Il Presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei
medici e degli odontoiatri a seguito degli atti di violenza contro i medici e
sanitari ha dichiarato:
“È necessario che ora questa attenzione si
traduca in un Decreto-legge, che definisca una serie di iniziative operative e
normative, a carattere d’urgenza, che comprendano, oltre a sistemi di
videosorveglianza, anche procedure di controllo e regolazione degli accessi
alle strutture sanitarie e sistemi a garanzia della tutela personale degli
operatori”.
La via repressiva non
solo non risolve il problema, al massimo può limitarlo, ma specialmente non è
d’ausilio per comprenderlo. La violenza contro le istutuzioni, scuola e sanità, è sempre più diffusa, in un paese normalmente
democratico l’opinione pubblica e la politica si chiederebbero il “perché” di
tale problema. La via repressiva limita i sintomi della patologia in corso, ma
non risolve il problema. Negli ultimi anni sembra che la nazione tutta, o
quasi, non voglia indagare le motivazioni profonde dello sfacelo delle
relazioni tra operatori pubblici e cittadini. Cercare una risposta non è poi così arduo:
l’aziendalizzazione delle istituzioni ha trasformato i medici da uomini dediti
alla cura dei pazienti in professionisti che tra tagli e riduzione delle spese
sono divenuti parte di un’istituzione che ha il fine di far quadrare i conti. I
pazienti sono ormai considerati clienti, per cui è il denaro a stabilire la
qualità del servizio che si compra. La salute come la formazione sono
mercificate. L’aziendalizzazione ha al centro la finanza e non certo il
paziente. Gli stessi medici pubblici sono in parte vittime del sistema. La
salute ha un prezzo, dunque, per cui, non la persona, ma i costi della cura
sono primari, pertanto i pazienti percepiscono il cambiamento in atto e sanno
bene che è il denaro a stabilire l’efficiente fruizione del servizio. Si è numeri e non persone, e i numeri sono trattati
con distanza.
Nel pubblico il numero
dei medici è inadeguato, per cui il ritmo lavorativo non consente – si può
ipotizzare – di guardare e indugiare sui pazienti e sulle loro famiglie, specie
nelle situazioni difficili. La burocratizzazione finanziaria ha i suoi tempi,
per cui il paziente con i suoi famigliari sente di non essere riconosciuto in
un momento di estrema fragilità. In questo clima di pressione l’insoddisfazione
può tradursi in violenza irrazionale. La sfiducia crea abissi e
contrapposizioni tanto più che spesso il paziente che si reca nelle strutture
pubbliche sa bene che dovrà affrontare tempi, a volte lunghissimi, per la
fruizione del servizio. Nelle cliniche private i servizi erogati ai benestanti
sono ottimi, mentre nel pubblico ci si sente poveri e “cittadini di serie B”.
Si scarica la violenza sociale su medici
che cercano di fare l’impossibile in situazioni disperate. Il clima di sfiducia
di cui i medici pubblici sono vittime non è dunque risolvibile con la videosorveglianza.
Per ricostruire la fiducia infranta è necessario dare dignità ad ogni cittadino
a prescindere dal reddito. Investire nella sanità e offrire un servizio efficiente
è l’unico sentiero da percorrere per ricucire la fiducia tra pazienti e medici.
Ferma dev’essere la condanna verso ogni atto di violenza, ma se si reagisce ad
essa limitandosi alla via repressiva, si effettua una scelta politica non
adeguata; non si difendono né i medici né i pazienti.
In realtà non si vuole
mettere in discussione l’aziendalizzazione della sanità e i tagli al sociale
che hanno trasformato gli ospedali pubblici in servizio per poveri. Medici,
personale sanitario e pazienti; se non tornano a sentirsi comunità,
difficilmente la violenza potrà essere contenuta. Il problema è di tipo
culturale politico. Fondamentale è il senso etico della professione medica,
continuamente negato da fatti di cronaca di corruzione. Il numero degli
iscritti alla Facoltà di medicina non è l’espressione di una diffusa
sensibilità alla sofferenza, ma non pochi valutano la professione medica come
un mezzo per occupare una posizione sociale di notevole prestigio con i
conseguenti risvolti economici.
Dobbiamo curare la
sfiducia per salvaguardare i medici e i pazienti, ma affinchè ciò possa essere
è necessario cambiare politica. Contro la violenza, medici, pazienti e
cittadini dovrebbero far fronte comune nella condanna della violenza e
nell’aprire il dibattito sulla condizione in cui versa il sistema pubblico.
Sono stati spesi per
armare l’Ucraina due miliardi e oltre di euro, risorse sottratte alle
istituzioni pubbliche.
Non si può non vedere
che il problema della violenza cela un dramma politico che fa fatica ad essere
riconosciuto. I diritti sociali garantiti dalla Costituzione sono rimossi dalla
cultura sociale e dalla politica. I diritti sociali implicano, se sono attuati,
il rispetto verso i professionisti che effettuano la cura dei pazienti e tale
culltura del pubblico è uno scudo contro i violenti. Oggi purtroppo è prevalsa
la gestione privata dei servizi, per cui le istituzioni pubbliche sono vissute
come “aziende”. L’articolo 32 della
Costituzione ci rammenta che non vi è fiducia in una democrazia, se il diritto
alla salute è legato al censo:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli
indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento
sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso
violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Si potrebbe ripartire dalla Costituzione per capire il clima di sfiducia che sta logorando la nazione. Senza fiducia non esiste la nazione, senza di essa vi è il rischio di precipitare in una incontrollabile violenza. Capire il problema è il primo passo per rispondere alla violenza, ma al momento il dibattito pubblico non sembra voler affrontare l’urgenza in cui siamo.
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