Premessa:
tornano gli Stati
Adam Tooze. “Questa è in realtà un’esperienza
collettiva” ha coniato il termine di “policrisi” per descrivere
l’interazione tra la pandemia di COVID-19, la guerra in Ucraina e le crisi
energetiche.
A partire dalla crisi del 2008 è divenuto centrale il ruolo
dello Stato nazionale e sovranazionale (ad esempio la Ue) a conferma che i
cantori delle moltitudini e della fine dell’entità statale avevano sbagliato
analisi; piuttosto sarebbe utile analizzare e comprendere il rapporto tra stati
e multinazionali in tempi nei quali si chiede ai singoli paesi di trainare la
spesa militare.
Questa premessa si rende necessaria alla luce della necessità
di comprendere i cambiamenti globali e i nuovi assetti derivanti dalle guerre
in corso il che non deve indurci a ipotizzare il ritorno ai Trente Glorieuses,
caratterizzati dal neo keynesismo con una crescita stabile e sostenuta, tassi
di investimento elevati e il potenziamento del welfare. Di certo davanti alla
svolta digitale e green il ruolo degli Stati tornerà ad essere protagonista e
sponsorizzato dai cantori del capitalismo che per 40 anni ci hanno parlato di
un progressivo ridimensionamento del ruolo statale.
L’economia globale, stando a innumerevoli ricerche, presenta
modeste prospettive di crescita, numerosi paesi, specie nella Ue, sono alle
prese con un forte calo della domanda interna anche per i salari in fase
stagnante, l’Ocse parla di un PIL globale che nel prossimo biennio crescerà
solo del 3 per centro.
Un mese fa la Federal Reserve ha ridotto i tassi di interesse
a fronte di una inflazione ridotta e di un mercato del lavoro in fase di
rallentamento ma questa situazione è ben diversa da quella che registriamo nei
paesi UE dove la Germania da due anni è in fase recessiva, l’economia cinese
presenta una crescita molto più contenuta del passato e la sua Banca centrale,
davanti alla crisi della domanda e del settore immobilitare, sta adottando
misure espansive.
L’economia globale nel suo complesso cresce ben poco, la
crisi manifatturiera si sta manifestando negli Usa ma nei paesi Ue è assai
diffusa e dopo l’impennata dei costi e dell’inflazione nell’anno e mezzo
successivo alla guerra in Ucraina la Ue è entrata in una fase di crisi dalla
quale stenta a riprendersi.
La Banca centrale europea ha iniziato da mesi a diminuire il
tasso di interesse, mantenerlo ai vecchi livelli avrebbe compromesso la ripresa
dei consumi e degli investimenti dei quali la Ue ha grande bisogno alimentando
al contempo la crisi delle aziende bisognose di finanziamenti con interessi
contenuti specie ora che stanno pensando a indirizzare gli aiuti e gli
investimenti verso settori redditizi come quelli ad alto tasso tecnologico.
Se guardiamo alla periferia europea, ad esempio il
nostro paese, la manifattura resta assai debole, i salari più bassi di tante
altre nazioni a capitalismo avanzato, gli interventi statali per ridurre il
cuneo fiscale servono soprattutto a un sistema imprenditoriale in grande
difficoltà e spesso arretrato e assai meno invece sono di aiuto per la ripresa
dei consumi.
Restano negativi invece i dati relativi alle esportazioni
estere mentre cresce l’acquisto dei titoli italiani da parte di società e
cittadini stranieri e l’occupazione, per quanto ne dica il Governo, non appare
in grande ripresa se analizziamo le ore lavorate e la tendenza a contratti part
time.
Una prova eloquente della crisi ancora diffusa è data dalla
diminuzione del tasso di interesse che in teoria avrebbe dovuto alimentare la
richiesta di finanziamenti che invece, dati Banca d’Italia, restano contenuti.
Le famiglie più ricche, non certo i ceti popolari,
approfitteranno della riduzione del costo del denaro per tornare ad investire
nel mattone ma da qualche anno la richiesta di mutui e prestiti è sempre più
legata alla incapacità di sostenere spese straordinarie, si chiedono soldi alle
banche per pagare spese straordinarie dei condomini, per acquistare un’auto o
affrontare le spese scolastiche e mediche in un paese in cui 5 milioni di
cittadini rinuncia alle cure per mancanza di soldi.
Se leggiamo il Piano strutturale di bilancio viene
prevista la crescita del debito pubblico per ancora due anni fino al 137,8 per
cento, dal 2027 dovrebbe invece calare e su questa previsione (o
scommessa?) si aggrappa, arrancando, l’intero documento inviato a
Bruxelles da cui per altro dipende il nulla osta per la nuova manovra di
Bilancio dopo la quale partiranno i 7 anni entro i quali ritornare nei
parametri comunitari tra debito e Pil.
Sempre la Banca d’Italia parla di inflazione in aumento nei
prossimi due anni e un tasso di crescita contenuto.
In questi ultimi anni il reddito medio annuo familiare è
cresciuto ma resta comunque inferiore al passato e ai dati pre pandemici.
Se poi guardiamo alla spesa media delle famiglie italiane è
cresciuta ma di poco ed oggi si spende per beni durevoli mentre le classi
sociali meno abbienti arrancano e si indebitano; si allarga la forbice rispetto
alla parte più ricca del paese, prova ne sia che quasi il 60 per cento delle
famiglie da qualche anno non riesce a risparmiare un euro e anzi registriamo la
tendenza all’indebitamento, tanto che in un rapporto la Banca d’Italia scrive:
“La ricchezza media a prezzi costanti è aumentata
dell’1,8 per cento rispetto al 2020; quella mediana è invece diminuita del 2
per cento. La quota detenuta dal 10 per cento più abbiente è salita di circa 2
punti percentuali, al 52 per cento.
La quota di famiglie indebitate è rimasta stabile al 26 per
cento. Le famiglie con redditi sopra la mediana detenevano l’85 per cento del
totale del debito finanziario. Rispetto al 2020 la quota di debito finanziario
detenuta dai nuclei con reddito al di sotto di quello mediano è diminuita di
circa 2 punti percentuali, con una riduzione maggiore per il credito al consumo
(-6 punti percentuali)”.
Da questa breve disamina dei dati forniti dalla Banca d’Italia e recepiti dal Governo si trae una immagine ben diversa da quella presentata dal Governo Meloni.
di Federico Giusti Cub Pisa
Fonte foto: L’Antidiplomatico (da Google)