“Speranza, forza sociale”


“Speranza forza sociale” è un testo che già nel titolo è trasgressivo rispetto all’ordine costituito. Nella gabbia d’acciaio del nostro tempo la “speranza” non è accolta e non è pensata;  è stata sostituita con  le “merci” che assediano i consumatori. In una realtà pianificata ad immagine e somiglianza del consumo illimitato per l’accumulo di risorse finanziarie,  anche gli stessi cittadini non sono  più tali ma “clienti” sempre più simili a merci prodotte in serie. Nella gabbia d’acciaio l’immensa rete informatica  agisce su ogni punto dello spazio (comunità territoriali) e del tempo (coscienze) per fagocitarci e nulla sembra esistere al di fuori della rete.  

La grammatica del nostro tempo è la disperazione, poiché l’esistenza si sciupa e si dilapida nella violenza e nell’insensato. Eppure l’assoluto (il capitalismo) che incombe ha i suoi punti ottici di resistenza e di azione che dimostrano che la coscienza  umana è condizionabile, ma non è determinabile, malgrado le tempeste della storia essa è “libera”. La libertà è manifesta nel cupo dolore di molti.  La resistenza consapevole, anche di un numero esiguo di oppositori all’ordine costituito, dimostra che nella “gabbia d’acciaio” la speranza c’è e le sbarre che appaiono invalicabili sono in realtà miseramente umane e non sono l’assoluto dinanzi al quale bisogna chinare il capo e abdicare ad ogni progettualità politica. Nella gabbia d’acciaio non vi è solo la passione triste della resilienza, ma abita anche  colui che ancora sa guardare e scorgerà la presenza reale della speranza nel presente. Vi è un contropotere che silenziosamente e lentamente sta avanzando, malgrado i trombettieri abbiano proclamato “la fine della storia”.

Il testo composto da una serie di saggi è dedicato a Gustavo Esteva[1] scomparso nel 2022. L’impegno di Gustavo Esteva per la speranza è durato quanto la sua esistenza e l’ha testimoniata con le sue opere e con le sue parole. Gustavo Esteva fu “intellettuale deprofessionalizzato”, ovvero egli da uomo che viveva la speranza, sapeva bene che la speranza non è nell’intellettuale chiuso nel suo ruolo ieratico che indica l’orizzonte verso cui marciare,  bensì è pane condiviso, è parola che diviene prassi, solo la coralità del dolore e la progetttualità discussa dal basso può far emergere la dimensione della speranza nella distopia della gabbia d’acciaio. Le parole di Gustavo Esteva sono esplicative del processo di emancipazione dal capitalismo, il quale, non è “fuori” del soggetto, ma si infiltra nel corpo e nella mente, distorce la percezione sensoriale fino a “insegnare” al suddito ad astrarsi dalla materialità viva del suo tempo per proiettarlo in una dimensione solipsistica e impotente. Egli ha testimoniato e testimonia la necessità di disalienarsi dalle tossine del capitalismo per imparare a guardare la “speranza” che fiorisce anche nella prigione invisibile del nostro tempo. Si impara la speranza come si impara a guardare, ma ciò non può che avvenire nella comunità piccola o grande, non importa, purchè essa sia “ il tempo” nel quale affrancarsi dai miti divisori del capitalismo per vivere la prossimità del dono. La  speranza è nel tocco che genera e rigenera la vita e le vite, è nella resistenza di coloro che difendono la propria umanità con “l’economia del pane”:

“All’interno di una lotta anticapitalista non possiamo liberarla fintanto che si mantenga una visione del capitalismo che ci sommerge in questa paranoia unitaria e totalizzante, finchè la si percepisce  come un sistema unificato, omogeneo, che occupa tutto lo spazio  sociale  e dal quale niente può fuggire. Sarebbe onnipresente e quasi onnipotente.(…) Quello che è importante per il nostro proposito è riconoscere il capitalismo come  un regime economico caratterizzato da determinate relazioni sociali di produzione, descritte tecnicamente dai tempi di Marx. Nelle società dove questo regime domina, esistono ampi spazi in cui non prevalgono queste relazioni sociali. Questi spazi autonomi come le aree sotto controllo zapatista sono circoscritti e sono minacciati dal regime dominante, ma sono sacche di resistenza dalle quali si sprigiona e si organizza l’insurrezione in corso, come esaminerò più avanti. Lì, come anche in spazi sotto lo stretto controllo del regime dominante, iniziano a svilupparsi nuovi tipi di relazioni[2]”.

Speranza e dolore

La speranza nasce dalla deportazione e dall’esilio, è il fiore del deserto, è il segno che l’umanità è spirito che vince le frontiere geografiche e mentali e apre i numerosi chiavistelli che il potere ha posto a sua custodia. Essa in una realtà terrorizzata dal “nuovo” e che tutto pianifica e prevede, è  lo spirito e sbriciola la meccanica organizzazione causale ordita dal potere. Le oligarchie l’avversano, poichè  è la forza rigeneratrice della vita che trascendendo  sofferenze indescrivibili con le parole e ciò malgrado comunicabili con lo sguardo e con la delicatezza espressiva dei gesti smentisce i “piani” e le “pianificazioni” del dominio. La storia è in questa lotta tra la vita (speranza) e la morte (potere). La speranza è già nel presente in forme che il dominio con i suoi servitori non sa immaginare e decodificare. Gli ultimi sono il motore della storia, ne sono il sale, poiché la speranza giunge a noi con l’esperienza del dolore dal quale sgorgano prospettive impensabili e che sono visibili già nel presente:

“La speranza  nasce sempre da una deportazione e un esilio. Ogni altra speranza è illusoria perché non si fonda sulla sabbia dalla quale tutto scaturisce e alla quale tutto ritorna. Essa si incontra soprattutto dove si presume non possa trovarsi e torna quando tutto è perduto[3]”.

Dove inizia la speranza? In quale tempo essa si configura? Mauro Armanino ci risponde con la semplicità di colui che conosce le profondità dell’anima. La speranza è dove l’alterità è riconosciuta nella sua umanità. Il miracolo è nel tempo ordinario degli sguardi che si riconoscono come parte di un unico destino nella medesima fragilità della carne. La condivisione libera dalle morbosità che si annidano nel corpo e nello spirito incidendo in essi ferendoli. Nello sguardo che fuga le paure e i timori abita la speranza:

“La speranza ha un corpo migrante che le intemperie, il caldo del giorno e il freddo delle notti nel deserto hanno reso ancora più sottile ed esiguo. Anche il corpo della speranza è passato attraverso la grande tribolazione del viaggio che in fondo costituisce il proprio di ogni migrazione, talvolta più importante della destinazione. La guarigione dei corpi accade  nel momento in cui il migrante è trattato da persona umana, ed è precisamente quel miracolo che riesce a far sorridere, per un momento, la speranza, silenziosa fino ad allora[4]”.

Principio di scarsità

Il dominio per inficiare la speranza pone in essere “il principio di scarsità”. Si è ricchi e ci si percepisce miseri, si ha tutto eppure ci si tormenta per i beni che mancano. Il principio di scarsità insegna a tenere basso lo sguardo. Esso si fissa verso la terra e ricerca solo le merci, in tal modo ci si divide dai fratelli, si opera un taglio che spinge verso la solitudine mai paga dell’accumulo. L’arsura delle merci divide e rende fragili, in quanto la rabbia e la paura prevalgono e oscurano lo sguardo:

“Il risveglio della speranza  sgretola i due aspetti del principio di scarsità. Alla scarsità  contrappone la sufficienza, la nozione che non siamo privi di qualcosa, non siamo esseri che hanno bisogno di qualcosa, ma abbiamo quanto basta e possiamo vivere  gioiosamente e pienamente a partire dai tessuti comunitari del dono condiviso. All’espropriazione che instaura l’individuo carente e bisognoso si contrappone la condivisione che forgia la persona e la sua rete di amicizia di sostegno e di dono reciproco[5]”.

Ogni tempo ha la sua lotta, e dove vi è lotta vi è speranza. Nel nostro tempo al principio di scarsità si aggiunge la riduzione della vita a “nuda vita”. La speranza deve confrontarsi con l’inganno della vita burocratizzata e ridotta a soffio vitale senza spirito. Il dolore di coloro che disperdono la vita sotto il giogo dell’amministrazione non è definibile, perché è infiltrante e indefinibile. La speranza si genera tra le piaghe e tra le pieghe della burocratizzazione della vita ridotta a mezzo senza voce:

“La vita umana, ridotta a nuda vita, diviene un fatto burocratico, amministrativo, e, come dicono gli zapatisti, le persone vengono trattate secondo il principio dell’<<usa e getta>>. In una società tecnologica avanzata come quella odierna ne servono sempre meno, omogeneizzate secondo le esigenze di macchine più complesse e più obbedienti[6]”.

La speranza è collettiva

La speranza deve confrontarsi con le asperità della storia con i suoi inganni e con le sue tragedie quotidiane,  è la sorpresa che rovescia i troni e innalzi gli umili verso nuove configurazioni sociali. La speranza obbedisce all’autentica natura umana, essa è agire collettivo. L’essere umano per natura è sociale e solidale, pertanto dove la natura umana non è vinta risorge la speranza quale forza che rimescola “i tempi della storia” e sorprende con il suo incanto, finchè l’essere umano sarà  sul pianeta nella forma che conosciamo, non perirà, poiché è nella natura dell’essere umano la pratica immaginativa della speranza:

“Niente è fattibile finchè non lo diventa attraverso l’azione collettiva[7]”.

Il capitalismo ha fondato la prima società autofaga e antropofaga. La vita è minacciata nella sua totalità. La sofferenza è generalizzata e attraversa in modo differente popoli e culture. Il potere non è assoluto, è umano troppo umano, pertanto è necessario conoscerlo per disarticolarlo nella sua malvagia insipienza. La speranza è nel dolore di coloro che lo conoscono, poiché è nella loro carne, ma da questo vulnus nell’anima e nel corpo rinasce la vita e con essa  la speranza. Solo coloro che sono toccati dalla sofferenza sono il pane del mondo dalla cui forza vitale risorge eterna la passione della speranza che rompe il disperato  grigiore del potere e delle passioni tristi. Il futuro non è in una dimensione altra, ma come Gustavo Esteva affermava, è “qui ed ora”. La speranza ha il suo cominciamento nel dono e nella pratica dei bisogni autentici che rompono con l’asfissiante atomismo della globalizzazione con il suo dogma “il principio di scarsità”:

“La strategia da applicare, sottolinea Esteva, è quella del ritorno dal futuro astratto al presente reale, al <<qui e ora>>, e alla realtà del territorio in cui si vive, contrapposto al mito della globalizzazione[8]”.

Il potere ci vuole tutti, ricchi e poveri, soli e disperati in modo da nutrirci con le cattive merci e con i suoi miti, ma noi restiamo umani, malgrado tutto; da questo germoglio di consapevolezza inizia una storia sconosciuta ai dominatori del “pensiero unico”. L’assoluto del capitale si scioglie al sole della speranza, questa verità è l’incipit comunitario di un’altra storia.


[1]Gustavo Esteva è stato un attivista sociale e un intellettuale pubblico deprofessionalizzato. Ha lavorato in modo indipendente e all’interno di un gran numero di organizzazioni e reti locali, regionali, nazionali e internazionali, ha contribuito  alla creazione di alcune di queste quali il Centro di Incontri e Dialoghi Interculturali e la Rete Interculturale di Azione Autonoma. è fondatore della Università della Terra (unitierra), una organizzazione per l’apprendimento secondo le idee di Ivan Illich, con sede a Oaxaca (Messico). È stato assessore degli zapatisti nel dialogo con il governo messicano e ha partecipato all’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca (da Asterios editore abiblio)

[2] Gustavo Esteva, Elias Gonzales Gòmez, Ana Cecilia Dinerstein, Mauro Armanino, Speranza forza sociale, Mutus Liber Riolav(BO), 2024 PP. 165 167 (Testi di Gustavo Esteva)

[3] Ibidem pag. 187 (La speranza è di sabbia di Mauro Armanino)

[4] Ibidem pp. 189 190

[5] Ibidem pag. 48 (Il risveglio della speranza secondo Ivan Illich di Elías Gonzáles Gómez))

[6] Ibidem pag. 142 (Quale futuro per l’homo sapiens?)

[7] Ibidem pag. 72 (L’arte di organizzare la speranza  di Ana Cecilia Dinerstein)

[8] Ibidem pag. 117 (Passione per la speranza. Dialoghi con Gustavo Esteva)

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