L’industria
alimentare è un mostro che divora se stesso: pesticidi, additivi,
microplastiche, OGM, carni da allevamenti intensivi saturi di antibiotici. Il
cibo che arriva sulle nostre tavole è spesso il risultato di un processo invisibile
di sfruttamento e alterazione. La risposta? Una corsa verso tutto ciò che possa
restituire un’illusione di autenticità: il biologico, il veganesimo, il
“chilometro zero”, la ricerca del piccolo produttore. Più il cibo viene
avvelenato, più cresce il desiderio di qualcosa di incontaminato, di sano, di
etico.
Il mercato
stesso ha trasformato questa tendenza in un business, rendendo il “cibo sano”
un privilegio per chi può permetterselo, mentre il resto della popolazione
resta incastrato in un sistema che non offre alternative. È un meccanismo che
non risolve il problema, ma lo sposta su un altro piano, dando a pochi
l’illusione di potersene sottrarre.
Viviamo in
un’epoca segnata da un individualismo estremo e dall’ascesa di una tecnocrazia
che controlla, orienta, manipola. Le grandi decisioni sfuggono al dibattito
pubblico: gli algoritmi governano l’accesso all’informazione, il capitale si
concentra sempre più in poche mani, le democrazie diventano teatro di giochi di
potere in cui il cittadino è spettatore passivo. Più il mondo è cinico e
dominato da poteri incontrollabili, più si diffonde una moralità di superficie,
fatta di regole linguistiche e indignazione rituale. Non possiamo incidere sui
reali meccanismi del potere, ma possiamo controllare il linguaggio. Possiamo
mettere al bando parole, censurare discorsi e riscrivere il passato.
È l’ennesima
illusione: una società che si concentra sulla forma mentre il contenuto
continua a marcire vuole soltanto ingannarsi.
Un esempio
lampante di questa illusione si trova nelle pubblicità e nei messaggi promossi
da chi, in apparenza, lotta per l’uguaglianza, l’inclusione e i diritti civili.
Personaggi pubblici che difendono la giustizia sociale, come calciatori,
celebrità e influencer, diventano i volti di campagne contro il razzismo e per
l’uguaglianza. Questi stessi individui, tuttavia, gli stessi che si pongono
come paladini della parità, sono anche miliardari pagatissimi che vivono nel
lusso più sfrenato. Il loro successo è costruito su un sistema che, nei fatti,
perpetua le disuguaglianze che loro stessi proclamano di voler abbattere. È un
paradosso: si parla di giustizia, ma si è parte di un sistema che continua a
perpetuare il divario tra ricchi e poveri. Il “politicamente
corretto” diventa così uno strumento di marketing, non di vera
trasformazione sociale.
Come nel caso del cibo, il problema reale rimane intatto: il cinismo, l’individualismo, la crescente sorveglianza tecnologica non vengono fermati da un linguaggio più “rispettoso” o da vuoti messaggi di inclusione. Anzi, è proprio il sistema a incoraggiare queste battaglie perché deviano l’attenzione dalle questioni di fondo. In definitiva, il dispositivo è lo stesso: di fronte a un mondo avvelenato, si invoca una purezza tradita.