La prima domanda alla quale rispondere ogni qual volta si
parla di guerra e di imperialismo dovrebbe essere di natura pratica ossia la
valutazione delle iniziative messe in campo per contrastare i processi di
militarizzazione delle scuole, dell’università, dei territori, quali iniziative
reali abbiamo messo in campo per denunciare la natura imperialista della guerra
e le sue ripercussioni sulle condizioni di vita delle classi lavoratrici.
Nella nostra storia abbiamo sempre giudicato la guerra
imperialista come una sconfitta per la classe operaia trasformata in carne da
macello per rispondere agli interessi finanziari ed economici propri del
capitalismo.
La differenza rispetto al passato è che oggi la guerra è
arrivata direttamente nel vecchio continente, anzi era già arrivata nel 1999
con l’attacco alla ex Jugoslavia sostenuto dalla Nato anche con la complicità
di parte dei comunisti che allora erano presenti nei governi di centro
sinistra, in Italia e in altri paesi europei. E non ci sembra che negli ultimi
30 anni sia avvenuta una seria autocritica di quel nefasto operato adoperandosi
direttamente, in casa nostra, per contrastare la guerra e l’imperialismo.
Rispetto al 1999, o alle mobilitazioni di inizio secolo, la
risposta dei movimenti contro la guerra è stata decisamente più debole, le
principali organizzazioni sindacali e sociali si sono limitate a qualche
passeggiata senza mai mettere in campo iniziative concrete, scioperi, proteste
contro l’invio di armi, una costante opera di informazione sulle cause e sugli
esiti del conflitto esterno anche sulla nostra società.
Prova ne sia la sottovalutazione dei processi di
militarizzazione della scuola e dell’università avviati quasi 20 anni or sono e
che oggi vedono militari presenti nelle scuole di ogni ordine e grado in varie
vesti, educatori, insegnanti di ginnastica, alfieri del patriottismo e
sostenitori di un revisionismo storico che esalta anche battaglie combattute
dall’esercito italiano a fianco del nazi fascismo.
La retorica e l’ideologia della patria dovrebbe essere
avversata con tutte le nostre forze ad esempio costruendo iniziative attorno al
4 Novembre o in occasione di festività come quella che ricorda le Foibe o per
confutare, quando si parla di olocausto, la equiparazione dell’antisionismo con
l’antisemitismo. Ma nulla, o ben poco, è stato fatto in questi anni.
Oggi constatiamo non solo la debolezza dei movimenti contro
la guerra ma anche la tendenza tipicamente occidentale di impartire lezioni
alle Resistenze dei popoli, l’adesione alla piazza del 12 Ottobre è stato un
grave errore politico schierandosi nei fatti dalla parte di quella ANP che ha
assunto posizioni e pratiche compiacenti tanto con la Nato quanto con Israele e
finendo con il rafforzare l’egemonia di Hamas.
Ma allo stesso tempo dovremmo anche chiederci la ragione per
la quale su un tema rilevante come quello della Nato sia diffuso un silenzio
assai preoccupante limitando la critica a qualche considerazione ideologica
senza avere mai percepito l’importanza di costruire delle contronarrazioni,
delle iniziative in occasione dell’anniversario della nascita di quella
alleanza di guerra denominata Alleanza atlantica.
E ancora più sconcertante è stato il silenzio attorno ai
piani di riarmo europei, ai libri bianchi sulla intelligenza artificiale che,
impiegata in Palestina dall’esercito di Israele, è tra le cause dei cosiddetti
effetti collaterali che hanno portato alla uccisione di oltre 50 mila civili.
La domanda, ancora oggi senza risposta, riguarda l’analisi
dei processi di guerra, tra cui anche la economia di guerra che porta alla
criminalizzazione e alla ferocia repressiva contro i nemici interni come
dimostra il ddl 1660, e lo spostamento
di ingenti risorse dal sociale alla produzione di tecnologie duali trasformando
la stessa ricerca in campo universitario nel banco di prova scientifico per la
realizzazione di efferati e innovati sistemi di arma.
La retorica che accompagna il tema della pace è ormai
insopportabile, non si analizzano le cause oggettive della guerra e dei
processi di militarizzazione dei territori, non si coglie la natura del nuovo
neoKeynesismo di guerra con cui il capitalismo occidentale cerca di superare la
crisi di sovrapproduzione oltre a depredare i popoli di metalli rari e risorse
energetiche delle quali il capitalismo occidentale ha forte bisogno. E perfino
l’analisi del mondo multipolare si limita a narrazioni giornalistiche, magari
pregevoli, senza mai porsi il quesito di come costruire una risposta nel corpo
sociale.
Una iniziativa contro la guerra, contro i processi di
involuzione democratica che ne deriveranno andando a restringere gli spazi di
libertà e di agibilità collettiva nei paesi europei dovrebbe indurci a non
perdere ulteriore tempo in disquisizioni che poi servono solo ad occultare la
nostra estraneità ai processi reali in corso.
La decisione di inviare a Kiev dei missili a lunga gittata
capaci di colpire infrastrutture a 1000 km di distanza rappresenta una scelta
destinata a rendere ancora più acuta la crisi internazionale assoggettando i
paesi europei ai voleri del loro padrone statunitense. Ma la parte del capitale
europeo ormai vincente spinge direttamente sulla guerra come dimostra il
documento di Mario Draghi sulla produttività o le scellerate scelte belliche
operate dal centro sinistra in Germania.
Dovremmo avere la forza, ma anche l’onestà intellettuale, di
prendere atto della estraneità dei comunisti dai contesti territoriali dove
sono nati movimenti e realtà contro i processi di militarizzazione, agire al
loro interno per sviluppare consapevolezza, che non ci si possa limitare alla
lotta contro una nuova installazione militare senza prendere in esame il ruolo
effettivo della Nato, la militarizzazione della società e la deriva autoritaria
e securitaria in atto nei paesi occidentali.
Qualunque discussione si voglia costruire sulla guerra non potrà eludere questi temi e soprattutto evitare la classica domanda leninista: che dobbiamo fare per contrastare lo stato delle cose presenti?
Fonte foto: Eunews (da Google)