Se perfino Il Sole 24 Ore critica il capitalismo made in Italy


Premessa: smantellare l’impianto ideologico del capitale

Un articolo di Riccardo Gallo, pubblicato sul sito del quotidiano di Confindustria, merita grande attenzione già dal suo titolo: “Quel travaso pazzesco di ricchezza dal lavoro al capitale”

Da anni contestiamo la progressiva erosione del potere di acquisto salariale, le logiche perdenti della contrattazione di secondo livello in deroga ai contratti nazionali, la diffusa ricerca di sostegno statale (attraverso anche la riduzione del cuneo fiscale) alle imprese salvo poi scoprire che gli utili azionari e i profitti delle aziende determinano l’arricchimento crescente dei padroni senza i dovuti investimenti per accrescere la competitività delle imprese.

Forse dovremmo, una volta per tutte, smettere di utilizzare i termini padronali, la competitività è un’arma con la quale si sono indeboliti i poteri di acquisto e di contrattazione e gli stessi contratti nazionali, allora assumere linguaggi e punti di vista differenti, se non proprio antitetici, a quelli utilizzati dalla controparte, dovrebbe rappresentare un salto di qualità per gli stessi sindacati.

In Italia accrescere la competitività delle imprese ha determinato delocalizzazioni, riduzione degli organici e del potere di acquisto salariale, aumento dei carichi di lavoro e della precarietà, l’indebolimento delle misure in materia di prevenzione, salute e sicurezza in azienda; utilizzare concetti quali produttività, competitività e merito come valore aggiunto rappresenta non solo un errore ma anche una sorta di subalternità ideologica e politica a logiche da avversare, alle ideologie che hanno portato alla sconfitta del movimento operaio e sindacale.

Nel merito dell’articolo

Citiamo alcuni passaggi eloquenti dell’articolo sopra menzionato:

“Il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale è stato pazzesco. I soci hanno prelevato come dividendi l’80% degli utili netti e hanno lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti, quando invece a loro per primi dovrebbe convenire far crescere il capitale nella propria impresa. Oltretutto, gli avari investimenti delle imprese sono stati solo per il 40% materiali nelle fabbriche e per il 60% finanziari in partecipazioni.

Dallo studio della Sapienza (ndr di Roma) emerge comunque che le società industriali godono in media di un’eccellente efficienza di gestione e un’ottima salute patrimoniale e finanziaria. Per esempio, negli ultimi quattro anni, la copertura delle scorte si è aggirata sempre intorno a 75-80 giorni, la dilazione a clienti intorno a 65 giorni, quella ottenuta dai fornitori intorno a 80 giorni. L’indice secco di liquidità è rimasto sempre pari a un ottimo 0,9 con un record di 0,93 nel 2020 dopo l’immissione nel sistema di una massa di moneta eccessiva, non impiegabile. Il rapporto tra debiti finanziari e capitale netto è rimasto sempre pari a un più che buono 0,7″.

Le valutazioni appena riportate fotografano un capitalismo finanziario attento alla distribuzione degli utili tra gli azionisti in un paese nel quale la forbice sociale è sempre più larga, ma si lancia anche un monito preciso alla industria italiana criticata per gli scarsi investimenti, per la tendenza a privilegiare l’aspetto speculativo sull’indebitamento destinato a processi innovativi e tecnologici.

Se si critica la classe imprenditoriale per una sorta di disaffezione al rischio di impresa non si prende atto che per quasi 40 anni la richiesta delle associazioni datoriali è stata quella di ricevere aiuti (anche attraverso la generosa concessione degli ammortizzatori sociali) pubblici senza offrire nulla in cambio;  i tagli al cuneo fiscale permettono alle aziende, ma a carico dei contribuenti, di evitare aumenti salariali e contrattuali per adeguare i salari stessi al reale potere di acquisto.

Se poi si scopre la perdita di competitività del paese derivante dai mancati investimenti datoriali, l’ ammissione di colpa  meriterebbe un drastico cambio delle politiche confindustriali di cui non vediamo invece traccia.

Del resto sono stati proprio i padroni a esigere la riduzione delle tasse e una presenza soft dello Stato salvo poi scoprire che senza il generoso aiuto dello stesso non avrebbero superato la crisi del 2008 e quella pandemica.

Il mercato del lavoro è arretrato, scrive Gallo, ma questi ritardi sono evidenti dai primi anni novanta e nei fatti si chiede allo Stato di creare nuove competenze per i lavoratori che dovrebbero essere invece determinate da una rinnovata gestione della produzione da parte aziendale.

Siamo quindi in presenza di una tardiva ammissione le cui cause sono sostanzialmente rimosse perchè le soluzioni prospettate sono sempre le stesse ossia disimpegnare economicamente e strategicamente le imprese dai loro compiti e caricare il pubblico di ogni onere. Dietro all’idea di cambiare gli assetti contrattuali si cela poi un altro obiettivo assai pericoloso ossia quello di porre fine a istituti contrattuali nazionali per lasciare alla contrattazione di secondo livello il compito di determinare gli importi delle buste paga sapendo che questa scelta aumenterebbe le disuguaglianze economiche e sociali accrescendo al contempo il potere datoriale.

Se si scrive che la soluzione necessaria è quella di ” rivedere salari e stipendi” si arriva a due conclusioni fallimentari: da una parte collegare il salario ai profitti di impresa, dall’altro abbattere ogni riferimento contrattuale

La eventuale partecipazione dei lavoratori ai successi della gestione economica di fatto significa scaricare sugli stessi gli oneri di impresa salvo poi demandare allo Stato politiche attive in materia di lavoro a uso e consumo delle aziende.

Fonte foto: Il Sole 24 ore (da Google)

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