Cosa ci stia rivelando il duplice, feroce conflitto in
corso in Ucraina e Medioriente fra “noi” (cioè l’occidente americano e i suoi
scagnozzi) e “loro” è presto detto: che la presunta supremazia morale delle
sedicenti “democrazie” sul resto del mondo è una colossale menzogna, un inganno
in cui, ipnotizzati da un’efficientissima propaganda, ci siamo lasciati cullare
per decenni.
Per dirla con il poeta il blocco NATO più Israele è ancora
“quello della pietra e della fionda”, un soggetto fintamente plurale che
esporta guerra, disordine e distruzioni nutrendosi – e nutrendo le proprie cittadinanze
– di un razzismo spirituale che ricorda quello teorizzato da Benito
Mussolini, ma è nello stesso tempo più ipocrita e più virulento poiché si
ammanta di valori distorti (una democrazia ridotta a feticcio, ma di fatto negata,
pseudodiritti civili che violentano la natura umana, incitando a un
individualismo sfrenato e impotente ecc.) esibiti per nascondere la realtà di
un insaziabile istinto predatorio che il fascismo perlomeno ostentava.
Si è ormai avverata la predizione orwelliana del
prossimo avvento di un totalitarismo perfetto, capace di atrofizzare le menti e
di capovolgere il significato delle parole: oggi la guerra è pace (servono “più
missili all’Ucraina per fare la pace” salmodiano gli officianti atlantisti), la
schiavitù è libertà (di schierarsi con chi è gradito al padrone), l’aggressione
più barbara e indiscriminata è “legittima difesa”, se a scatenarla è il regime
sionista. Va precisato che Orwell fu profeta a metà, perché immaginava
l’affermarsi di un modello autoritario d’ispirazione sovietica, e da buon
suddito britannico si schierò dalla parte di quello che reputava il mondo libero.
Nihil sub sole novi: l’idea di Europa – e poi di Occidente – prende
corpo sin dai primordi sulla base di una pretesa di superiorità antropologica e
culturale nei confronti degli estranei, cui fa sempre difetto qualcosa. Gli
altri mancano di fede, di etica, di anima, di pudicizia, di consapevolezza,
di tecnica o di tutte queste cose insieme: sono più animali che uomini, e nel migliore
dei mondi possibili evolutosi col tempo in senso democratico (la celebre
frase di Churchill riecheggia ed attualizza il motto leibniziano) possono
tuttalpiù aspirare a un ruolo subordinato.
Questa contrapposizione, in precedenza occultata da
melliflui proclami universalistici, è venuta potentemente alla luce nei decenni
seguiti al crollo dell’URSS, una potenza disprezzata ma influente con la quale
toccava fare i conti: la presunta fine della Storia ha fatto della restante
parte del globo, nell’immaginario delle élite washingtoniane, una mera
appendice dell’Occidente di cui quest’ultimo, avendone i mezzi, può disporre a
proprio piacimento. In tale quadro le velleità di indipendenza di Russia, Iran
e persino della plurimillenaria superpotenza cinese (e un domani dell’India, ad
esempio) sono valutate alla stregua di atti di insubordinazione che è giusto e
doveroso punire con spietata severità: chiunque non si sottometta va affrontato
con spirito di crociata, ridotto all’impotenza, annichilito e distrutto.
Chi si illude (l’ONU, per esempio, ma anche
volonterosi pacifisti nostrani) che il conflitto ad est e quello acceso da
Israele possano trovare una soluzione negoziata non ha inteso quale sia la
posta in gioco: il predominio mondiale, che l’Occidente non tollera venga messo
in discussione. La “pace” che i suoi leader hanno in mente equivale al deserto
evocato da Calgaco. Non dovrebbe sfuggire all’osservatore attento che tanto
nello scenario ucraino quanto in quello mediorientale a manifestare totale
assenza di scrupoli nella scelta degli obiettivi da colpire, mettendo in conto
un’ecatombe di civili, sono proprio i cosiddetti “buoni” che, determinati a
spazzar via gli avversari, nemmeno prendono in considerazione l’ipotesi di una
tregua cui le controparti sarebbero disponibili. Il fallimento ex post dei
colloqui di Istanbul, a intesa praticamente raggiunta (essendo uno
Stato-kamikaze ovvero un bene consumabile, l’Ucraina non ha facoltà di scendere
a patti né di arrendersi ai russi), fa il paio con l’assassinio di Haniyeh,
ucciso per impedire la prosecuzione del negoziato: Washington e Tel Aviv intravedono
la possibilità di schiacciare i comuni nemici una volta per tutte e temendo che
una simile opportunità non si ripresenti nell’immediato futuro hanno optato per
una guerra all’ultimo sangue, per una sorta di ordalia in cui, forti di un
predominio economico-militare in via di erosione ma per il momento ancora
indiscusso, sono pronti a giocarsi tutto.
Sarebbe vano, perciò, attendersi dai “nostri”
ragionevolezza: se finora le due crisi non si sono ulteriormente estese il
“merito” è tutto della leadership russa e di quella iraniana che, pur ripetutamente
e deliberatamente provocate, hanno dimostrato pazienza e moderazione.
È difficile però che, messe di fronte all’alternativa secca fra soccombere o reagire, Mosca e Teheran (e un domani magari Pechino) non contrattacchino in maniera risoluta. Rebus sic stantibus il deflagrare a breve termine dell’apocalisse nucleare è un’eventualità nient’affatto improbabile – ed è triste pensare che se le cose dovessero andare in questa maniera i principali responsabili di un’effettiva fine della Storia saremo stati noi.
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