La politica moderna si è fondata su una concezione
lineare del tempo, ereditata dalla filosofia illuminista e dalle teorie del
progresso. Questo modello, che prevedeva un’evoluzione costante e razionale
delle istituzioni e delle società, ha dominato il pensiero politico occidentale
fino alla fine del XX secolo. Tuttavia, la contemporaneità ha introdotto un
elemento di caos che sembra aver dissolto la linearità temporale, sostituendola
con una frammentazione dei significati e delle narrazioni. La questione
cruciale, dunque, non è scegliere tra il progresso e il disordine, ma
comprendere chi sta utilizzando il caos e con quale finalità.
Il concetto di progresso, dalla Rivoluzione Francese
alla modernizzazione industriale, implicava un’idea di continuità e di
miglioramento strutturale. Anche le ideologie novecentesche, pur con esiti
diversi, hanno condiviso questa premessa: il marxismo nella sua teleologia
storica, il liberalismo nella sua fiducia sconsiderata nel mercato. Tuttavia,
con l’avvento della globalizzazione, dell’accelerazione tecnologica e della
crisi degli stati-nazione, la linearità storica si è incrinata. Il tempo
politico appare oggi discontinuo, soggetto a un’accelerazione incontrollata,
mentre il discorso pubblico si frammenta in una molteplicità di narrazioni
contraddittorie.
Questa condizione ha generato un’incertezza che non è
solo epistemologica, bensì eminentemente politica. Il caos non è un fenomeno
neutro: esso può essere gestito, strumentalizzato e persino prodotto. Le élite
politiche ed economiche hanno spesso utilizzato la crisi come dispositivo di
controllo, generando stati di emergenza per giustificare interventi autoritari
o per ridefinire i rapporti di potere. In un mondo governato dal caos, il
potere non si limita a rispondere all’imprevedibilità degli eventi, ma ne è,
paradossalmente, il creatore. Le crisi non sono più eventi eccezionali, ma
ordinarie occasioni di consolidamento per chi detiene il potere. In questo
contesto, la manipolazione del caos diventa una vera e propria arte, una danza
macabra tra l’ordine e il disordine, dove l’unico scopo è la perpetuazione
della struttura di controllo delle masse. Le élite non solo navigano nelle turbolenze, ma le provocano, come se
il disordine fosse un laboratorio per la costruzione di nuove forme di dominio.
Ogni crisi diventa un palcoscenico per un’innovazione autoritaria, in cui si
sperimentano nuove tecniche di sorveglianza, nuove forme di disuguaglianza,
nuove giustificazioni per la concentrazione del potere. In un certo senso, l’incertezza
non è il nemico, ma il principale alleato delle politiche neoliberiste: l’instabilità
è la materia prima su cui costruire forme di potere sempre più forti.
Un esempio emblematico è la crisi finanziaria del
2008: il crollo dei mercati, apparentemente accidentale, ha in realtà
consentito la concentrazione del capitale nelle mani di pochi attori
finanziari, giustificando politiche di austerità che hanno eroso il welfare state e accresciuto le
disuguaglianze sociali. Similmente, la pandemia di COVID-19 ha mostrato come il
caos sanitario ed economico abbia rafforzato il potere delle grandi piattaforme
tecnologiche, consolidando il dominio delle multinazionali digitali e
ridefinendo il rapporto tra cittadino e stato attraverso nuove forme di
sorveglianza e controllo.
Anche nel campo della geopolitica, il caos è stato
ampiamente strumentalizzato. La guerra in Siria, ad esempio, ha visto l’intervento
di potenze regionali e globali che hanno alimentato il conflitto non per
risolverlo, ma per ridefinire gli equilibri di potere nel Medio Oriente. La
crisi migratoria che ne è scaturita è stata poi utilizzata da movimenti
populisti europei per rafforzare la propria narrazione securitaria e
nazionalista, contribuendo alla ridefinizione dell’ordine politico interno
degli stati membri dell’Unione Europea.
Di fronte a questo scenario, la ricerca di un nuovo
principio di organizzazione politica non potrà limitarsi a riproporre le
filosofie della storia del passato. Non si tratta di tornare a una presunta età
dell’oro della politica moderna, né di inseguire nostalgicamente forme di
sovranità ormai logore. Occorre piuttosto individuare modalità inedite di
costruzione dell’ordine, capaci di rispondere alla sfida della complessità
senza scadere in semplificazioni autoritarie o tecnocratiche.
Anzitutto, occorre ripensare
la filosofia politica attraverso una nuova visione della temporalità. La politica non può più basarsi
su un modello di progresso lineare che ignora le discontinuità e le fratture
strutturali della contemporaneità. È necessario abbracciare una visione più
complessa del tempo, che riconosca il caos come una dimensione ineliminabile
della realtà politica. Ciò implica una gestione dinamica dei conflitti, capace
di considerarli come parte integrante della società, riconducendoli nell’alveo
delle regole democratiche.
Le politiche neoliberiste che hanno esacerbato le
disuguaglianze sociali vanno riconsiderate. È urgente pensare a un nuovo
modello economico che affronti la concentrazione del capitale e la devastazione
ambientale e che promuova una distribuzione più equa delle risorse.
Il potere delle piattaforme tecnologiche, inoltre, non
può più essere ignorato. È necessario introdurre leggi che regolamentino in
modo rigoroso l’uso delle tecnologie digitali, proteggendo la privacy dei
cittadini e prevenendo il controllo massivo delle informazioni.
I movimenti populisti hanno prosperato sfruttando il
malcontento e la paura legati alla globalizzazione. Per contrastarli, è
essenziale potenziare la partecipazione democratica a livello locale,
promuovendo forme di autogoverno che rispondano alle reali esigenze dei
cittadini e che non siano subordinati alle logiche globali.
Infine, le società contemporanee sono
caratterizzate da una frammentazione delle informazioni. È fondamentale che i
sistemi educativi si concentrino sullo sviluppo del pensiero critico,
insegnando ai cittadini a riconoscere la manipolazione e a distinguere tra
informazioni e disinformazioni.
La politica del futuro non potrà prescindere da una
nuova concezione del tempo, che non sia né ingenuamente progressista né
paralizzata dalla frammentazione, ma che sappia integrare la pluralità senza
cadere nel relativismo nichilista. In questo senso, la riflessione politica
contemporanea deve interrogarsi sulle condizioni di possibilità di un nuovo
ordine che non sia una mera restaurazione, ma una reale trasformazione della
forma politica. Chi detiene il potere sul caos ne determina gli esiti: la posta
in gioco è la capacità di orientare il disordine verso una rinnovata
legittimità democratica, capace di coniugare complessità e coesione sociale
senza sacrificare la giustizia sull’altare di un’ideologia della libertà che si
rivela fonte soltanto di oppressione.
Se la politica del caos è diventata una strategia di gestione dell’indeterminato, tuttavia, non possiamo più limitarci a criticare la sua applicazione. La domanda non è solo “chi controlla il caos?”, ma anche “come possiamo liberare il caos dalla sua strumentalizzazione?”. Il caos, inteso come l’apertura alla molteplicità e alla complessità, potrebbe diventare un’opportunità per rifondare la politica, non come mera gestione dell’incertezza, ma come spazio di libera sperimentazione sociale, economica e politica. In altre parole, dovremmo imparare a vivere nel caos non come minaccia, ma come possibilità: un caos che non è ridotto a strumento di potere, ma trasformato in un campo di forze liberatorie.