Non c’è bisogno di competenze economiche o storico-sociologiche avanzate per capire dove va a finire la barca dell’euro. Sono sufficienti alcune nozioni elementari di ingegneria navale. Una nave è stabile quando il baricentro, cioè il punto di gravità che tende a sospingerla verso il basso, è allineato più in basso rispetto al metacentro, cioè il centro di tutte le spinte verso l’alto generate dalla forza archimedea. Il motivo è intuitivo: se la nave sbanda per effetto di un’onda laterale che la colpisce, si può raddrizzare, e ritrovare l’assetto iniziale, soltanto se la spinta verso l’alto compensa quella verso il basso, ristabilendo un equilibrio. Altrimenti, subito il primo impulso squilibrante, tenderà a inclinarsi continuamente, fino a ribaltarsi, oppure a rimanere ingavonata.
Questo semplice principio, che a me insegnarono in Accademia Navale, è vero anche per i sistemi economici, sociali, monetari, politici. Il sistema deve essere dotato di un equilibrio strutturale, cioè di un assetto che compensa le varie forze che tendono a spingerlo da una parte o dall’altra, per riassestarsi nel momento in cui è colpito da un’onda. Altrimenti si rovescia. Tutta l’infinita letteratura sulle aree monetarie ottimali non fa altro che cercare di definire gli assetti strutturali interni che consentono ad un’area monetaria di ritrovare l’equilibrio a fronte di attacchi speculativi, crisi economiche o perturbazioni politico/sociali. Cioè gli assetti fra i vari “punti di spinta” interni. Evidentemente, quale che sia la teoria che si utilizza, l’area euro non rispetta nessun equilibrio fra i punti di spinta: non ha meccanismi simmetrici, cioè validi per tutti, di riduzione degli squilibri macroeconomici e di partite correnti (come l’enorme surplus commerciale tedesco, che è politicamente impossibile ridurre), non ha una politica sociale, non ha meccanismi di redistribuzione dei differenziali di domanda interni (la stessa politica di coesione ha altre finalità, di riduzione dei differenziali di competitività regionali dal lato dei fattori di offerta), non ha una perfetta mobilità del fattore-lavoro, non ha strumenti anticiclici per affrontare crisi asimmetriche, ecc.
Perché? Perché l’Europa non ha una guida politica. Così come baricentro e metacentro di una nave non possono essere messi ovunque, ma la loro posizione dipende da come si progetta il sistema, gli assetti di equilibrio non possono nascere da soli o essere messi lì per caso, ma richiedono una capacità politica di disegnare un sistema stabile. Questa capacità politica non c’è, perché non può nascere dal basso, cioè dai popoli. Perché? Perché essi non hanno nessun incentivo ad associarsi in una forma di entità statuale comune. Infatti, nonostante una preparazione di europeismo lunga più di cinquant’anni, ed in condizioni sociali ed economiche molto migliori di quelle attuali, la proposta di Costituzione europea è stata bocciata dai popoli, e sostituita con il trattato di Lisbona, che non disegna certo un’entità statuale, ma semplicemente regole tecnico-burocratiche di gestione di determinati settori rimessi NON ad istituzioni comuni (perché l’unica istituzione europea degna di questo nome, e quindi elettiva, il Parlamento, ha poteri ridotti) ma a strutture tecniche deputate a regolare i conflitti e le negoziazioni che rimangono al livello degli Stati membri. Processi dal basso di Stati multinazionali, come nel caso del processo storico di formazione della Svizzera, possono nascere solo da un incentivo comune: per esempio da una rivolta dal basso contro un potere percepito come esterno, che però per formare una compagine statuale durevole deve cementare un sentimento nazionale comune che, ovviamente, è totalmente assente nei popoli europei. Ciò infatti dipende da lunghe traversie storiche vissute insieme, che cementano l’idea di un destino comune, ma soprattutto dalla crescita del sentimento di un benessere comune raggiungibile soltanto stando insieme, che convince a mettere in secondo piano le differenze. Niente di più lontano da ciò che il comune cittadino di qualsiasi Paese europeo percepisce oggi, fra cittadini nordici diffidenti rispetto agli “spreconi” mediterranei, e cittadini mediterranei che provano rancore per le imposizioni di austerità imposte dai nordici, e pagate in termini di impoverimento e destrutturazione dei propri modelli sociali. Nel caso di una ipotetica Europa unitaria, peraltro, manca l’esigenza di mettersi insieme per contrastare un nemico esterno comune. Numerosi sono stati i tentativi fatti dalle élite europeiste per creare questo nemico comune, di volta in volta identificato nel Truce Saladino Arabo contro il quale scagliare una crociata nel nome di una inesistente “civiltà europea”, concetto che la semplice frattura fra cattolicesimo, protestantesimo ed ortodossia, con le loro enormi differenze di visione del ruolo dell’uomo nel mondo, rende ridicolo, e nell’Orso Russo Imperialista, quando è invece di tutta evidenza che imperialista è stato il tentativo occidentale di accerchiare l’Orso e di conquistarne il sistema economico, ai tempi di Eltsin. E la stessa crisi economica agitata come motivo di maggiore unità e competitività non attecchisce affatto nella coscienza dell’europeo della strada. Non vi è alcuna risposta unificante nei popoli europei stessi. Come dimostra la crescita, uniforme su tutto il territorio della Ue, ed anche nei Paesi leader a maggior benessere, di movimenti e partiti localisti, nazionalisti o euroscettici.
Gli Stati sovranazionali, quindi, al netto del “caso svizzero” (come visto, lontano dalla situazione europea attuale), si costruiscono dall’alto, o da conquiste militari, o da alleanze fra i gruppi dirigenti, o da fattori casuali comunque precipitati dall’alto (ad esempio, gli Stati multietnici africani sorti da una suddivisione delle frontiere delle regioni decolonizzate, fatta a tavolino dai colonizzatori, non rispettosa dei confini etnici e tribali). La stessa traiettoria unitaria italiana (che, almeno all’inizio, può essere considerata una unificazione di popoli diversi, con lingue e costumi diversi) oltre che derivare da un processo dall’alto di invasione militare dei Savoia, inizia a decollare nelle coscienze soltanto nel momento in cui il fascismo, con metodi autoritari e quindi operando dall’alto, crea questo sentimento nazionale in modo forzoso e per molti versi illusorio, costruendo una retorica della comune radice romana degli italiani, indirizzando questo sentimento verso illusori lidi imperial/coloniali, militarizzando il Paese (e quindi creando uno spirito nazionale in fil di baionetta), spostando in modo più o meno forzoso popolazioni da una parte all’altra del Paese (ad esempio, spostando popolazione meridionale verso le nascenti fabbriche autarchiche del Nord, oppure spostando contadini veneti verso le bonificate paludi pontine del Centro Sud). Echeggia il motto del primo imperatore cinese, che soggiogò con la forza tutti gli Stati pre-imperiali, Qin Shi: “Io ho apportato l’ordine alla folla degli esseri e sottomesso le realtà”.
La costruzione di uno Stato europeo unitario non può quindi che procedere dall’alto, per imposizioni e contro la volontà della maggioranza dei popoli stessi. Cioè in forma non democratica. Assumendo, infatti, le forme tecnocratiche e dirigiste tipiche di una gestione delle politiche monetarie, di bilancio e fiscali, lontana da qualsiasi consenso popolare. Si può controbattere quanto si vuole sul fatto che il Presidente della Commissione è eletto indirettamente tramite le elezioni europee, quando però i meccanismi di attribuzione dell’iniziativa legislativa alla Commissione fanno sì che il famigerato “fiscal compact”, che tanto impatto ha avuto sulle vite di milioni di cittadini europei, non è mai passato al vaglio del Parlamento Europeo, né è stato proposto come direttiva dalla Commissione, che in quanto tale avrebbe dovuto essere approvata dal Parlamento europeo. Un Trattato approvato nonostante una mozione contraria adottata a larga maggioranza dentro il Parlamento Europeo. Concetto davvero bizzarro della democrazia…
Quindi, il sistema è squilibrato nei suoi punti di spinta perché manca “l’architetto” che li dovrebbe sistemare in modo ideale. E si cerca di compensare l’assenza dell’architetto imponendolo dall’alto, evidentemente con metodi non democratici che lo delegittimano “ab origine”. E comunque, stante la lentezza pachidermica con la quale si cerca di costruire dall’alto l’architetto politico, confrontata con l’estrema rapidità dei processi di destrutturazione sociale ed impoverimento dettati dalla crisi economica, esso arriverà, se arriverà, quando la nave sarà oramai definitivamente ingavonata.
E’ quindi evidente che ci troviamo davanti alla fine imminente di questo bizzarro esperimento, che cerca di ovviare a millenni di storia di divisioni con un tentativo di unificazione basato sulla pretesa del più forte, le leggi di un’economia e di una finanza priva di radicamento territoriale, e l’impoverimento collettivo come metodo di persuasione verso una maggiore unità (quando invece il senso comune ci dice che la povertà crea guerre e divisioni). Le crepe non vengono viste solo da chi si ostina a non vederle. E’ di tutta evidenza che alla Gran Bretagna conviene uscire dall’Unione Europea. Non è affatto vero che esista un interesse britannico a restare nella Ue. E’ un contribuente netto al bilancio comunitario, versa cioè più quattrini di quanti riceve. E la sua economia, largamente finanziarizzata, ha tutti i vantaggi a stare lontana dalla Ue, al fine di operare come piazza finanziaria offshore, evitando le regolamentazioni comunitarie ed offrendo un porto sicuro ed anonimo a capitali, anche illegali, provenienti dal Continente, e di integrarsi maggiormente con l’altra piazza finanziaria globale, ovvero Wall Street. E’ del tutto superficiale dipingere lo spirito autonomistico britannico come mero orgoglio di isolani testardi e presuntuosi. La verità storica è che la Gran Bretagna ha sempre guardato ad ovest, oltre l’Atlantico, e non a sud o a est, verso la terraferma, per determinare le sue scelte economiche e sociali. E nonostante il declino del suo impero legato a due guerre mondiali vinte solo in apparenza, ne è uscita sempre molto meglio degli europei continentali. Ed ancora oggi, con la sua sterlina e la sua indipendenza nazionale, offre rispetto alla crisi risultati economici che gli altri Paesi dell’area-euro si sognano.
A breve, presumibilmente, i cittadini britannici voteranno contro l’appartenenza all’Unione Europea. Colpendola in modo ferale, più che per i contributi al suo bilancio, per una delegittimazione storica, che creerà un precedente storico: per la prima volta, chi è stato dentro la Ue deciderà di uscirne. L’effetto ci sarà, e sarà notevole, su quella cintura di Paesi mediterranei (al netto della sola Italia, strutturalmente incapace di precorrere gli eventi storici) umiliati dall’austerità loro imposta dai nordici.
La Grecia sarà la prima della lista. Per il momento, sia Tsipras che la Trojka stanno, per ragioni diverse, convergendo sul tentativo di prendere tempo e di temporeggiare in negoziati infiniti. Tsipras perché spera che succeda qualcosa di miracoloso, ad esempio che i partner si ammorbidiscano logorati dal lungo negoziato, oppure che ci sia una sinistra che venga in suo aiuto dopo le elezioni spagnole, portoghesi e francesi, fra 2015 e 2016, o che si concretizzi qualcosa con la Russia, che finora ha fatto aperture interessanti in prospettiva, ma non ha ancora fornito un aiuto finanziario immediato, né può farlo per motivi politici ed economici. La controparte perché spera di scaricare sui futuri governanti la cambiale politica di un inevitabile haircut del debito pubblico greco che, essendo per il 70% in mano a creditori istituzionali, avrebbe effetti elettoralmente devastanti rispetto alle opinioni pubbiiche dei creditori stessi, alimentate, come nel caso tedesco, dall’illusione merkelliana di scaricare il peso della risi sui mediterranei, salvandone i risparmi e i redditi reali.
Ma quando anche gli ultimi rimedi della disperazione (come quello recentemente adottato dal Governo greco per pagare le rate in scadenza del prestito Fmi, istituendo una tesoreria unica immediatamente obbligatoria per tutti gli enti pubblici) saranno esauriti, a fronte dell’impossibilità di tornare a finanziarsi sui mercati per entità sufficienti e tassi ragionevoli, di tornare a tassi di crescita decenti per generare ricchezza atta a pagare il debito (la fragilissima economia greca si è già fermata a fine 2014, e le previsioni per il 2015 parlano di un magrissimo 0,5% di crescita, praticamente una stagnazione in una condizione di miseria) e di beneficiare dei programmi di acquisto di bonds della Bce, arriverà prima o poi l’eroico momento in cui non si potrà più temporeggiare. O Tsipras accetterà un nuovo programma di rientro, magari con qualche piccola concessione sociale, certo non sufficiente a risollevare il suo popolo dal baratro in cui è precipitato, ed il Paese, ed il suo Governo, esploderanno in modo incontenibile, oppure dovrà uscire dall’euro. A meno, ovviamente, che non si verifichi uno degli improbabili miracoli descritti sopra. Ma sui miracoli, per definizione, non si può costruire una ipotesi razionale. Se ne beneficia se arrivano. Se. Né è credibile che la Trojka accetti di salvare a gratis la Grecia, tenendola in una sorta di coma farmacologico perenne, erogando aiuti senza contropartite sostanziose in termini di riforme strutturali. Gli altri Paesi sottoposti ad austerità ne approfitterebbero subito per chiedere analoghi benefici.
In entrambi i casi (esplosione del Paese o uscita dall’euro) gli effetti saranno sotto gli occhi di tutti gli europei, ed avranno ripercussioni enormi. Finita la Grecia (o per esplosione finale o per fuoriuscita) i prossimi ad essere messi sotto la lente della speculazione finanziaria, che ovviamente scommetterà sull’uscita, saremo proprio noi italiani, la seconda economia più indebitata dell’area euro. Chi sarà mai disposto a scommettere un centesimo sulla rimborsabilità dei titoli pubblici italiani, dopo aver visto la fine fatta dai greci? E’ vero che l’economia italiana è molto più robusta ed export oriented di quella greca. Ma è altrettanto vero che, con un sistema bancario vicino al caos da sofferenze, con una crisi di fiducia sull’euro che farebbe schizzare nuovamente in alto lo spread, devastando definitivamente le finanze pubbliche e strangolando ogni prospettiva di ripresa degli investimenti, e con la consapevolezza di fondo che il debito pubblico italiano è, in valore assoluto, troppo grande da poter essere salvato da programmi di aiuto simili a quello greco, in coincidenza con l’esaurimento del QE della Bce (che non può durare in eterno, a meno di credere che gli USA siano disposti ad accettare una svalutazione perenne dell’euro sul dollaro, ipotesi poco credibile) si creerà il terreno fertile per un attacco speculativo contro il debito sovrano italiano in grande stile. Ed allora sarà la fine. La nave affonderà del tutto.
Conviene accettare l’ineluttabile. E iniziare a prepararsi. Perché la deflagrazione sarà una tragedia. Non sarà la passeggiata di salute che i grillini vogliono far credere. Sarà una devastazione, soprattutto per le economie più fragili come la nostra, e probabilmente anche l’innesco di nuove guerre, commerciali e forse non soltanto commerciali. Però se il metacentro ed il baricentro non convergono perché? non c’è il progettista, è inutile farsi illusioni. Il domani viene comunque, e fa male. La nostra classe dirigente, incapace di dare una regola di medio e lungo periodo al Paese, si è illusa, negli anni Novanta, di poterla importare dall’esterno, tramite l’adesione acritica a Maastricht (mentre i britannici, usciti come noi dallo Sme per via della crisi speculativa del 1992-93, si guardarono bene dal fare la stessa scelta, e si dedicarono a innovare radicalmente il loro modello produttivo). Evidentemente adesso costoro si aggrappano all’illusione dell’irreversibilità dell’euro perché quando la bolla scoppierà, saranno i primi ad essere travolti. Ma il principio di realtà prima o poi arriva.