Auschwitz e il velo di Maya sulla storia


Ogni anno si commemora Auschwitz, si ripetono manifestazioni di pubblico scandalo per l’accaduto, si ripete il fatidico “mai più”. Nelle commemorazioni, a genocidio unico, si coglie l’occasione per decretare e ribadire che l’imperfetto mondo in cui siamo è pur sempre “il migliore dei mondi possibili”.

Se ci si pone in modo critico e divergente l’operazione Auschwitz è una commemorazione ideologica, si coglie l’occasione per inneggiare al presente, si acclama la vittoria sul nazifascismo per rafforzare il presente. La tragedia del genocidio è messa in secondo piano, poiché l’intento è consolidare il liberismo e la sua vittoria. La falsa coscienza va in scena, si occultano gli innumerevoli genocidi di matrice liberista e i numerosi genocidi del passato appena trascorso e del presente. Si insegna alle nuove generazioni una visione del mondo a spettro limitato. Si dichiara guerra al nemico che non c’è, il nazifascismo, ci si catalizza contro un nemico immaginario, perché possa vivere in eterno il capitalismo assoluto, e il velo di Maya scende sulla storia che diviene intrasmutabile.

L’occidente liberista e globalista può festeggiare i suoi fasti ed allevare le nuove generazioni nella menzogna e nel mito della democrazia conclusa e completa, per cui non resta che stare allerta contro i fascismi che minacciano il presente. Dinanzi a tale commedia umana, ciclicamente in onda, non resta che prendere atto dello stato attuale per trascenderlo. É necessario riportare la lucidità storica della prassi dove vige la temporalità ideologica della ripetizione del sempre eguale.

Cultura dell’azienda ed olocausto

Per ridare dignità ai vivi ed ai morti bisogna riportare la verità dove regna in modo strumentale la menzogna ideologica. La commemorazione dei genocidi dovrebbe indurre a porci il problema, se vi sono le condizioni strutturali e sovrastrutturali perché simili immani tragedie possano ripetersi.

Bauman in Modernità ed Olocausto ha denunciato la possibilità che simili “eventi” possano ancora accadere, poiché l’attuale capitalismo utilizza lo stesso modello di razionalità  utilitaristica del nazifascismo. La razionalità che il capitalismo assoluto ed il nazifascismo condividono è costituita dal calcolo anaffettivo, dalla logica del plusvalore e dell’utile senza limiti. In circostanze storiche opportune tale modello di razionalità può estremizzare la sua finalità: calcolare, strumentalizzare fino a consumare ed uccidere biologicamente e spiritualmente ogni ente vivente, compresi gli esseri umani. L’olocausto non fu che un’immensa organizzazione razionale a fini produttivi,  i campi di sterminio erano “aziende efficientissime”, gli internati erano parte di un sistema di produzione e distruzione, alla fine essi stessi erano utilizzati come materia  per produrre utensili utili: nulla era sprecato, ciò che non serviva era bruciato: la cultura industriale capitalistica è la verità profonda dello sterminio.  Se si riflettesse sulla cultura dell’azienda, sul suo antiumanesimo, forse, la giornata della memoria potrebbe avere un senso profondo in un’epoca di sola superficie.

Diviene così fondamentale porsi in modo critico ed interrogante verso il presente, mentre l’esaltazione falsamente sentimentale del nostro tempo consente il perpetuarsi della stessa cultura della morte, del nichilismo e  della cultura del dominio che hanno causato gli stermini nel secolo trascorso e che silenziosamente accadono nella contemporaneità.

Gramsci  ed un nuovo modello culturale

Gramsci (Ales, Cagliari, 1891 – Roma 1937) nei suoi scritti ha trattato il problema del modello culturale con cui educare le nuove generazioni, affinché  la cultura della violenza possa essere trascesa. Gramsci si chiede cosa sia la cultura, la quale non può essere semplicemente limitata a pochi contenuti superficiali, ai saperi minimi e spendibili, come avviene nel nostro presente scolastico, ma la cultura è capacità di avere un approccio olistico e divergente, per cui necessita di organizzazione, disciplina del sapere, conoscenza di sé. La cultura è un viaggio nella propria interiorità in cui l’io incontra il noi e dunque fonda la prassi storica. Una simile cultura critica è il vero argine alla violenza dell’economicismo ed alle sue pericolose derive. Bisogna dunque riportare il problema degli olocausti ad una riflessione collettiva che faccia emergere il modello di razionalità ad esso sotteso attraverso il quale capire il  presente per dirigersi verso una prassi emancipativa collettiva.

L’economicismo organizza il sociale secondo una linea che divide sfruttati e sfruttatori, bisogna criticamente erodere tale linea d’ombra per inaugurare un nuovo modo di vivere, in cui gli esseri umani possano umanizzarsi nella storia, e non disumanizzarsi:

Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui  l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da riempire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. Serve a creare quel certo intellettualismo bolso e incolore, cosí bene fustigato a sangue da Romain Rolland, che ha partorito tutta una caterva di presuntuosi e di vaneggiatori, piú deleteri per la vita sociale di quanto siano i microbi della tubercolosi o della sifilide per la bellezza e la sanità fisica dei corpi. Lo studentucolo che sa un po’ di latino e di storia, l’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio specializzato che adempie nella vita ad un compito ben preciso e indispensabile e che nella sua attività vale cento volte di piú di quanto gli altri valgano nella loro. Ma questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce.  La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. Ma tutto ciò non può avvenire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella natura vegetale e animale in cui ogni singolo si seleziona e specifica i propri organi inconsciamente, per legge fatale delle cose. L’uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che solo a grado a grado, a strato a strato, l’umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatesi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni[1]”.

L’io concreto contro la violenza dell’io astratto

La cultura critica che Gramsci delinea è cultura dell’incontro tra le identità culturali, in cui l’io non è astratto, ma parte di una storia collettiva e popolare da cui trae forza spirituale. L’universale emerge nella dialettica tra l’appartenenza alla comunità patria e l’incontro dialogante e socratico con le altre culture. Solo la faticosa realizzazione di un nuovo modello di relazioni e di razionalità può limitare i rischi del ripetersi di nuovi genocidi, ma tale impegno deve essere parte integrante e strutturale delle istituzioni.

Negare l’altro è come uccidere se stessi, se la cultura della competizione impera fra individui e Stati, inevitabilmente l’altro è percepito come nemico da abbattere, mentre nell’incontro l’umanità è vissuta come una grande famiglia a cominciare dalle persone con cui si condivide il quotidiano.

Naturalmente tali trasformazioni culturali e sovrastrutturali possono avvenire cambiando la realtà economica e sociale del nostro presente, altrimenti i proclami annuali sono solo scene della interminabile commedia umana:

Critica vuol dire appunto quella  coscienza dell’io che Novalis dava come fine alla cultura. Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol  dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma  del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò  che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra. Vuol  dire avere nozioni di cosa è la natura e le sue leggi per conoscere le leggi che governano lo spirito. E tutto imparare senza perdere di vista lo scopo ultimo che è di meglio conoscere se stessi attraverso gli altri e gli altri attraverso se stessi. Se è vero che la storia universale è una catena degli sforzi che l’uomo ha fatto per liberarsi e dai privilegi e dai pregiudizi e dalle idolatrie, non si capisce perché il proletariato, che un altro anello vuol aggiungere a quella catena, non debba sapere come e perché e da chi sia stato preceduto, e quale giovamento possa trarre da questo sapere[2]”.

Congedarsi dalla cultura della violenza

Per congedarsi dalla cultura della violenza ed iniziare una nuova storia a misura dell’essere umano bisogna andare a scuola di libertà. Essa è prassi libertaria, in cui si rinuncia alla manipolazione dell’alunno con la quale si preordina lo sviluppo del singolo e si normalizzano i rapporti di dominio e di violenza. La scuola deve portare in atto ciò che ciascun alunno ha in potenza, in tal modo  potrà sviluppare il proprio io interiore, in cui la natura soggettiva dell’alunno si coniuga con l’universale. La manipolazione, come l’idiozia della specializzazione, formano alla violenza della razionalità del calcolo, dell’utile e dello sfruttamento.

La scuola umanistica, secondo la definizione di Gramsci, è oggi più necessaria che mai dinanzi al potere tecnocratico sempre più invasivo e pericoloso:

Al proletariato è necessaria una scuola disinteressata. Una scuola in cui sia data al fanciullo la possibilità di formarsi, di diventare uomo, di acquistare quei criteri generali che servono allo svolgimento del carattere. Una scuola umanistica, insomma, come la intendevano gli antichi e i piú recenti uomini del Rinascimento. Una scuola che non ipotechi l’avvenire del fanciullo e costringa la sua volontà, la sua intelligenza, la sua coscienza in formazione a muoversi entro un binario a stazione prefissata. Una scuola di libertà e di libera iniziativa e non una scuola di schiavitù e di meccanicità. Anche i figli dei proletari devono avere dinanzi a sé tutte le possibilità, tutti i campi liberi per poter realizzare la propria individualità nel modo migliore, e perciò nel modo piú produttivo per loro e per la collettività. La scuola professionale non deve diventare una incubatrice di piccoli mostri aridamente istruiti per un mestiere, senza idee generali, senza cultura generale, senza anima, ma solo dall’occhio infallibile e dalla mano ferma. Anche attraverso la cultura professionale può farsi scaturire, dal fanciullo, l’uomo. Purché essa sia cultura educativa e non solo informativa, o non solo pratica manuale. Il consigliere Sincero, che è un industriale, è troppo gretto borghese quando protesta contro la filosofia[3]”.

Il giorno della memoria, dunque, non va banalizzato e strumentalizzato, utilizzando le vittime di un’immensa tragedia come occasione per inibire processi di trasformazione collettiva. Le liturgie commemorative sono solo momenti di aggregazione nichilistica, poiché trascorso il giorno della commemorazione ritorna il tempo della banalità del male, che in realtà non era stato sospeso ma solo occultato. Per ridare densità concettuale ed assiologica alla memoria è necessario ripartire dall’oggi e chiedersi, se siamo ancora nel ventre del male che si crede scongiurato e, specialmente, se tra il trascorso totalitarismo e il nostro presente vi è una continuità. Il male è già nella rimozione delle domande sempre più neutralizzate dall’aziendalizzazione della società nella sua complessità.


[1] Antonio Gramsci Scritti politici liberliber volume I pp. 15 16

[2] Ibidem pag. 16

[3] Ibidem pag. 24

Fonte foto: Il Sussidiario.net (da Google)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dichiaro di essere al corrente che i commenti agli articoli della testata devono rispettare il principio di continenza verbale, ovvero l'assenza di espressioni offensive o lesive dell'altrui dignità, e di assumermi la piena responsabilità di ciò che scrivo.