A quanto si legge ieri è stata chiusa una bozza di accordo tra la Spd, la Cdu e la Bsw (la formazione di Sahra Wagenknecht) in Turingia, per guidare insieme il Land. Chiaramente è solo una bozza e dovrà essere approvata dagli iscritti della Sdp (tutt’altro che scontata) e dalle segreterie di Cdu e Bsw.
Sul nodo principale del nostro tempo, l’arresto dell’offensiva imperialista occidentale contro l’insorgente mondo multipolare, ci si è limitati ad un “preambolo per la pace” che promosso da un Land appare come mera questione cosmetica per totale assenza di competenze. Un simbolo (se pure, talvolta, i simboli contano, ma quando sono sostenuti dalla forza). Sulle questioni materiali si vedrà.
E’ davvero difficile prendere posizione in corso d’opera su vicende così complesse, e per le quali la distanza priva di informazioni dettagliate e chiavi di lettura necessarie. Tuttavia, qualcosa rischierei a dirlo.
Ci sono due primi livelli, ai quali si può dire qualcosa, ed uno molto più profondo al quale bisognerebbe dire molto.
Partiamo dai primi. Nei Quaderni (6°, 1930-32, 97) c’è un piccolo e prezioso frammento nel quale Gramsci si chiede in modo fulmineo se “può esistere politica, cioè storia in atto, senza ambizione?”.
Questa è la radice delle cose.
Due sono i termini chiave: “ambizione” e “storia in atto”. Per il primo bisogna distinguere (ancora Gramsci) tra “grande ambizione” e “piccola ambizione”. Ovvero, se si lavora per suscitare le condizioni perché venga ad operarsi un cambiamento sostanziale della situazione, ovvero perché ci si elevi al livello della politica, della “storia in atto”.
In altre parole, se il partito è mosso da una “grande ambizione”, e quindi dalla volontà di far affermare degli interessi, ne consegue, e necessariamente, che questi interessi devono generarne la struttura. Ma per questo serve tempo e radicamento, serve che intorno al movimento che intende elevarsi a “storia in atto”, ovvero essere “politico” (che straordinario, sintetico, concetto nella bella lingua adoperata da Gramsci), si addensi un legame sociale. Il quale legame, con il tempo, “leghi” (appunto) tutte le parti della formazione organizzativa del partito all’ambizione grande. Il prezzo di non farlo è di essere “molecolarmente” assorbiti e fallire (anche qui, termine usato dal nostro per spiegare il fallimento del Partito di azione risorgimentale). Ma tanti altri episodi potrebbero essere citati, il movimento populista ottocentesco americano, i cartisti inglesi, gli stessi socialisti tardo ottocenteschi ovunque, etc.
Altrimenti, ci sono le “piccole ambizioni”. Queste in genere sono mosse dalla fretta, o dalla paura di correre grandi pericoli. Con le sue parole “si tratta di piccole ambizioni, poiché hanno fretta e non vogliono aver da superare soverchie difficoltà o troppo grandi difficoltà”.
Dunque, pur con la premessa, doverosa, che la scelta del partito della Wagenknecht deve essere giudicato nella situazione data, che non conosciamo abbastanza, il rischio è che sia letto dagli stessi elettori in questa chiave: come la dimostrazione che, alla fine, si trattava di “piccole ambizioni”. E che, quindi, in fondo si trattava solo di prendere un angolino di potere.
Nelle condizioni della crisi della democrazia date, questa percezione potrebbe distruggere immediatamente buona parte del patrimonio simbolico che la formazione sembrava avere accumulato.
Di qui nascono due ordini di considerazioni:
– la prima, tattica, è che in imminenza di elezioni nazionali decisive dare questa sensazione potrebbe essere il preludio di un immediato fallimento (che succede se a livello nazionale prende meno del 3%?).
– La seconda, strategica, è che se si vogliono spostare i rapporti di forza nel paese serve una grande forza elettorale, perché il potere che circola nella società e la costituisce non è solo, né principalmente in effetti, politico-elettorale. La vicenda del M5S mostra molto bene questo fatto: pur avendo avuto l’intelligenza tattica di dire immediatamente dopo il risultato del 2013 che non si sarebbe alleato se non con il 51% e che era antisistema, avuto il risultato del 2018 (che lo rendeva indispensabile) ed andato al governo con la Lega (una forza di destra, sì, ma percepita stranamente come antisistema) è stato riassorbito quasi istantaneamente dalle forze extraparlamentari (rappresentate dal Presidente della Repubblica, ma anche da ben identificabili ambiti di potere economico-finanziario, oltre che dalla UE), le quali, tutte, hanno subito (tra luglio e settembre 2018) fatto presente che si potevano fare solo cambiamenti al margine. Il resto lo sappiamo.
Dunque, la domanda da porsi, più profondamente, è: che cosa è, in effetti, la democrazia liberale nella quale siamo? Cosa è sempre stata e cosa può essere? La democrazia non è affatto quel che dice di essere. E’ molto più una tecnica per filtrare ed assorbire le spinte che si generano intorno alle tensioni sociali derivanti dalle ineguali distribuzioni di risorse e potere, che non un modo per rappresentare l’inafferrabile “popolo”. Non è affatto, non è mai stato, e non può essere, la forma di rappresentazione del “potere al popolo”. Non voglio annoiare nessuno, ma su questo c’è pacifica e molteplice letteratura scientifica e storica.
Chi vuole, dunque, che qualcosa cambi nella sostanza. Ovvero chi vuole che i rapporto sociali e di forza cambino, come si deve rapportare a questo dispositivo di disciplinamento? E come partecipare al suo gran spettacolo?Non sto sostenendo una teoria della separazione (quella tentazione ricorrente di rifugiarsi nella torre, o nella ecclesia nel deserto). Sto proponendo di prendere sul serio che solo se una forza esiste, con una sua cultura, dei suoi obiettivi, riti, miti e costumi, può tradursi entro istituzioni fatte per governare il diverso e farlo eguale e non perdersi nel labirinto. Ma per questo serve lunga lena, serve coraggio, pazienza, la tenacia e la forza; serve essere.
Troppo presto Sahra.
Fonte foto: da Google