Compiuta peccaminosità


Il capitalismo è polimorfico. La sostanza è il plusvalore, ma i suoi  attributi sono la materializzazione tentacolare del plusvalore. Lo spettacolo truculento è l’attributo che nel nostro tempo di compiuta peccaminosità regna incontrastato. Niente è vero, ma tutto è spettacolo e finzione.

Le tragedie famigliari si succedono; donne e uomini uccidono in modo irrazionale, ciò malgrado la TV dell’orrore continua la sua corsa. Quotidianamente gli esperti  nel loro mediatico salotto discutono, ipotizzano, si sostengono e ricostruiscono i crimini. Entrano nella psiche dei criminali e in spettacolo e si banalizza. Le discussioni quotidiane su casi di cronaca cruenti e in gran parte simili sono condotte in modo sempre  simile, si resta sulla superficie pruriginosa degli eventi. Il ripetersi di eventi affini non conduce a porsi domande sulla struttura economica e sulla sovrastruttura corrispondente. Si “individualizza” il crimine e si definisce il confine entro cui la discussione deve restare.

I casi sono ritagliati dalla totalità storica per essere esaminati nei dettagli truculenti e non solo…Lo spettacolo della violenza ammicca al pornospettacolo, spesso i dettagli si estendono alle abitudini erotiche dei protagonisti. Si deve mantenere alta la tensione e l’attenzione senza far comprendere l’origine delle vittime e spiegano al pubblico le dinamiche. Gradualmente il dolore delle vittime si trasforma profonda del male che serpeggia nella società dell’atomistica delle disperazioni. Nei salotti mediatici non si pronuncia mai la causa prima del male: il modo di produzione capitalistico; gli esperti ripetono le loro tesi, ricostruiscono dinamiche e moventi, ma manca l’elemento strutturale che favorisce il ripetersi di eventi sempre più feroci. La disperata solitudine e l’insensatezza del quotidiano non possono che scavare nella psiche il desiderio di morte e distruzione. La socialità ridotta a semplice do ut des non può che condurre ad un corto circuito e ad un collasso senza speranza. La violenza e la distruzione divengono l’improvvisa espressione e materializzazione di una condizione di disperazione che si è sedimentata negli anni fino a prendere forma nella violenza distruttrice. Ogni cittadino che vive all’ombra del capitale sa di essere mostruosamente solo, in ogni momento le certezze sociali possono inabissarsi. Ogni ora dell’orario lavorativo è caratterizzato da uno stato di tensione corrosiva e la vita privata è sempre più volatile.  Giorno dopo giorno la solitudine senza pensiero e senza speranza si sclerotizza e questo non può che generare mostruosità. Si vive in modo anonimo e tagliati nel timore panico di perdere in un attimo le conquiste di un’intera esistenza, quando ci sono. La precarietà non è semplicemente lavorativa, è lo stato ontologico dell’uomo nel nostro tempo. Tutto questo  genera forme di dipendenza emotiva e psicologica che predispongono a gesti estremi. L’infantilismo generale struttura personalità dipendenti: l’adulto affronta il dolore, il bambino brucia dalla rabbia e può diventare violento. Per difendere le vite di ogni persona e nucleo famigliare e relazionale bisognerebbe sospendere da subito le leggi liberticide che riducono il lavoro a merce e l’essere umano a prodotto da vetrina. Nel nostro tempo non saranno i servizi sociali o psicologici a ridimensionare le tragedie, ma l’uscita dalla barbarie del silenzio, in cui il capitale costringe a vivere con le sue compressioni emotive. Spegnere lo spettacolo violento e pornografico può essere il primo passo per uscire dallo stato di dipendenza e paura in cui si versa. Il passo successivo è riannodare rapporti amicali e di fiducia con i quali dare forma razionale ai pensieri e organizzare le vite su fondamenta umane. Dove il pensiero è congelato nel terrore di perdere tutto, l’essere umano non può che scivolare nella cecità della ragione. Riconquistare il senso della realtà è il modo più sicuro per rafforzare l’autonomia senza solitudine che rende adulti e capaci di pensare l’abbandono non come “la fine di tutto”, ma come una fase dolorosa da gestire emotivamente e materialmente. Tutto questo è forse banale, ma l’essere umano vive di buone banalità. Nel tempo del capitale è passato il messaggio schiacciante che bisogna vivere alla grande e senza limiti, tutto questo contribusce a consolidare il senso della morte: ci si sente niente, per cui chi è niente non può che volere la fine. La morte cova nell’alfabetismo emotivo a cui il consumismo e l’individualismo cannnibalico ci hanno abituati.

Si descrivono i crimini, si elencano fatti e ipotesi, ma si evitano i giudizi etici sulla totalità sociale ed economica che ha partorito mostri e mostruosità. Si tratta di una operazione di conservazione del sistema, poiché il crimine è analizzato in astratto. Dopo le lunghe discussioni mediatiche i crimini si ripresentano e lo spettacolo continua il suo ciclo. In questo clima dominato dalla normalità-banalità del male, alla fine resta  solo la solitudine di coloro che assistono allo spettacolo truculento, si convincono che la natura umana è un legno storto e in tal modo modo non possono che aumentare le  paure e  le disperazioni, le quali sono spesso le cause non pensate dei casi di cronaca, a cui ci stiamo abituando. Lo scopo finale del giornalismo-spettacolo è portare via la speranza con l’infinito spettacolo dei crimini. Nella caverna della contemporaneità scorrono sulla parete le immagini dell’orrore, le nuove catene sono intessute di paure, le quali inibiscono la prassi e il pensiero.

La notorietà che un certo genere di crimini comporta potrebbe, inoltre, spingere menti patologiche e predisposte al crimine all’assalto finale.

La politica dal basso tace. Questo è il dramma, bisogna riscrivere con la socialità una nuova progettualità economica e culturale. Senza questo passaggio impegnativo rischiamo di restare nella palude della violenza e dell’irrazionale. Tutti siamo chiamati ad emanciparci dalle dipendenze che generano l’infelicità assassina.

Fonte foto: Famiglia Cristiana (da Google)

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