Sulle
pagine agostane dei giornali economici viene dedicato ampio spazio
alle imprese militari, ai loro fatturati e successi in borsa come
volano alla ripresa dell’economia. Ma ancora una volta, come avvenuto
nei decenni scorsi, la ripresa occupazionale passa attraverso i piani
di guerra, alla produzione di nuovi sistemi di arma e di tecnologie
dual use magnificando gli effetti positivi sull’occupazione.
Se
confrontassimo i dati di borsa, gli utili azionari e i dividendi tra
gli azionisti e i posti di lavoro creati il bilancio sarebbe assai
meno lusinghiero tenuto conto che in molte aziende produzioni civili
sono state progressivamente abbandonate impiegando le maestranze
nella produzione di nuovi sistemi di arma e con la ricerca
indirizzata a fini di guerra e a tecnologie duali.
Dopo la
decisione Ue di accrescere le spese militari, di riprendere con
vigore le missioni internazionali nei paesi nevralgici anche per il
controllo delle vene energetiche e dei prodotti del sottosuolo, in
piena estate è stato dato grande impulso alla piattaforma di Difesa
comune per i cieli europei presentando il programma Eurofighter
Typhoon come modello da seguire per il rilancio della collaborazione
industriale europea. La piattaforma è nata per iniziativa di quattro
nazioni (Germania, Regno Unito, Italia e Spagna) al fine di costruire
aerei da combattimento di ultima generazione e competere con i
prodotti statunitensi . Attorno alle imprese di guerra si muove
pertanto la strategia industriale del vecchio continente evitando di
parlare di tutti i posti di lavoro perduti proprio a causa della
guerra e del rincaro dei prodotti energetici
E come
ormai sempre accade si maschera l’operazione con il grandioso
progetto di costruire un nuovo
ecosistema industriale interdipendente e altamente specializzato.
I progetti
di ricerca sono sempre supportati da studi cosiddetti indipendenti
salvo poi scoprire che le analisi non sono super partes, il
collegamento tra Fondazoni, centri studi, ricerca universitaria e
imprese di armi non è mai diretto ma si avvale di finanziamenti
apparentemente neutri. E per invogliare la partecipazione attiva
dell’ambiente accademico si presentano gli effetti benefici della
ricerca in ambito militare con risorse economiche aggiuntive
assicurate ad alcuni atenei o facoltà universitarie, attraverso
stages e borse di studio verso “gli studenti meritevoli”.
Altro argomento da trattare riguarda le cosiddette entrate fiscali
per paesi che tagliano le risorse al welfare, alla istruzione e alla
sanità ma sono pronti a scommettere sui benefici derivanti dalla
produzione di nuovi sistemi di arma oltre a sbandierare la creazione
di migliaia di posti di lavoro.
Ora le
obiezioni potrebbero essere innumerevoli, ad esempio ricordare che
molte aziende nel corso degli anni hanno progressivamente smantellato
la produzione ad uso civile e annotando che i nuovi aerei da guerra
dovrebbero trovare degli acquirenti il che presuppone un ricorso
costante al conflitto bellico come soluzione dei problemi
internazionali. In questa narrazione a senso unico conta invece
magnificare l’aumento del Pil derivante dalla produzione di armi
senza mai evidenziare i costi sociali e umani pagati per la tenuta
del sistema di produzione.
E sono
argomenti banali che tuttavia sfuggono alla umana comprensione. del
resto, è sufficiente indirizzare i motori di ricerca verso una
tacita accettazione del ricorso alla guerra come leva indispensabile
per la tenuta economica, fiscale e occupazionale del vecchio
continente. Una sorta di neo-keynesismo di guerra già attuato negli
Usa dove proprio in queste settimane sono decine di migliaia i posti
perduti nella produzione industriale con la dismissione o il
ridimensionamento di interi cicli produttivi, di aziende giudicate
competitive e innovative fino a pochissimi anni or sono.
All’ombra della guerra prosegue la narrazione autoreferenziale di un intero sistema che ormai si fa vanto della brutale uccisione di innocenti e della devastazione di intere aree geografiche con conseguenze sull’ambiente devastanti.