticismo tedesco). Procedere alla ‘decolonizzazione dell’immaginario’, nel contesto di un progetto di rivendicazione della propria autonomia strategica e di un mondo finalmente multipolare e post-coloniale, non deve comportare, in altre parole, la ricerca di un’impossibile purezza originaria, ma l’apertura reciproca e il rispetto. Le stesse tradizioni sono, in un certo senso, degli spazi nei quali trovano senso negoziati e strutture. Dove l’autonomia non deve essere interpretata come chiusura ma relazione e convivialità[21].

Ora, questo discorso, elaborato espressamente da Xi e dalla leadership che a lui si collega, va compreso in tensione strutturale rispetto almeno a due polarità (o minacce):

  • il conflitto con le correnti “liberali” nel PCC, particolarmente accesa fino a pochi anni fa;
  • le tensioni che promanano dall’apertura al mercato della stessa Cina. Una visita alle principali città, che ho fatto, mostra una pronunciata “occidentalizzazione” degli immaginari, a partire dalle pubblicità, dai negozi, dalle merci e soprattutto da quelle identitarie.

La prima minaccia, che passa anche come lotta al “nichilismo”, è l’arena di una battaglia decisiva contro le correnti legate al mondo accademico ed economico connesso all’Occidente e potenzialmente utilizzabili per una “rivoluzione colorata”. La seconda esprime tratti di lotta di classe, nel momento in cui manifesta una tensione tra parti diverse del paese, grandi città e nuova borghesia in crescita (che si appresta a diventare maggioranza).

Dunque questa ripresa della tradizione principale (in realtà una commistione di confucianesimo e taoismo, invalsa nella Cina Han), intrecciata non senza tensioni con il marxismo a sua volta “sinizzato”, ha una espressa funzione di progetto politico. È un nodo di grande complessità e prospettiva; viene rivendicata la radice confuciano-marxista edconfrontata con un sistema economico e del consumo in rapida crescita, che, nel contesto della trasmissione culturale e materiale moderna, spinge per modelli di economia di mercato capitalisti e individualisti (in termini di lifestyle, mode, consumi distintivi). La soluzione politica di Xi è di fare barriera selettiva alla modernità occidentale, tentando di assorbire/ridefinire l’universalismo secondo codici cinesi. Valorizzando la continuità storica, anche in chiave di nazionalismo rivendicativo e patriottismo, e contestando vigorosamente la pretesa infondata di essere modello normativo dell’Occidente collettivo. In questa seconda direzione strategica, che peraltro riprende toni originari della rivoluzione cinese,la leadership cerca di riattivare l’esperienza anti-colonialedegli anni Cinquanta e Sessanta e di costruire (intorno ai Brics) nuove alleanze.

In sostanza, il tentativo è di governare sul piano strategico la modernizzazione del paese, ormai alla frontiera su molti livelli, senza con ciò dissolvere l’identità collettiva o cadere in una subordinazione epistemica con l’Occidente. In una formula sinteticaZhang Weiweiindividua così il punto in questione: la Cina può diventare moderna senza diventare occidentale valorizzando la propria “civilizzazione statuale” millenaria e le proprie categorie di ordine e coesione. In questa ottica, la “cultura tradizionale” (confucianesimo incluso) viene ricodificata come infrastruttura spirituale del socialismo con caratteristiche cinesi. Si tratta di un’operazione di grande momento ed enorme complessità. La definizione della tradizione codificata come nucleo spirituale del marxismo sinesizzato implica in qualche modo la sostituzione del suo sostato universalista Occidentale (idealismo tedesco e positivismo) con un carattere che è ancora universalista, ma in modo del tutto diverso. Sotto questo profilo la parola d’ordine dell’armonia nella diversitàpunta a tenere insieme non solo i diversi paesi dei Brics, quanto i diversi registri culturali ed ideologici e persino le oltre 50 etnie cinesi.La Cina di oggi è marxista, ma anche confuciana, rivendica il proprio orgoglio post-coloniale ed è, al contempo cosmopolita e multiculturale. Anche per un altro interprete, Wang Hui,la posta è la definizione di una modernizzazione concettualmente indipendente dall’universalismo astratto, la retorica dei diritti umani o la preminenza del mercato.

Quella di Xi Jinping è dunque una modernizzazione selettiva e centrata, che mira a produrre una soggettività collettiva “armoniosa”, in cui convivano un’identità culturale riconoscibile, un’economia aperta e una capacità di intervenire nel discorso globale da una posizione non subalterna. Un compito di enorme difficoltà e importanza.


[1] – Anzi, è piuttosto evidente una diversa postura da parte della potenza americana, che veste (o forse vestiva, dato che la retorica dell’amministrazione Trump è significativamente diversa) il suo bisogno di potenza di abiti missionari e quella cinese, che promuove una cooperazione orizzontale spoglia di rivendicazioni di civilizzazione.

[2] – I contatti tra l’Occidente e la Cina sono in realtà millenari, ma raramente diretti. Le relazioni tra l’Europa (sia al tempo dell’Impero romano, sia nei secoli successivi), sono stati per lo più mediati dal mondo arabo e persiano. A partire dal XVI e XVII secolo si intensificarono per via dei crescenti scambi commerciali diretti (portoghesi, olandesi, francesi, inglesi), sostanzialmente acquistando tè e vendendo oppio. Ma la Cina si difese sempre limitando gli scambi diretti, ed i luoghi di interscambio, e facendo uso di mediatori. Le cose cominciano a cambiare dopo le “Guerre dell’Oppio”, nelle quali il celeste impero viene sconfitto due volte e costretto ad aprirsi. Il primo momento è il cosiddetto “Movimento di autopotenziamento”, dopo il 1861, quando vengono mandati studenti in Europa, tradotti testi scientifici e tecnici, importate tecnologie. Ma, al contempo, il mondo tradizionale cinese piano piano comprese che non si trattava solo di qualche tecnica isolata, l’esperienza della trasformazione del Giappone della Restaurazione Meiji che in venti anni si era trasformato in una potenza regionale all’occidentale, mostrò che bisognava fare di più. Dall’inizio del Novecento una n nuova generazione di riformisti, organizzati da Kang Youwei, avviò lo studio di Hobbes, Adam Smith, Darwin e Rousseau, la cultura e filosofia europea. La reinterpretazione dello stesso Confucio come un coraggioso riformista. Il fallimento del tentativo, dopo solo cento giorni, fu il preludio alla rivolta dei Boxer nel 1900, ed all’intervento multinazionale che la schiacciò. Liang Qichao propose di introdurre in Cina la democrazia e i “diritti”, diventare una nazione. L’emergere del nazionalismo cinese prese una connotazione antimancese, ovvero razziale Han. Ciò innescò la rivoluzione del 1911 e la nascita della Repubblica di Sun Yat-Sen che promulgò i “Tre principi del popolo”, nazionalismo, democrazia, benessere. La sua immediata caduta diede avvio ad un’epoca di disordini che portò al “Movimento del 4 maggio” e il ricostituito Guomindang di Sun e poi, alla sua morte, di Chiang Kai-shek. Seguono gli eventi noti, con la Seconda Guerra, l’invasione giapponese, la guerra civile e la vittoria finale del Partito Comunista.

[3] – Il “Secolo dell’umiliazione” è il periodo dal 1840 al 1949 che intercorre tra la prima “Guerra dell’Oppio” e la vittoria del PCC.

[4] – Nel 1840-42 la Cina perde la Guerra dell’oppio contro l’Inghilterra, causata dalla decisione imperiale di proibire e sequestrare l’oppio che stava provocando enormi danni alla società cinese. Negli anni successivi, l’allargamento del traffico e le indennità accordate drenano la ricchezza liquida dall’economia e provocano un drastico impoverimento dei contadini nella Cina meridionale. Di fatto gran parte del surplus affluisce in Occidente (in particolare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti). Le tensioni che si accumulano innescano nel 1851 una vastissima rivolta contadina Han, viene proclamato il Taiping Tianguo (“Celeste regno della grande pace”) il quale, sulla base di una radicale riforma agraria di tipo religioso e comunistico, si impossessa della Cina meridionale e centrale e minaccia la capitale Manciù a Nord. La rivolta dura fino al 1864 e costa decine di milioni di morti. Seguono anni di espansione in tutto il mondo dei domini coloniali occidentali e l’avvio della Prima Guerra Mondiale. La Cina attraversa una fase di pronuncia dissoluzione del controllo centrale, aggredito dai Giapponesi, mentre crescono fermenti nella gioventù colta delle aree urbane. L’8 gennaio del 1918 il Presidente Wilson annuncia i suoi 14 punti, che creano grande attesa in tutto il mondo coloniale. A Baku, dal 1° al 8 settembre del 1920 si tiene il “Congresso dei popoli di Oriente”, che orienta le lotte in senso antimperialistico.

[5] – Il marxismo, in termini di formazione ideologica originaria, è sicuramente ed interamente occidentale. Come mostra efficacemente Cedric Robinson in Black marxism, ciò a partire dalla “concezione materialista della storia” di Marx (poi trasposta in “materialismo dialettico” da Engels e successivamente, ovvero positivizzato) innervata nella filosofia della storia hegeliana, che viene messa “sui suoi piedi”. Ma anche alla visione incentrata sulla “interna officina” del capitalismo che sottostima i rapporti di con-fusione e contaminazione che da sempre contraddistinguono la storia europea e la nativa e strutturale importanza della relazione costitutiva dell’accumulazione capitalista con il sistema-mondo (non solo “originaria”). Le due cose innervano la scelta, e caratterizzazione, della “classe lavoratrice” (senza attribuzioni) come motore della rivoluzione e di questa come movimento che promana dall’interno (secondo una rilettura della tradizione filosofica europea, di Aristotele in particolare). Secondo questa declinazione razionalista e universalista (specificamente connessa con la tradizione ebraica che giunge a Marx dalla madre e cristiana nella quale è immerso), la società borghese è interpretata come compimento della storia precedente e trampolino del salto finale e veicolo di una compiuta razionalizzazione di tutte le relazioni sociali. Alcune declinazioni della tradizione marxista, in particolare sulla linea delle concrete rivoluzioni nel Novecento (ovvero quella da Lenin a Mao, e poi il marxismo caraibico, quello africano e via dicendo), e riarticolazioni teoriche (il marxismo newyorkese di Baran e Sweezy e la seguente “teoria della dipendenza” di provenienza sia Sud Americana sia Africana o le teorie del capitalismo razzializzato e post-coloniale intorno a figure come Maurice Thorez, José Carlos Mariategui, Ceril James, Huey Newton, Amilacar Cabral, Raymond Williams, GayatriSpivak, e altri) hanno cercato di superare alcuni di questi limiti. Limiti riconducibili soprattutto alla posizione storicista, teleologica e universalista che presuppone il modello Occidentale storicamente dato come modello.

[6] – La storia del PCC è intrecciata con la storia della decolonizzazione della Cina dal dominio occidentale, dall’aggressione giapponese, e successivamente alla vittoria allo sforzo di costruire un corpus teorico che si inserisse nel movimento internazionalista senza perdere le specificità date dalla situazione e tradizione culturale. I problemi originari sono la situazione derivante dalla dialettica città-campagna, la dominazione economica occidentale, la lotta antimperialista e per la sopravvivenza come nazionale, la lotta di classe. La rivoluzione è la risposta all’esigenza di sviluppare istituzioni efficienti in un’epoca di disgregazione ed umiliazione e di governare una modernizzazione ineguale che produceva effetti disgreganti profondamente sentiti dalle strutture comunitarie contadine. Alla fine, contrariamente alla vulgata marxista, è il mix di tutte le rivoluzioni affermate, invariabilmente avvenute durante fasi di accelerazione e trasformazione disordinate. Certo, la rivoluzione riempie un vuoto culturale, mettendosi al posto dell’autorità imperiale, ma nella prima fase distrugge intenzionalmente la base economica del potere sociale nei villaggi, i lignaggi, le associazioni religiose e le società segrete, e collettivizza eliminando o ponendo sotto strettissimo controllo il commercio privato. La prima parte della storia ideologica marxista cinese è caratterizzata dal confronto e scontro con la prospettiva russa, e stalinista in specie. La prima recezione, intorno alle figure di Li Dazhao (1889-1927) si concentrò sull’applicazione della prospettiva del materialismo storico all’analisi delle radici sociali e strutturali della crisi, ma negli anni Trenta il modello stalinista di lettura del processo storico (il “diamat”) venne contestato da alcuni intellettuali marxisti come Jian Bozan (1898-1968), Fan Wenlan (1893-1969), Li Shu (1916-1988), che misero a tema il carattere “europeo” del marxismo e quindi di “modello generale”. Lo scontro formativo è quello tra Wanh Ming, il leader dei cosiddetti “ventotto bolscevichi” (di stretta osservanza staliniana) e lo stesso Mao che oppose la tesi dell’assenza di un solo marxismo “astratto”, in favore di un marxismo che si articolava e dispiegava nelle forme nazionali e locali. Dunque “sinizzato”. A partire dalla Conferenza di Zunyi del 1935 la linea di Mao si afferma (per consolidarsi a partire dal 1941 per consolidarsi nel 1944) la tesi di Mao è che bisogna legare strettamente la teoria generale del marxismo-leninismo con la pratica della lotta rivoluzionaria nelle campagne e la mobilitazione della piccola borghesia. Linea maoista che, a parere di Li Zheou, alla fine affondava le proprie radici in una rivisitazione della tradizione cinese e non nel marxismo originario.In questo senso, il marxismo cinese non è solo un adattamento, ma una vera e propria reinvenzione del progetto moderno, nella quale il partito prende il posto dell’impero, e la dialettica storica si intreccia con la continuità profonda del pensiero politico e cosmologico cinese. Il rapporto tra marxismo sinizzato, sin dall’origine, e tradizione confuciana riscritta è dialettico, selettivo e strategico al tempo. Fino agli anni Settanta si tratta di un conflitto esibito, poi, da Deng in poi con la messa in sordina della lotta di classe in favore di una più esibita spinta alla modernizzazione i valori di ’armonia (和), la gerarchia funzionale, il culto dell’educazione e del bene pubblico, la centralità del dovere comunitario vengono in primo piano. Confucio in Xi e nei suoi predecessori è letto come un nazionalista morale, in tensione potenziale con il carattere egualitario e universalista del marxismo. Tu Weiming lo definisce questa sintesi “umanesimo confuciano con caratteristiche cinesi moderne”. Il maoismo – pur nella sua retorica iconoclasta – non si limita a distruggere la tradizione, ma la reinventa, attraverso un processo di dislocazione e reinsediamento del marxismo all’interno dell’universo culturale cinese. Ciò che viene assunto dal confucianesimo, anche nella sua fase di critica, è il valore della totalità etico-politica, l’idea di una moralità pubblica fondata su relazioni armoniche, la centralità del bene comune, la responsabilità dell’intellettuale e del sovrano come guida morale della collettività. Una delle principali traslitterazioni è quindi tra Partito e Impero, garante della stabilità, mediatore tra Cielo e Terra, custode della continuità culturale. In questo senso, la risemantizzazione del confucianesimo non è semplicemente ideologica, ma ontopolitica: serve a garantire la legittimità profonda dello Stato come autorità morale oltre che politica.Lo sforzo è di creare una forma alternativa di modernità che sia imperniata su un’etica pubblica post-individualista. In questo quadro, il confucianesimo stesso smette di essere una tradizione “chiusa” e viene risignificato come dispositivo moderno, selezionato, scolpito, talvolta manipolato, ma comunque riattivato come forma di memoria utile al governo del presente. La tradizione, come la rivoluzione, non viene semplicemente “subita”, ma usata come archivio di senso, campo di battaglia, risorsa strategica.Un punto di equilibrio tra i più importanti tra l’impulso universalista e storicista del marxismo e la prospettiva morale e umanista cinese è nell’immagine (non “concetto”) di tianxia di cui parleremo più avanti.

[7] – XiJimping, “Sforzarsi di realizzare una evoluzione creativa e uno sviluppo innovativo della cultura tradizionale”, in Governare la Cina, II, Giunti 2019, p. 405.

[8] – Franz Fanon, Pelle nera maschere bianche, Edizioni ETS, 2015 (ed. or. 1952); Franz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, 1962 (ed.or. 1961); Franz Fanon, Scritti politici I e II, Hydra, 2006 (ed. or. 2001)

[9] – Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, Ombre corte, 2010 (ed. or. 1955).

[10] – Edward Said, Orientalismo, Einaudi 2001 (ed. or. 1978); Edward Said, Cultura e imperialismo, Feltrinelli, 2023 (ed.or. 1993).

[11] – DipeshChakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, 2004 (ed. or. 2000)

[12] – José Carlos Mariategui, Difesa del marxismo, PGreco, 2021

[13] – Boavenura De Sousa Santos, Epistemologie del Sud. Giustizia contro l’epistemicidio, traduzione di Samuele Mazzolini, Roma, Castelvecchi, 2021.

[14] – Samir Amin, Eurocentrismo, La Città del Sole, 2008

[15] – Achille Mbembe, Critica della ragione negra, Ibis 2016 (ed.or. 2013); Achille Mbembe, Emergere dalla lunga notte, 2018 (ed. or. 2012)

[16] – Si veda la critica che fa Jean-Loup Amselle in Il distacco dell’Occidente, Meltemi 2009

[17] – Amselle, cit., p p. 216

[18] – A partire dagli anni del secondo decennio del XXI secolo nelle principali università anglosassoni, e poi in parte della società orientata verso la sinistra, è diventato necessario mostrarsi woke (sveglio, attento alle discriminazioni e alle microviolenze). Se pure essere attento a non rendere a nessuno discriminazione e violenza è fondamentale per la vita civile, in realtà questo movimento va molto oltre. In un contesto di critica alle “grandi narrazioni” di liberazione (come il marxismo e il liberalesimo, ma anche le religioni), invalso a partire dagli ultimi decenni del XX secolo intorno ad autori iconici come Michel Foucault, Jacques Derrida e Gilles Deleuze,Lyotard, Baudrillard e molti altri, al posto di discorsi generali di liberazione dal taglio universalista ed incentrati sulle condizioni materiali (anziché su diritti e apertura) venne impostato un discorso che focalizzava direttamente i gruppi in diversa misura “oppressi”. Se alcune radici di questa posizione sono rintracciabili nel lavoro di Said, Spivak, Derrick Bell e KimberléCrenshaw, che svilupparono critiche situate e per certi versi anche condivisibili si inserisce in un vasto movimento di riflusso che segue alla caduta del mondo sovietico, delle speranze della decolonizzazione e alla fase unipolare. Questo movimento vede l’affermazione di una nuova sinistra concentrata sui temi culturali e dà il via a nuove specializzazioni universitarie (e solo dopo movimenti di opinione) il cui nomi sono African American Studies, queer studies, gender studies, latino studies e Asian american studies. Autori come Chela Sandoval, Richard Delgado, Judit Butler, svilupparono un discorso che l’ultimo Said tacciò di “vittimismo”. D’altra parte, come sintetizza Andrea Zhok in un suo recente libro, se manca una verità morale alla quale appellarsi, o collettività che lo fondi, e ogni giudizio è esito di rapporti di potere, come voleva Foucault, allora ogni esercizio è ingiustificabile e legittimato solo dai risultati. In fine vengono ad avere una preminenza le forme di soggettività emarginate, vittime di effetti di verità narrativi infondati. Il folle, il carcerato, il pervertito. Se nessun potere si legittima per la maggiore razionalità, l’aderenza a valori, un qualche fondamento sociale dato e preesistente, allora nello scontro delle ‘volontà di potenza’, tutto sommato, non resta che dire che i marginali, i pochi e gli sconfitti hanno un vantaggio di legittimazione. O, almeno, lo possono pretendere più di altri. Si tratta in sostanza di un discorso non criticabile, imperniato su una postura autoreferente e schermata, che esibisce il suo spirito antiautoritario e la vocazione ribelle, sostanzialmente aristocratica. Cfr. da posizioni anti-liberaliAndrea Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi 2020, p. 242 e seg. YaschaMounk, La trappola identitaria, Feltrinelli 2024 (sia pure da posizioni liberali).

[19] – XiJimping “Creiamo insieme un nuovo partenariato di cooperazione reciprocamente vantaggioso e poniamo le basi per una comunità umana dal futuro condiviso”, Discorso all’ONU, 28 settembre 2015, in Governare la Cina, II, cit., p. 674

[20] – Che racconta la straordinaria vicenda di Kondiaronk, stratega dei Wendat, una confederazione di quattro popoli irochesi il quale cercò all’inizio del Settecento di evitare che inglesi, francesi e la coalizione hanfenosaunee si unissero contro la sua. Presumibilmente inviato come ambasciatore del suo popolo in Francia, si fa critico sia del cristianesimo sia della logica della trasposizione del potere sulle cose (la proprietà) in potere sugli uomini. I suoi arguti argomenti, secondo Graeber, influenzano profondamente lo stesso dibattito europeo contemporaneo sulla ineguaglianza. Uno dei più specifici argomenti portati da Kondiaronk, e riportati in Dialoguescurieux: entre l’auteur et un sauvage de bon sense qui a voyagé, del 1703, dell’aristocratico francese Louis-Armand de Lom d’Arce, è che le leggi punitive di stampo europeo, e la stessa dottrina cristiana della punizione eterna, non sono rese necessarie dalla naturale cattiveria umana, ma da una forma di organizzazione sociale che incoraggia il comportamento egoista e l’avidità. Sono quindi le distinzioni tra “mio e tuo”, per usare le sue parole riportate nel libro, a rendere “disumana” la vita in Francia. Come dice, “affermo che quello che chiamate denaro è il diavolo dei diavoli; il tiranno dei francesi, la causa di tutti i mali; il flagello delle anime e il mattatoio dei vivi”. Insomma, “un uomo motivato dall’interesse non può essere un uomo ragionevole”.David Graeber, David Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli 2022, p. 67

[21] – Alcuni autori per approfondire tale concetto possono essere Edouard Glissant e Walter Mignolo. Il secondo è un pensatore argentino, capofila del pensiero decoloniale latinoamericano che con AníbalQuijano, Enrique Dussel, Ramón Grosfoguel, sostiene che la modernità occidentale è inseparabile dalla colonialità, un sistema globale di gerarchie di potere, sapere che è emerso con la conquista delle Americhe. E’ quindi necessario promuovere “altre geografie del sapere” che si sottraggano al pensiero epistemico eurocentrico. Un concetto chiave è la “pluriversalità”, ovvero la legittima coesistenza di molteplici cosmologie, razionalità e forme di vita chiamate a convivere. Edouard Glissant, poeta della Martinica, e voce del pensiero caraibico, vede l’identità come aperta, molteplice e interdipendente (non ci si conosce se non attraverso la relazione all’altro”, e promuove il concetto di “Tout-Monde” (Tutto-Mondo) una visione come rete di interconnessione senza centro e periferia. Ne segue una poetica della “creolizzazione” e della “opacità” (non ridurre l’altro alla nostra misura). Rispetto al concetto cinese di tianxia, imperniato sulla attrazione morale, l’armonia e la centralità relazionale, il concetto di Tutto-Mondo è relazione caotica, invece che ordinata, ma in entrambi i casi sono respinte le separazioni fisse e poste tra essere e mondo, identità ed alterità, molteplicità separate e competitive.

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