Kamala Harris ha fatto
un passo in avanti, Biden un passo indietro. In questo gioco delle parti, la
coordinazione è il segno della manipolazione. Il passo di danza tra presidente
e vicepresidente è solo uno spostamento tattico, affinchè appaia al mondo degli
aggiogati che tutto cambia, ma in realtà sappiamo che il “cambio” è solo
conservazione dei poteri e delle oligarchie. La tattica è cambiare maschera, in
modo che non si veda che i protagonisti sono i medesimi di sempre. Kamala
Harris è stata vicepresidente mediocre e poco popolare tra gaffes e risate
smodate. Sempre all’interno del cono d’ombra di Biden non ha mai ricevuto le simpatie della stampa,
all’improvviso con il ritiro di Biden è divenuta una potenziale presidente
“monumentale” come l’ha definita un’atleta, a cui si aggiungono i favori di
cantanti “notoriamente esperti di politica e impegnati socialmente”. La
macchina elettorale è capace di “ricreare” i suoi candidati. I giornali la
trasformano nella “ragazzaccia indipendente” che può mutare le sorti delle
elezioni, figlia di immigrati e che rappresenta le monoranze. Gli Obama hanno
benedetto la candidatura, per cui è la prescelta. Le virtù di Kamala Harris, sconosciute
fino a ieri, sono ora esaltate e omaggiate. Nello spazio di un mattino il mondo
mainstream liberal di concerto lavora
per cambiarne l’immagine e renderla votabile pescando voti potenziali tra le
donne e gli esclusi. L’ingegneria mediatica è dunque iniziata. Gli Stati Uniti
sono lo Stato Hollywood, la democrazia è un immenso teatro con i suoi attori e
con i suoi elettori- spettatori: la realtà è stata sostituita dall’artificio.
Il principio di
derealizzazione è sostenuto da attori,
cantanti e atleti che trasformano gli Stati Uniti in un immenso palcoscenico.
Muore la realtà-verità, al suo posto regna la finzione sostenuta dalle lobby.
Ad un esame minimo il mito Kamala Harris mostra le sue falle. In realtà la
vicepresidente è parte integrante del sistema. Il padre afroamercano era
economista, la madre di origini indiane un’oncologa. La Harris ha studiato in
università prestigiose (Howard), pertanto non rappresenta la mobilità sociale
ma l’immobilità. È il potere che si autoriproduce ed
usa una donna di origine afroamericane per presentarsi come eguaglitario; i
comitati elettorali puntano sulla vicepresidente, in quanto è parte delle
oligarchie e sarà in continuità con Biden. È
una donna, per cui nel clima di femminismo isterico, sicuramente i critici
saranno tacciati di maschilismo e di machismo, essere donna in questo momento storico,
significa avere uno scudo di genere
indiscutibile. Alla Prima Presidente donna tutto sarà perdonato e niente sarà
risparmiato ai suoi critici colpevoli di “patriarcato”.
Le gaffes sono state dimenticate e
sono scomparse dai media, l’immagine della Harris è ora immacolata. Le gaffes
non sono segno di incompetenza o di stress emotivo come hanno voluto farci
credere, esse denunciano la distanza
dalla realtà sociale e materiale delle oligarchie. Biden e la Harris abituati a
recitare il copione scritto dai finanziatori delle campagne elettorali e a vivere in un bozzolo di privilegio
scandaloso non pensano ciò che dicono e non hanno autonomia politica, pertanto
le gaffes sono il sintomo di una politica che non si lascia toccare dalle
realtà sociale, pertanto i “protagonisti
cadono” così in affermazioni “sintomo della patologia tecnocratica in
corso”. Giornali e media schierati a destra o a sinistra le
usano per le loro battaglie ideologiche senza svelare la malattia in corso. Non è deficit intellettivo ma
deficit di realtà. Il dramma è che il suddito globale medio ora associa la Harris
agli extracomunitari che approdano in Europa e probabilmente pensano che negli
Stati Uniti sia possibile la mobilità sociale da noi congelata. Nel suo viaggio
in Guatemala e in Messico la vicepresidente ha utilizzato parole ambigue e non
certo rassicuranti per coloro che vorrebbero emigrare negli Stati Uniti.
Dovremmo uscire dal tifo da stadio Trump
– K. Harris per tornare noi stessi nella realtà e comprendere che il sistema
usa alcuni dogmi del nostro tempo, affinchè il potere resti inalterato dando
l’impressione che tutto cambi. Tommasi di Lampedusa nel Gattopardo ci ha insegnato una massima eterna finchè dura:
“Tutto cambia, perché nulla cambi”.
In realtà tutto può cambiare, se si esce dalla logica da stadio globale, in cui siamo caduti. Non abbiamo alternative per salvarci dall’abisso delle guerre che pericolosamente incombono, dobbiamo riconquistare verità e complessità senza le quali continueremo a vivere in una distopica Hollywood quodidiana nella quale l’intelligenza dei singoli è resa prodotto artificiale dalla menzogna capitalistica. Vi è solo un modo per uscire da tale stato di prostrazione: congedarsi dal capitalismo a stelle e strisce, che ha sostituito la democrazia progressiva con il capitalismo totale. Non ci sono i fascisti con i manganelli alle porte, ma la tecnocrazia capitalistica che produce verità e menzogne, ed essa è tra di noi. Si tratta di un nuovo genere di dominio che rende invisibili le contraddizioni e i conflitti e li ammanta con “inclusive verità” che sono menzogne; è sufficiente grattare la superficie di ciò che luccica per confrontarsi con la realtà. Il gesto della parola che ricerca è stato neutralizzato dalla tecnocrazia e dal potere che esalta la libertà lasca e narcisistica con cui si congela lo sguardo sul mondo.
Fonte foto: ANSA (da Google)