Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Si può pensare che un imprenditore di successo diventato politicamente potente possa ragionare e concepire la realtà e quindi la politica diversamente da come ha sempre fatto? Il suo America first, espressione che contiene una storia profonda e una politica precisa, ha anche il potere di tenere a bada e accudire l’elettorato lasciato indietro dalle amministrazioni che l’hanno preceduto.
L’amministrazione
Biden sotto il sommo controllo delle lobby finanziarie e dello stato profondo
ha tentato, forse per l’ultima volta nella storia, di sottomettere la Russia.
Un progetto che rappresentava l’ultimo anello di una catena messa in atto dagli
statunitensi al fine di mantenere la loro egemonia mondiale mai così incerta.
In realtà, la
Russia a sua volta non era che un tassello, anche in questo caso forse l’ultimo
necessario per arrivare a contenere l’esplosione economica, quindi anche
militare, della Cina.
Il lato B
dell’idea di annichilire o guinzagliare la Russia e tenere a bada la Cina era,
a dir poco, esiziale. Come ho scritto in precedenza in altri due articoli (AUSA –
Autarchici Stati Uniti d’America e Rischio
manifesto) si trattava di due rischi. Il primo: non vedere rinnovato il
monopolio del controllo sul mondo, con le sue ricadute economiche a vantaggio
statunitense, elemento a sua volta primario per garantire longevità e benessere
americano (anche se non per tutti); il secondo, forse di superiore importanza, l’eventualità
di autarchia coatta, nel caso Russia, Cina e compagnia Brics (1) avessero preso
il controllo economico del mondo per poi approfittarne applicando la legge del
taglione. Desiderio in un certo senso legittimato dalla vergognosa collana di
malefatte americane distribuite su tutta la geografia del mondo negli ultimi cent’anni.
Se gli elementi
accennati delineano in qualche misura la ragione dei comportamenti messi in
campo da Biden e dai suoi pupari, di tutt’altro ordine sono quelli che, in poche
settimane di lavoro del neoeletto Trump, si possono raccogliere in una precisa
costellazione che si staglia, più lucente delle altre, nel firmamento della
realtà.
L’America first
di Trump, oltre a essere un perno dei suoi ragionamenti è anche un diversivo,
un mozzo intorno al quale far girare la giostra del suo luna park per
scongiurare il rischio già citato di trovarsi in un paese costretto
all’autarchia.
Per sua sorte, Putin
e Xi Jinping, il primo per necessità, il secondo per cultura, pare, quantomeno
in ambito internazionale, hanno buttato a mare la retorica della sopraffazione
e dell’esportazione di se stessi, che ha aleggiato e che è atterrata troppe
volte sul mondo navigando e volando su flotte e squadriglie travestite da
missionari a stelle e strisce.
Il segno e
l’ascendente del presidente grande grosso e biondo sono tra di loro identici:
fare affari, fare affari. Scalzando in un colpo l’intera retorica moralistica e
di controllo – quella che a Bruxelles il falso parlamento vende a poco prezzo,
quella che ormai un popolo crescente ha capito non valere niente – il piano di
lavoro di Trump non può che essere gradito a Est dell’antico Muro di Berlino.
Partiamo dallo
sfondamento rugbistico che il biondo presidente ha compiuto sul campo di gioco
della guerra ucraina. Un modo di fare previsto anche dagli esperti della politica statunitense,
in bretelle o tweed con Clarks, che è andato diretto al punto, cioè a
negoziare con il dirimpettaio Vladimir i termini per un accordo di fine guerra.
Non solo, se la meta portata a segno appena citata – tra l’altro rispettosa della
promessa fatta ai suoi elettori di far finire il conflitto slavo-fratricida
(checché ne dicano gli ucraini) – costituisce di per sé uno sconquasso
geopolitico al pari di un’orca nel branco di foche, di pari scompiglio è stata
l’esplicita estromissione dal tavolo degli accordi tanto di Zelensky, quanto
dell’Unione Europea (attimo di pausa, che mi vien male solo a nominarla, a
pensare a chi la guida e a constatare su che niente sta in piedi).
C’è Crozza in
regia? Sì, perché l’indignazione indispettita che ha vestito la reazione di
queste due figure – che in quanto a figure barbine sono maestre – aveva del
divertente, anche forse un’anima alla Dario Fo, perché più che divertente era
surreale. Hanno alimentato la guerra fino all’ultimo poro senza perdere neppure
un quanto di energia da devolvere al conflitto in tutti i modi in cui questa
poteva materializzarsi: armi, munizioni, carri, denari, tanto che pare perfino
strano non abbiano mandato anche cristiani in mimetica.
Hanno
dimenticato il nazismo ucraino, piazza Maidan, il “fuckthe EU”(2), la
guerra iniziata nel 2014, gli annosi avvertimenti di Putin in merito
all’avvicinamento-accerchiamento Nato, hanno perciò timbrato a ceralacca
l’inizio del conflitto nel 2021, e non hanno mai vacillato nel puntare il dito,
anzi il jingle, su un solo punto, quello della diade invasore-invaso, come se
la storia iniziasse in quel momento, come se non ci fosse altro da considerare.
Hanno stuprato i negoziati di Minsk che avrebbero potuto comportare la
salvazione di un paese e di un popolo, e hanno tagliato la gola a quelli di
Istanbul. Hanno sostenuto contrattacchi primaverili, tacendo poi sulla
conseguente disfatta. Ne hanno fatte più di Bertoldo e ora si irritano per
l’esclusione dai negoziati. Ma siamo sul palco di Casa Cupiello?
Se ogni
espressione umana ha una ragione, un’architettura che la sorregge, una
biografia che ne necessita, quella che Trump sta mostrando al mondo, tenendo
presente la sua matrice di uomo d’affari, avrebbe una possibile spiegazione.
Donald: Goodmorning dear Vladimir, how
are you?
Vladimir: Dobroyeutro.
Khorošo. E tu?
D: Senti
Vladimir, facciamola breve, il tempo è denaro e così tante altre cose.
V: Ti sento in
forma. Dimmi.
D: Allora: ti
faccio uscire dalla guerra e per questo ti propongo un… cambio merce.
V: Sentiamo,
purché l’Ucraina stia fuori dalla Nato e le terre conquistate sul campo
rientrino nel confine della Federazione russa.
D: Lo sapevo. Si
può fare. Oltre al fatto che non so quanto la Nato possa ancora andare avanti.
Per dire che forse è una preoccupazione eccessiva. Non abbiamo più a che fare
con l’Alleanza Atlantica della
guerra fredda, del dopo muro di Berlino e scioglimento del Patto di Varsavia.
V: Questo era
chiaro da decenni, è carino ci siate arrivati.
D: Non fare
troppo sarcasmo sennò usciamo dal seminato. Dunque, dicevo, più banalmente, la
Nato non è più quella che fino a ieri sembrava potesse spaccare il mondo come e
quando voleva.
V: Certo, le
cose stanno cambiando proprio mentre ne stiamo parlando. Dimmi, cosa avevi in
mente?
D: Ti tieni le
terre conquistate e magari anche le intere regioni russofone del Donbasse, Nato
forte o Nato debole, l’Ucraina non ne farà parte.
V: Immagino
voglia per te la ricostruzione del Paese.
D: Beh, va da
sé. Tu non vuoi certo farlo, Donbass a parte naturalmente, e poi non vorrai mica
che un affare di tale portata possa essere lasciato all’Unione Europea o
all’Europa – non so neanche più come chiamare quel garbuglio senza bandolo –
che non riesce a vedere la realtà, tanto che ancora vuole sostenere l’Ucraina
fino alla vittoria. Ma come ragionano? È questo il valore aggiunto delle donne
che la guidano?
V: Sarcasmo niet
avevamo detto.
D: Giusto. Né
sarcasmo, né distrazioni. Restiamo sul pezzo. Ricostruzione a parte, che ci
tocca senza possibilità di alternativa, dunque in questo nostro affare ha
valore neutro, i giacimenti delle terre rare sotto il suolo ucraino, Donbass
incluso, sono invece la cessione che, penso, tu sia costretto a fare.
V: Non potevi
non passare questa strettoia. Va bene, lo avevamo previsto. Si può fare ma non senza
contropartita.
D: Che sarebbe?
V: Non dirmi che
a tua volta non l’hai messa in conto.
D: Ti riferisci
alle sanzioni e ai beni bloccati?
V: Nientemeno.
D: Certo che era
in conto. Anzi, scontato, ovviamente per quelli che fanno capo a noi.
V: Bene. Quasi
quasi ti aiuto anche alle prossime elezioni.
D: Scherza poco
che c’è davvero qualcuno che poi ci crede o che inventa le prove.
V: Giusto,
viviamo in un cesto di vipere. Proseguiamo. Altro?
D: Eh sì.
Dunque, sono diversi punti.
V: Vai col
primo.
D: Israele.
V: Immaginavo.
Continua.
D: Azzeri ogni
interferenza diretta o indiretta a favore dei palestinesi, di Hamas e di
Hezbollah.
V: Cioè dovrei mettere
al guinzaglio l’Iran?
D: Nientemeno.
V: Non è come
dirlo.
D: Certo, ma
negli affari a questo punto si dice: sono problemi tuoi.
V: Conosco il
criterio. Prosegui.
D: Significa che
con Israele me la vedo io e basta. Dopo tutto questi decenni di conflitto e
instabilità, ritengo sia legittimo arrivare a sistemare la faccenda
medio-orientale. È vero, i palestinesi sono stati espropriati della terra che
abitavano e in quell’enclave, tirata fuori dal cilindro degli inglesi, si sono
trovati gente estranea in tutto e per tutto. Ma la storia ha ripetutamente
dimostrato che a tutto ciò, ingiustizia o diritti a parte, lì e altrove nel
mondo, non c’è soluzione equa. Dunque, fare capo alla pragmatica è praticamente
divenuto un imperativo e soprattutto, per quanto possa apparire raccapricciante
a molti europei, anche una modalità più saggia delle altre. Tutta una premessa
per dire che non resta che eliminare uno dei due contendenti… e sappiamo
quale ho in mente. Ecco perché c’entrano le atomiche dell’Iran e perché il tuo
impegno a smorzare certi entusiasmi anti-israeliani e ani-statunitensi è
fondamentale.
V: Come, in sostanza,
a suo tempo fece il binomio Clinton-Nato,
con la Jugoslavia e con il Kosovo?
D: Diciamo che
si possono evincere delle similitudini con la situazione israeliana.
Soprattutto, per parlar sintetico e chiaro, fa ancora testo il divide et
impera.
V: Beh, sei
piuttosto franco.
D: Le carte che
si giocano in un affare sono sempre sincere. E in questo caso non sto giocando
a poker, dove il bluff vale come la verità. E poi le fregature le prendono solo
gli affaristi sprovveduti.
V: Più è tutto
in chiaro più gli Stati Uniti possono avviare il nuovo corso e, magari, anche
il processo di riduzione del debito pubblico, ora himalayano.
D: Ok, ma
lasciamo perdere ora questi dettagli. Torniamo a noi, all’Ucraina.
V: Va bene. Però
avresti dovuto aggiungere che sotto quelle terre che vorresti sfruttare pare ci
siano giacimenti da leccarsi i baffi.
D: Più che avrei
dovuto, avrei potuto. Non è che devo dirti tutto.
V: Bene,
restiamo sull’affare.
D: Con la Siria
ti lascio carta bianca, noi ce ne laviamo le mani. Vedrai tu come sostenere gli
interessi della tua federazione.
V: Lo facevo
anche prima, quando avevate le mani in pasta.
D: Insomma, le
cose sono diverse ora. Giriamo pagina, se no restiamo qui a cincischiare e
farfugliare e la situazione non cambia.
V: È strano che non hai ancora citato
la Cina e la paventata dedollarizzazione.
D: Adesso ci
arriviamo. Andare avanti a guerre non ci è più possibile. Il vostro
multipolarismo è al momento troppo rigoglioso per pensare di affrontarlo in
modalità classica. Noi prendiamo dall’Ucraina e dal Donbass le materie prime
che ci interessano nella misura che concorderemo. E la Russia, non la secca più
nessuno. E anche con la Cina, fino a ieri spauracchio permanente, credo si
potrà convivere e fare affari.
V: Bel progetto.
E l’Europa?
D: Se intendi
l’Unione Europea, che posso dire? È praticamente senza testa. Durante tutta la
sua esistenza sono emerse carenze che oggi stanno culminando in un crescente,
forse inarrestabile, desiderio di sovranismo nazionale da parte dei suoi stati
membri. Qualcuno potrebbe dire che è sul letto di morte, anche se l’accanimento
terapeutico potrebbe tenerla in vita ancora lungamente. Più semplicemente,
l’Europa non ha identità, quindi non ha sostanza, quindi non ha peso. Diciamo
che non è una priorità occuparsi e preoccuparsi di cosa farà o dirà.
V: Non ti
preoccupa che possa rientrare nel nostro raggio d’azione, che l’Eurasia possa
diventare troppo potente?
D: Pensiero
legittimo ma lontano. Occupiamoci di quelli vicini.
V: Il dollaro è
uno di questi.
D: Altroché, ma
la creazione di una valuta alternativa è più lontana. E, aggiungo, certamente
critica. In sostanza penso non convenga a nessuno tentare di sostituire il
dollaro.
V: Al momento,
non si tratta di sostituirlo. La politica Brics, e perciò anche la nostra, è di
favorire gli scambi entro il mondo Brics con le relative valute locali e magari
anche di crearne una comune, ma anche di continuare a dialogare con il dollaro.
D: È un problema
di cui certamente tratteremo, ma che per la sua dimensione non può stare in
questi accordi sul fine guerra ucraina. Come pure la questione artica, di pari
portata. E poi, se non soprattutto, con tutto il rispetto caro Vladimir, avrai
ancora in te qualche goccia di sangue zarista, ma non puoi rappresentare l’intera
politica Brics.
V: Avevo visto
bene, sei in gran forma.
D: E non hai
ancora visto cosa voglio fare a Gaza.
V: Beh, ho visto
un breve
video su cosa stai immaginando per quel tratto di costa mediterranea, mi ha
colpito. Indignazione a parte, che mi sento costretto a lasciar fuori da questo
nostro affare, in un certo senso, quel modo affaristico di fare, che non guarda
in faccia a un intero popolo, che ha piantato in testa il chiodo dei propri
interessi überalles, sarà un segno del nuovo paradigma geopolitico, come lo è
il nostro multipolarismo rispettoso?
D: Puoi
scommetterci. Business is business, il resto sono chiacchiere. Facciamo questo
affare, per il prossimo si vedrà.
V: Vuoi dire che
in affari non ci sono chimere?
D: Dotta
sintesi, direi forse tipicamente russa, per quel poco che so. E aggiungerei che
ci sono solo nelle ideologie.
V: Simpatico e operativo!
Mi ricordi i tempi del Kgb, quando riuscivamo a costringere tutto l’infinito
del mondo dentro lo scopo che ci eravamo prefissati.
D: Tempi d’oro
per te. Anche allora c’era un popolo al quale non guardavate in faccia.
V: Allora non è
vero che gli americani sono delle capre.
D: Eh sì, per
fare affari è meglio conoscere il nemico.
V: Però non sai
che questo l’aveva già detto Sun Tzu.
D: Sun Chi?
V: Niente, non
fa niente.
D: Ok. Ci
vediamo a Riyad per i dettagli.
V: Khorošo.
Note
1. L’acronimo
BRIC, risale al 2001. Esso deriva dalle iniziali dei paesi fondatori: Brasile, Russia,
India, Cina. Nel 2010 si aggiunge il Sud Africa e l’acronimo muta in BRICS. Nel
2024 si uniscono all’Associazione altri Paesi. L’Indonesia, nel fa parte dal
2025.
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Fonte foto: ISPI (da Google)