L’elezione, o forse meglio dire la
rielezione, di Trump a Presidente degli
Stati Uniti, almeno per la stampa nazionale, è stato qualcosa di imprevisto. La
sorpresa dei media nazionali è da attribuire all’auto convincimento che la
candida democratica Kamala Harris stesse ribaltando il risultato, dato poco
probabile visto che gli stessi mercati puntavano sulla vittoria di Trump come
prova l’indice della borsa nei giorni precedenti le elezioni
presidenziali. Il lavoro di
disinformazione condotto dai media nazionali aveva più una funzione interna che
esterna con effetti deleteri sulla costruzione dell’opposizione al governo di
destra – centro guidato dalla Meloni. La
vittoria di Trump negli USA è da ascrivere alla sconfitta che interessa, da
tempo, le forze politiche progressiste
sempre più americanizzate.
L’americanizzazione delle forze politiche progressiste vale per l’Italia
ma vale in generale per tutti i partiti e i movimenti politici che operano
nell’agone rappresentato dagli Stati che aderiscono all’Unione Europea.
L’americanizzazione vale per larga parte dei partiti e dei movimenti politici
tradizionali, in sostanza per le formazioni politiche che in qualche modo
rientrano nel gruppo parlamentare dei Socialisti e Democratici Europei e per
tutte quei movimenti politici nati dalla destrutturazione della società operata
dal postmodernismo declinato in quella che è “French Theory” americana in simbiosi con il neoliberalismo di matrice
angloamericana. Dall’americanizzazione della cultura politica europea si
distaccano alcune forze politiche riconducibili a quella che viene definita
sinistra radicale o come succede da qualche tempo a questa parte, utilizzando
un termine a dir poco offensivo oltre che fuorviante, sinistra sovranista. A
questi movimenti politici sono da ascrivere,
ad esempio, La France
Insoumise e il movimento fondato e
guidato a Sarha Wageneknecht in Germania. In Italia il Pd è l’espressione
massima dell’americanizzazione della cultura politica. L’americanizzazione
della cultura politica del PD è un dato genetico. I gruppi dirigenti ex PCI –
PDS – DS hanno fatto un triplo salto
mortale passando dalla fede nel Comunismo a quella nel Liberalismo di matrice
americana come prova il richiamo di Veltroni, primo segretario del PD, a
Kennedy e al suo “I Care”.
Essere progressisti non vuol dire
essere di sinistra. L’ideologia progressista non è il surrogato della sinistra.
Il concetto di sinistra è un concetto certamente complesso che ha al proprio
interno sfumature e visioni a volte anche alternative tra di loro. Il termine
sinistra nasce durante la rivoluzione francese e si riferiva ai parlamentari
più estremi e radicali che sedevano appunto negli scranni posti alla sinistra
dell’aula parlamentare. Questi parlamentari, si ispiravano a valori democratici
ed egualitari, erano in prevalenza Giacobini e Cordiglieri. Il concetto di
sinistra nel corso della storia politica finisce con il coincidere con i
movimenti politici di ispirazione socialista, cultura politica quest’ultima che
nel corso della sua storia è stata declinato in diversi modi. Comunismo,
Socialismo, Socialdemocrazia, Socialismo Liberale, ecc. sono solo alcune delle
sue declinazioni. Partiti della tradizione Socialista come la SpD tedesca da
oltre mezzo secolo, a partire da Bad Godsberg, hanno rinunciato all’identità
marxista condividendo l’ordoliberalismo ossia l’economia sociale di mercato.
Altre formazioni politiche che si richiamano al socialismo sono partiti
politici liberal – progressisti per cui di socialista non hanno nulla. Le
trasformazioni, sul piano della cultura
politica, che hanno interessato i
partiti politici, tradizionalmente di sinistra, sono il risultato delle mutate
condizioni sociali ed economiche dell’Occidente a partire dalla fine della
seconda guerra mondiale. E’ cosa nota che i trent’anni successivi alla fine del
secondo conflitto mondiale sono anni di ricostruzione, di crescita economica e
di inclusione delle classi sociali subalterne nel sistema liberal –
democratico. Gli anni ‘70 del ‘900 caratterizzati da stagflazione, fine
degli accordi di Bretton Woods, crisi petrolifera, proteste popolari ecc. segnano
la fine dei “trente glorieuses” post
conflitto mondiale. L’11 settembre 1973 Golpe in Cile e Rapporto della
Trilaterale segnano l’avvio del ciclo economico che dura da circa da mezzo
secolo, avendo nella fine dell’URSS e la vittoria della Guerra Fredda da parte
degli USA il punto massimo del ciclo economico, politico e sociale. A partire
dagli anni ‘90 gli USA utilizzano sapientemente economia, finanza, pressione
militare e culturale per egemonizzare il mondo. L’attentato dell’11 settembre
2001 alle “torri gemelle” segna il
rifiuto dell’americanizzazione da parte del
mondo non occidentale. L’attacco diretto al territorio statunitense prova che
la storia non è affatto finita e che all’orizzonte si paventa il possibile “
scontro tra civiltà”.
L’egemonia mondiale degli Stati
Uniti si esplica su diversi fronti. In Medio Oriente punta all’abbattimento dei
regimi arabi di ispirazione socialista, da qui le guerre contro l’Iraq, il
tentativo di abbattere il regime siriano, la fine della Libia di Gheddafi, gli interventi
in Afghanistan, Somalia, ecc . Questi come altri interventi sono propagandati
come azioni miranti a salvaguardare i valori liberal – democratici sul piano
politico e libero scambisti sul piano economico. Liberal – democrazia e
liberalismo economico sono facce della stessa medaglia. Insieme sono
l’ideologia angloamericana funzionale alla costruzione di un mondo che vede
nell’american style l’unico modello di vita accettabile. Le libertà
individuali, l’idea di precarietà, il mercato, la riduzione dei compiti e delle
funzioni dello Stato nazionale fanno parte della narrazione ideologica angloamericana.
(Reagan e Thatcher, sul finire del secolo in chiave progressista Blair e Clinton ). L’egemonia USA si ripropone come una sorta di
continuità dell’imperialismo britannico che ha dominato il mondo almeno fino
allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Altro fronte è l’Europa. Gli strumenti utilizzati dagli Stati Uniti
per controllare l’Europa sono fondamentalmente due: inclusione degli ex Stati
del Blocco sovietico nel modello economico neoliberale, riunificazione della
Germania e controriforma degli Stati con
costituzioni democratico sociali. come l’Italia, in chiave liberale o meglio
neoliberale. Per quanto riguarda America
Latina e Asia, in aggiunta alle relazioni storicamente consolidate con
Giappone, Corea del Sud, Filippine, Taiwan, Malaysia, ecc. vengono individuati i
nuovi avversari ossia Iran e Cina, la Russia lo diventerà da li a qualche anno
sotto la guida di Putin che la risolleverà dallo stato di prostrazione alla
quale era stata ridotta da Eltsin.
Il processo descritto molto sommariamente –
ciascuno dei passaggi indicati richiede approfondimenti specifici che per
l’economia del mio ragionamento non possono essere sviscerati in questa sede –
ha determinato cambiamenti profondi sia negli Stati Uniti che nelle province
dell’Impero. Uno dei primi cambiamenti è stato, dicevo, l’americanizzazione dei
movimenti politici progressisti. La fine dell’URSS ha messo in crisi
definitivamente i partiti politici di ispirazione marxista – leninista ma anche
i partiti Socialisti e Socialdemocratici. La risposta al neoliberalismo
rappresentato dalla reaganeconomics,
ossia dal combinato disposto della Scuola economica di Vienna, cioè il
marginalismo, con le teorie monetariste della Scuola economica di Chicago, è la
“Terza via” del Labour di Blair teorizzata dal sociologo A. Giddens, un progetto
politico che viene declinato in modo diverso nei singoli Stati vassalli
dell’Impero. In Italia è l’Ulivo, in Francia è il PS del secondo mandato
presidenziale di Mitterand, in Germania è la Neu Mitte di Schroeder. I New Democrat di Clinton diventano il punto
di riferimento dei progressisti europei. Ad onor del vero bisogna parlare di “Terze
vie” per il semplice fatto che i partiti politici Socialisti e Socialdemocratici
interpreteranno il corso neoliberale rispetto alle condizioni date di ciascuno
degli Stati nazionali che vengono chiamati a governare. Pur tenendo presente le
specificità del sistema sociale ed economico di ciascuno Stato è possibile
individuare elementi comuni quali: ridimensionamento del welfare state,
moderazione salariale, privatizzazioni, mercatizzazione, flessibilità del
mercato del lavoro. Gli interventi messi in campo sono riconducibili ad una
idea molto semplice: bisogna ridurre lo spazio occupato dallo Stato al fine di
liberare risorse in modo tale da consentire al mercato di poterle valorizzare favorendo
la crescita economica la quale, a sua volta, “sgocciolerà” dalle classi alte verso quelle
basse. Sul piano delle politiche del
lavoro in Germania abbiamo i vari piani Hartz, in Italia i Pacchetti Treu prima
e il Jobs Act voluto dal governo Renzi qualche anno dopo, in Francia la riforma
del diritto del lavoro di Macron ministro del Governo Valls. Questi
provvedimenti non vengono introdotti tutti contemporaneamente nei Paesi che ho
richiamato, come dicevo il processo di liberalizzazione del mercato del lavoro
dipende dal contesto sociale ed economico di ciascuno di essi, per cui sono
dipesi dai singoli governi e dal contesto nel quale ciascuno di essi ha operato. Sul piano delle
politiche monetarie i suggerimenti di von Hayek relativi alla “
denazionalizzazione della moneta” vengono fatti propri dai governi degli Stati
occidentali rientranti nella sfera egemonica dell’Impero americano. Altri
provvedimenti varati dai diversi governi nazionali riguardano la materia
fiscale. L’idea di fondo, risalente agli anni 70, ispirata dagli economisti R.
Mundell, A. Laffer, J. Wanniski, M.
Feldestein, è che attraverso una minore
tassazione è possibile stimolare tanto il risparmio quanto gli investimenti che,
influendo sul lavoro, produrrebbero una maggiore crescita. E’ la supply – side
economics, ossia l’esaltazione dell’offerta rispetto alla domanda aggregata di
Keynes. La supply – side economics, con tutti i nessi e i connessi, segna
l’avvio del ciclo economico iniziato nei primi anni 70. Le politiche economiche
neoliberali hanno fatto si che il sistema bancario, rappresentato dalla Fed e
dalla BCE, fosse controllato dalle più
potenti banche commerciali. In contraddizione con quanto teorizzato dai
“sacerdoti” del libero scambio, oggi, il sistema economico mondiale è
controllato da poco più di 1300 aziende che hanno assetti azionari incrociati.
In sostanza meno dell’1% delle multinazionali guida il 40% del totale. Dato che
risale a qualche anno fa riportato nel saggio di Luca Ciarrocca “ I padroni del
mondo”. Lo spreed è diventato lo strumento della lotta politica che il sistema
bancario utilizza contro lo Stato Democratico.
Negli Stati Uniti le politiche
neoliberali e di apertura massima del mercato, in questo senso gli USA sono i
continuatori dell’imperialismo Britannico, infatti il Regno Unito, in pieno
protezionismo è stato sempre, o quasi, libero scambista e questo grazie al
mercato privilegiato rappresentato dal suo impero coloniale. L’economia
neoliberale ha prodotto l’abbattimento
delle frontiere intendendo per esse non tanto quelle geopolitiche ma quelle
mentali. La potenza economica degli Stati Uniti è stata favorita, sin dalle
origini, da politiche economiche protezionistiche per affermare la sua egemonia;
dopo di che ha mutato approccio sposando il modello libero scambista. Friederich List, economista tedesco della
prima metà dell’800, nello scrivere “ Il sistema nazionale dell’economia
politica” traeva spunto da quanto succedeva negli Stati Uniti, contrapponendo il
modello protezionista di quel paese a quello libero scambista del Regno Unito,
auspicando che la Prussia – la Germania non era stata ancora unificata –
adottasse le stesse politiche. Gli Usa hanno modificano la propria politica
economica in funzione del consolidamento economico interno e dell’espansione
verso l’esterno passando dal protezionismo a libero scambio. Politiche
economiche protezioniste non sono inclusive, non favoriscono l’integrazione in
unico grande mercato dei sistemi economici dei singoli Stati nazionali.
L’economista J. Alber ha evidenziato la differenza tra i diversi modelli di
capitalismo, lo ha fatto quando ha messo
a confronto il modello capitalista renano con quello angloamericano, all’indomani
del crollo dell’URSS, sottolineando come il conflitto da quel momento avrebbe
riguardato i modelli di capitalismo; dal conflitto ad esserne uscito vincente è
stato quello angloamericano. L’ideologia Imperialista degli Stati Uniti ha
bisogno di un sistema economico libero scambista dal quale trarre enormi
risorse finanziarie e di un cambio di mentalità delle classi dominanti
nazionali. Le oligarchie statunitensi progressivamente hanno acquisito una
forma mentis che le ha portate a sentirsi classe dominante non solo all’interno
della società americana ma a livello mondiale. Il processo si è concluso
includendo nello stile di vita americano le oligarchie presenti negli stati
nazionali che formano le province dell’Impero. Negli anni ‘90 del secolo scorso
J. Nye non a caso conia il termine “soft power”, ossia il potere soffice
esercitato attraverso la persuasione utilizzando in primo luogo la produzione,
appunto, di “stili di vita”. Uso il
termine “stili di vita” al plurale perché una classe egemone nazionale che
aspira a diventare una oligarchia mondiale, per poter meglio rafforzare il
proprio potere, deve necessariamente
immaginare stili di vita “altri” rispetto al proprio nel quale far riconoscere
le masse subalterne. Le rivendicazioni identitarie delle minoranze, siano esse
sessuali, etniche, religiose, ecc. sono servite per disgregare la società
intesa come comunità nazionale di uno Stato. Lo stile di vita dell’oligarchia mondialista,
è stato costruito, in primo luogo,
partendo dalle università esclusive, dove per accedervi bisogna avere un pedigree di tutto rispetto in termini di
status sociale e quindi economico. E’ nel mondo delle università esclusive e
nei club riservati che si sono consolidate relazioni utili per il futuro. In
quelle università non contano etnia, religione, lingua, sesso o genere,
importante è accettare lo stile di vita dell’oligarchia americana. Alle masse
subalterne sono riservati stili di vita adeguati e funzionali al mantenimento
della gerarchia sociale. I modelli sociali sono quelli delle soap opera.
Centinaia di puntate che hanno letteralmente contribuito a cambiare la
mentalità di miliardi di persone in tutto il mondo. Sono la musica, il cinema
ma soprattutto la televisione e negli ultimi decenni la rete, i social. Gli stili di vita riservati alle masse
subalterne sono uno scimmiottamento dello stile di vita dell’oligarchia dominante.
L’individualizzazione degli stili di vita è stato l’obiettivo, peraltro
raggiunto, delle oligarchie. Stili di vita individualizzati hanno la funzione
di abbattere i confini, i limiti, le esternalità del mercato per renderlo
sempre più integrato ed unico. Questa
appena descritta è la forma mentis di elite, oligarchie che vivono al di fuori
dei confini dello Stato nazione che le ha partorite, è questo il senso della globalizzazione. La
globalizzazione produce effetti sul piano economico alla sola condizione che a
guidarla siano le oligarchie mondializzate. La dialettica tra classi sociali
propria degli Stati nazionali viene superata dall’abbattimento dei confini
geopolitici degli Stati nazionali ma soprattutto dall’abbattimento delle
frontiere culturali rappresentate dal senso di appartenenza ad una comunità nazionale.
Alla globalizzazione delle classi dominanti non si contrappone la
globalizzazione delle classi sociali subalterne. Le condizioni economiche e
sociali sono troppo diverse perché ciò possa accadere. Il conflitto tra classi
sociali subalterne diventa conflitto tra popoli. Il conflitto si sposta dalle
condizioni materiali a quelle valoriali. La contrapposizione tra mondo islamico
ed occidente attraversa questa frattura, stessa cosa dicasi rispetto al
conflitto con la Cina e oggi con la stessa Russia e in prospettiva con l’India.
Il conflitto di tipo valoriale dovuto a culture e quindi visioni del mondo altre
rispetto a quello americano ha bisogno anch’esso di risorse. Ciò che accade in
Cina dopo la morte di Mao Tse Tung è emblematico. La crescita economica e
sociale della Cina è stato impressionante. Un Paese con 1,4 miliardi di persone
ha oggi la più grande classe media del mondo. L’adesione delle masse cinesi ai
valori impersonati dalle sue classi dirigenti è una sintesi di comunismo,
confucianesimo e senso della patria. Il consenso delle masse al modello sociale,
politico ed economico messo su negli ultimi decenni è totale. In merito alla
Cina, quanto riportato dai media occidentali spesso e volentieri è solo
propaganda. Stesso ragionamento vale per la Russia di Putin. I dati economici e
sociali dai quali si evincono le condizioni del popolo russo non sono quelle
descritte dalla propaganda dei media occidentali. Interessante sul tema il
recente saggio E. Todd dal significativi titolo “ La sconfitta
dell’Occidente”.
La trasformazione delle oligarchie
americane da nazionali in globali ha prodotto cambiamenti rispetto alla
struttura sociale ed economica degli Stati Uniti come nel resto
dell’Occidente. Il mutamento della
struttura sociale ed economica è stato determinato, come dicevo, da politiche
libero scambiste. La libera circolazione di merci, capitali, essere umani e
idee, automaticamente ha prodotto effetti redistributivi tanto della ricchezza
prodotta quanto della produzione. La delocalizzazione di attività industriali è
un esempio di redistribuzione. Le oligarchie americane, assurgendo a classe
egemone globale, si sono potute arricchire ancora di più sfruttando le
occasioni offerte dai mercati extra nazionali scaricando nel contempo i costi
legati alla globalizzazione sulla working class ossia la spina dorsale della
società americana. L’economia è passata da materiale a finanziaria. I beni di consumo dall’essere in prevalenza
materiali sono passati ad essere immateriali e non mi riferisco quando parlo di
immaterialità alle sole transazioni finanziari.
Penso agli stili di vita, ai diritti individuali, alla produzione
culturale. Il mercato globale si è riposizionato all’insegna di una nuova
divisione del lavoro e rispetto ad una nuova domanda di beni di consumo. Il processo descritto ha portato alla crisi
di intere aree industrializzate degli Stati Uniti con il progressivo
scollamento tra società ed elite e oligarchie. Aree industriali come quelle che
gravitavano intorno ai grandi laghi hanno visto le attività industriali essere
delocalizzate verso paesi periferici dell’Impero dove i costi della manodopera
sia in termini di salari che di diritti sociali sono più bassi. Il sistema
economico americano si è a sua volta riposizionato rispetto ai mercati
internazionali, da qui lo sviluppo e la crescita di Stati come la California e più in generale di quelle aree legate alle nuove
tecnologie, alle transazioni finanziarie, alla produzione dei nuovi beni di
consumo che definiscono lo status sociale di elite globaliste. La destrutturazione operata dalle oligarchie
americane globaliste ha avuto come conseguenza la “tribalizzazione “ della
società americana. C. Lasch, M. Lilla hanno analizzato senza paraocchi
ideologici la crisi della società americana. Lasch parla di rivolta delle
elites contro la democrazia, Lilla evidenzia come le rivendicazioni identitarie
non hanno nulla a che vedere con la sinistra.
Le trasformazioni descritte per
sommi capi, dicevo, hanno la loro genesi negli anni ‘70 del ‘900, ora siamo alla fine di un ciclo. La realtà sociale economica e culturale è
talmente mutata che le stesse forze politiche
un tempo riconducibili agli interessi delle classi lavoratrici sono
irriconoscibili o forse non esistono più sulla scena politica. In molti casi i
nomi dei partiti politici un tempo classificabili come comunisti, socialisti e
socialdemocratici sono annacquati in un generico progressismo schierato a
difesa delle elite globaliste e quindi del neoliberalismo libero
scambista.
Il voto degli elettori americani
per Trump segna la fine definiva del ciclo iniziato, anche in questo caso,
negli anni ‘70 del ‘900. Il voto per Trump è l’invito ad una ripresa del ruolo
e della funzione dello Stato nazionale, politiche economiche protezionistiche
rispondono a queste istanze, il che non vuol dire che le elite globaliste rinunceranno al loro ruolo. L’elezione di
Trump fa il paio con il recente discorso di Draghi al Parlamento europeo e con
la lettera dello stesso al Financial Time inviata durante la crisi
pandemica. Storicamente le grandi
trasformazioni sono sempre state guidate dagli Stati nazionali. Lo Stato
nazionale ha avuto un ruolo sempre fondamentale per lo sviluppo dell’economia
capitalista. Perfino la rivoluzione industriale inglese collocata tra il 1750 e
il 1830 ha avuto bisogno del ruolo dello Stato britannico dell’epoca.
L’industria tessile britannica, solo per fare un esempio, ebbe vita facile
grazie all’intervento dello Stato Britannico dell’epoca che operò nel di
distruggere l’equivalente industria indiana.
Il liberalismo inteso come libero
scambismo è solo una finzione ideologica, senza il ruolo dello Stato nemmeno il
capitalismo è in grado di salvare se stesso. Il liberale Keynes ha salvato il
capitalismo della prima metà del ‘900, anche in questo caso il ruolo dello
Stato è stato fondamentale. Il primo provvedimento che il democratico Obama vara,
appena eletto Presidente degli Stati Uniti, ha riguardato il salvataggio del
sistema bancario. In conclusione il
processo che si apre si caratterizza per il conflitto tra elite capitaliste, le
masse sociali subalterne prive di rappresentanza politica sono ridotte a pure e
semplici spettatrici di un conflitto che comunque avrà effetti su di loro. C’è
un vuoto politico enorme fino ad ora, tale vuoto è stato riempito da
opposizioni al sistema create dalle stesse elite dominanti. Le opposizioni di comodo al sistema sono i
movimenti ambientalisti come quello della Greta Thumberg, i populismi post
moderni come il M5S in Italia o AFD in Germania, il movimento LGBTQ +, le onlus
a sostegno delle ondate migratorie, più in generale i movimenti per le libertà
individuali. Nessuno dei movimenti
indicati ha come obiettivo la messa in discussione dell’ideologia neoliberale e
quindi globalista. Il populismo sovranista è solo diversamente globalista e
neoliberale.
Da dove partire? Per il momento ha vinto Trump e sicuramente si apriranno nuovi scenari. Prima di entrare nel merito delle scelte possibili della presidenza Trump è importante vedere i primi atti. Ciò che ha detto in campagna elettorale va preso cum grano salis . Il nodo da sciogliere è come organizzare la possibile opposizione, non a Trump che crea la frattura nella quale inserirsi, ma al sistema capitalista, per provare a calmare lo spirito animale che lo alimenta. Per fare questo, restando in Italia, la Schlein come Bonelli e Fratoianni sono completamente inadeguati perché parte integrante di quella opposizione di comodo utile alla conservazione del sistema. Per quanto riguarda la destra centro è poi ancora meno adeguata alla sfida. La Meloni deve agli Stati Uniti, quindi alle oligarchie di quel Paese, il suo essere Presidente del Consiglio. In Europa, Macron è allo sbando, l’unico che sembra aver capito le possibilità che si aprono con il nuovo scenario sembra essere il cancelliere tedesco Scholz, il quale, come primo atto ha licenziato il ministro delle finanze liberale che aveva proposto una manovra lacrime e sangue.
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