Uno studio conferma il crollo del potere di
acquisto e la crisi del sistema produttivo italico
Da
un recente studio (ndr che riportiamo sotto) si evince che gli stipendi medi
italiani sono in continua discesa nei 30 Paesi dell’OCSE, trattasi di dati
“corretti per la parità di potere d’acquisto (PPP)”. Le statistiche tengono
quindi conto delle differenze tra i paesi sia rispetto al costo della vita che
all’inflazione.
Negli
ultimi 40 anni i salari italiani hanno perso potere di acquisto e a confronto
con gli altri paesi Ocse risultano in continua regressione. Le cifre vanno
ponderate bene perché in numerosi paesi il costo della vita è decisamente
maggiore rispetto all’area mediterranea e occorre guardare ai salari reali. Ma
se leggiamo bene, tenendo conto della differente inflazione e del costo della
vita, la perdita di posizioni dei salari italiani è evidente. Negli ultimi
dieci anni la busta paga degli italiani ha perso in media 5.000 euro ma al
contempo sono cresciute le disuguaglianze e le perdite del potere di acquisto
riguardano per lo più i redditi medio bassi.
1,6
milioni di italiani presentano un reddito annuo lordo superiore a 60.000 euro
ma sono ben 22,7 milioni quelli inferiori ai 20.000 euro, una cifra poi
non molto superiore alla cosiddetta soglia di povertà specie se in presenza di
famiglie monoreddito e con figli a carico. In grande sofferenza sono proprio le famiglie
numerose ma anche i milioni di lavoratori dipendenti da cooperative e ditte in
appalto e subappalto, segnali preoccupanti arrivano perfino dal Pubblico
impiego in particolare dagli enti locali tradizionale fanalino di coda, quanto
a retribuzioni, della Pa. Su 40,5 milioni
di contribuenti, il 4% dichiara più di 2.850 euro netti al mese, mentre il 56%
dichiara meno di 1.300 euro netti al mese. Aumentano, sono ormai circa 40 mila
i percettori di redditi elevati, quelli che dichiarano un reddito annuo
lordo medio superiore a 300.000 euro
La
situazione è decisamente peggiorata dopo la pandemia, secondo Oxfam, nel 2019, il
20% più ricco in Italia detiene quasi il 70% della ricchezza totale in Italia,
mentre il 20% più povero circa l’1,3%.Sono quindi cresciute le
disuguaglianze salariali e sociali ma al contempo la perdita del potere di
acquisto riguarda quasi l’intera platea dei salariati eccezion fatta per la
esigua minoranza dei managers e dirigenti.
Le
politiche di austerità salariale intraprese per decenni hanno avuto
ripercussioni negative soprattutto nei paesi economicamente più deboli che poi
sono quelli dove i salari perdono maggiore potere di acquisto.
L’idea
che contenendo le dinamiche salariali e la inflazione l’economia italiana
potesse uscire dalla sua crisi si è rivelata completamente errata come pensare
che i processi di esternalizzazione e privatizzazione avrebbero alla fine
aggiunto competitività al sistema produttivo.
Anche le politiche di riduzione delle tasse, gli sgravi fiscali alle imprese e l’abbattimento del cuneo fiscale sono state scelte alla lunga deboli e incapaci tanto di rilanciare il sistema produttivo quanto di salvaguardare i salari italiani. I risultati eloquenti sono anche dati da 5,6 milioni di italiani che vivono in condizioni di povertà assoluta e un numero assai maggiore ridotto alla povertà relativa con continue privazioni per arrivare in fondo al mese, privazioni che si traducono nella rinuncia a curarsi, a sottoporsi a visite e terapie sanitarie, alla impossibilità di mantenere un figlio agli studi universitari. Il paese uscito dalla pandemia scopre di essere decisamente più povero e con una perdita sensibile di potere di acquisto che riguarda ormai non solo i salariati ma anche i pensionati. E le ricette individuate per combattere questa crisi si sono dimostrate fallimentari perché mosse da interessi antitetici a quelli delle classi popolari che escono dagli anni di austerità con le ossa rotte. E per chiudere altro aspetto dirimente è dato dalla crescita delle disparità economiche e sociali tra le Regioni, l’arrivo della autonomia differenziata andrà acuendo queste disuguaglianze allargando ulteriormente il divario tra l’Italia e i paesi Ocse.