Il Governo pensa equo far
andare in pensione i dipendenti pubblici a 70 anni di età
Nei prossimi anni, ma lo si sa da lustri, molti dipendenti pubblici andranno in pensione avendo raggiunto gli anni contributivi o i requisiti anagrafici per l’uscita dal mondo del lavoro.
Ma le uscite saranno così numerose, a conferma che abbiamo la forza
lavoro più vecchia della Ue, da infondere preoccupazione per la tenuta dei
servizi pubblici e quindi il Governo sta pensando a soluzioni (inique) per
correre ai ripari ossia una sorta di mini riforma della previdenza per il
personale della PA.
L’ex ministro Fornero ha recentemente criticato le regole previdenziali
che non consentirebbero di trattenere in servizio per altri anni numerosi
dipendenti, se si inizia tardi a lavorare la responsabilità è di un sistema che
non investe in formazione e prova ne siano i deludenti dati sui nuovi occupati
nella fascia che va dai 25 ai 40 anni..
Oggi si accede alla pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi di
contributi (le donne a 41 anni e 10 mesi) con la cosiddetta finestra
mobile di tre mesi. Ma cosa è questa finestra mobile? E’ il periodo che
intercorre tra la maturazione del diritto alla pensione e l’effettiva
riscossione dell’assegno pensionistico ossia il momento nel quale il pensionato
riscuoterà il primo assegno previdenziale.
Il Governo sta pensando allora di ridurre i costi allungando la finestra
a sei o sette mesi e così facendo gli anni di lavoro diventeranno per gli
uomini 43 e 4 mesi, un anno in meno invece per le donne lavoratrici
Il Governo si sta muovendo dopo avere preso atto della documentazione
Inps relativa ai dati trimestrali delle pensioni ( https://servizi2.inps.it/servizi/osservatoristatistici/66/o/475)
che tuttavia presentano situazioni assai diverse tra pubblico e privato.
Nei primi sei mesi del 2024, le
pensioni anticipate sono state meno di 100 mila e solo 27.962 riguardano
lavoratori e lavoratrici con età di poco inferiore ai 60 anni che in percentuale
rappresentano poco più di un quarto del totale dei pensionati.
Stiamo parlando dei lavoratori precoci e crediamo possibile un intervento
ristrettivo, anche nell’immediato futuro, per ridurre la platea, e i benefici,
degli aventi diritto.
Il lavoratore precoce, in produzione da minorenne, fino ad oggi va in
pensione con 42 anni e 10 mesi di contributi con l’attesa dei tre mesi di
finestra mobile. Il lavoro usurante riguarda essenzialmente il privato e figure
professionali che difficilmente potrebbero restare in produzione senza correre
seri rischi per la loro salute e sicurezza.
Nelle settimane scorse scrivevamo che il Governo Meloni non solo aveva
disatteso l’impegno assunto con l’elettorato (ossia modificare la Fornero) ma
andava rafforzando l’impianto di quella legge che alla opposizione dichiaravano
tanto iniqua quanto penalizzante. E allungare la durata delle finestre ci pare
un esempio lampante di questa incoerenza.
Un altro provvedimento all’orizzonte riguarda la riduzione del cuneo
fiscale estendendolo ai redditi fino a 55 mila euro ossia a quanti non
avrebbero in teoria diritto alla riduzione delle tasse che poi si ripercuoterà
negativamente sulla tenuta del welfare. Dentro un quadro populista e liberista
il motto di ridurre la pressione fiscale si ripercuote negativamente sulle
classi meno abbienti per favorire chi in teoria avrebbe potere di acquisto
sufficiente per condurre una vita dignitosa. Se si vuole ampliare la platea dei
beneficiari della riduzione delle tasse alla fine a pagare sarà il nostro
welfare da cui dipende la sopravvivenza dei ceti medio bassi e questa
operazione alla fine determinerà il potenziamento di sanità e previdenza
integrativa mantenendo per altro i salari al di sotto del potere di acquisto.
La manovra allo studio dei tecnici e del Governo prevede poi ulteriori
sgravi fiscali per chi assumerà personale, ci viene il dubbio che l’ultimo dei
pensieri sia quello di assicurare contratti stabili, full time e a tempo
indeterminato.
Se poi dovesse andare in porto l’idea di abrogare il pensionamento
automatico a 65 anni (per chi ha versato 42 anni e 10 mesi di contributi)
o 67 anni, l’uscita dal mondo del lavoro potrebbe avvenire anche oltre i 70
anni facendo leva sulla miseria dell’assegno previdenziale.
Questa è l’ipotesi al vaglio del Governo per i dipendenti della PA
prevedendo da subito la fine di quel requisito che prevede la pensione al
momento di raggiungere i requisiti pensionistici previsti dalle norme
attualmente vigenti che impongono ai pubblici l’uscita obbligatoria dal lavoro
al raggiungimento di 67 anni, tra poco 68, di età.
L’idea è quella di lasciare libertà di scelta al personale della PA
sapendo che l’attuazione del sistema di calcolo della pensione con il sistema
contributivo determina oggi la perdita di oltre il 30 per cento rispetto
all’ultimo stipendio e in prospettiva la rimessa economica dovrebbe superare il
40 per cento.
Questo stratagemma sarà utile a ridurre sensibilmente le uscite dalla Pubblica Amministrazione senza per altro investire nella formazione di nuovo personale. Un provvedimento all’orizzonte che si coniuga con quella idea che nel settore pubblico si lavori poco e male ovviamente vendendo il tutto come necessità per erogare i servizi alla cittadinanza
Il nostro Paese per decenni non ha investito nella PA al contrario di altri paesi Ue, si sono depotenziati i servizi, manca il personale (soprattutto in ambito sanitario), si sono esternalizzati servizi a costi decisamente elevati e non convenienti (anche se il personale in appalto continua a percepire salari da fame).
E’ risaputo da tempo che entro il 2039 mancherà circa un milione di dipendenti proprio a causa dei pensionamenti, allora invece di porre fine ai tetti di spesa in materia di personale (e in quel caso sarebbero dolori con la Comunità europea) si sceglie di prolungare il lavoro per chi è già in servizio sapendo che con le attuali regole sarà impossibile assumere quasi 850 mila dipendenti nei quattro comparti della PA da qui ai prossimi 5 anni.
Fonte foto: CUB (da Google)