Una compagnia di spettri si aggira per l’Europa odierna, ma
a capitanarla non è di certo una larva in fez e camicia nera, anche se qualche
politicante e schiere di imbonitori mediatici sostengono allarmati (rectius:
allarmisti) il contrario.
Vediamo di essere più precisi: un nuovo autoritarismo si sta
per davvero affermando, ed anzi a livello continentale è già dominante, ma non
si identifica con i gruppuscoli di giovinastri nostalgici che marciano
nerovestiti nelle vie di un borgo laziale e nemmeno con i quadri intermedi di
un partito che è la versione 2.0 del MSI di Almirante. Che i meno accorti,
cresciuti con quei miti, si lascino ogni tanto sfuggire un saluto romano o un Sieg
Heil! è abbastanza scontato, così come non deve sorprendere che questo o
quel “federale” di lungo corso sia restio a pronunciare un’abiura che
striderebbe peraltro con lo spirito dei tempi. Ma come? – potrebbe ribattere il
caporione di turno all’intervistatore beneducato e democratico – non
siamo tutti d’accordo nel sostenere l’eroica battaglia del reggimento Azov, che
la sua “fede” la esibisce con fierezza, e nel condannare il mostruoso comunismo
sovietico che ha prodotto l’aggressore Putin? Non concordiamo sul fatto che il
nemico sono i barbari orientali, che la NATO è un presidio di libertà e che
Israele va difeso, costi quel che costi? Non abbiamo gioito insieme per la
liberazione di quei quattro ostaggi, scrollando le spalle di fronte alle
duecento vittime collaterali palestinesi? Noi stiamo dalla stessa parte, amico democratico:
è questo ciò che conta, tutto il resto è folklore.
Ecco: se il post-missino medio muovesse oggidì una siffatta
obiezione a chi, da alfiere del mainstream neoliberale, ostenta
raccapriccio per certi riti ed atteggiamenti, dovremmo a malincuore riconoscere
che il ragionamento non fa una piega: oggetto di quotidiane reprimende
retoriche, che sono a loro volta folklore, il fascismo lato sensu inteso
risulta ormai nei fatti sdoganato da un sistema che tutt’al più gli chiede un
minimo di compostezza e buone maniere in società. Persino in Italia, che della
versione originale è stata la culla, la conventio ad excludendum non
vale più: prima ancora dei successi elettorali di FdI attesta un tanto il
formidabile assist offerto tre anni fa dall’establishment a un’incredula
Giorgia Meloni, che assieme all’esclusiva dell’opposizione ricevette a
gratis l’opportunità di presentarsi, una volta caduto Draghi, come l’unica
alternativa ai partiti della grande ammucchiata. Penso non si sia trattato di
una colposa sottovalutazione, quanto piuttosto di una scelta ponderata: chi
meglio dei “neri” sa coniugare classismo e populismo, promesse magniloquenti e
pessime pratiche, proclami sovranisti e intelligenza con lo straniero? Cinismo
e pugno duro sono doti apprezzate dai suggeritori d’oltreconfine (e pure dalle
lobby nostrane) che, in caso di deviazioni, possono estrarre dalla manica
l’asso di un passato biasimevole e antidemocratico: i postfascisti sono perennemente
sotto esame, e inequivocabili segnali in codice – da ultimo l’umiliazione
inflitta alla Meloni a Bruxelles, ma anche scandali e rivelazioni
giornalistiche fanno gioco – servono a rammentar loro che la libertà d’azione è
molto, ma molto condizionata e che, una volta montata, la ruota di scorta
obbedisce al volante.
Ha il sapore dell’ammonimento anche la levata di scudi
politico-mediatica contro il RN di Marine Le Pen, vincitore del primo turno
delle elezioni francesi: la prospettiva di un Paese più autorevole e meno
sottomesso dell’Italia condannato medio tempore all’ingovernabilità
sembra non dispiacere all’élite atlantica, comunque garantita dalla presidenza
dello screditato Macron – la Le Pen, d’altra parte, ha fiutato il vento e già
provveduto ad ammorbidire certe posizioni “eretiche” sull’Unione Europea,
l’appartenenza alla NATO e la guerra in Ucraina. Dovesse dopotutto trionfare
assisteremo – c’è da scommetterci – a un progressivo processo di
“melonizzazione”, anche se il maggiore prestigio internazionale goduto dalla
République frutterà una più ampia autonomia decisionale e il servo encomio non
sarà preteso. Resta il caso di AfD in Germania, ostracizzata non perché
“nazista” (altrimenti l’Ucraina sarebbe già stata abbandonata a se stessa), ma
perché contraria, almeno a parole, alle politiche aggressive NATO/UE e
favorevole a riappacificarsi con la Russia. La Repubblica Federale è tra i
Paesi occidentali quello maggiormente penalizzato dalla guerra in corso: al
tracollo economico si sono aggiunte ripetute mortificazioni, la più grave delle
quali è stata il sabotaggio da parte degli “alleati”-padroni del gasdotto North
Stream. La classe dirigente tedesca ha finora ingoiato squittendo tutti i
rospi, palesando la debolezza strutturale di uno Stato che, al pari
dell’Italia, è a sovranità limitata. Ipotizziamo che Alternative für
Deutschland trionfi alle prossime elezioni e cerchi effettivamente di
attuare i suoi propositi: allo stato attuale mancano del tutto i presupposti
per un revanscismo stile Anni Trenta, visto che la Germania del XXI secolo è
multietnica, occidentalizzata nel profondo e ospita un gran numero di basi
militari americane. Scholz è un nanerottolo politico, ma anche l’osannata
Merkel dovette piegarsi ai diktat giunti da oltreoceano (si vedano le tardive
ammissioni sulla natura truffaldina degli Accordi di Minsk e, ancor prima, la
mancata reazione alle manovre della CIA a Kiev). L’unico “destro”
controcorrente è di fatto l’ungherese Viktor Orban, forse per calcolo, forse
perché la nazione che governa è marginale e lui può dunque permettersi di
curarne gli interessi.
La relativa incapacità di incidere dell’estrema destra, che
la condanna a un ruolo gregario, non esclude tuttavia il rischio di una svolta
autoritaria, peraltro già in atto. Fascismo e nazismo sono specifici fenomeni
consegnati alla Storia che però, al netto di truci “aspirazioni” legate a un
particolare contesto e a coreografie difficilmente riproponibili su vasta
scala, si fondano su categorie che potremmo definire atemporali. Il regime
mussoliniano e i suoi imitatori furono essenzialmente autoritarismi classisti,
votati cioè a salvaguardare il predominio dei ceti padronali in un’ottica di
mutuo supporto; espansionisti e bellicosi (per il precursore Marinetti “la
guerra” era la “sola igiene del mondo”); smaccatamente razzisti; tesi al
controllo assoluto dell’informazione e alla repressione di ogni forma di
dissenso. I campi di sterminio nazisti sono una conseguenza abnorme di
questo atteggiamento mentale, le aggressioni militari, invece, qualcosa di
assolutamente prevedibile tenuto conto delle premesse ideologiche.
Ebbene, l’Occidente guidato dagli USA sembra aver fatto
proprio quel modello: tutela gli interessi dei potentati economico-finanziari a
detrimento dei cittadini declassati a sudditi (l’esempio greco è illuminante!);
punta a controllare ogni quadrante del mondo ricorrendo a politiche predatorie,
all’intimidazione e spesso e volentieri a devastanti attacchi militari che
destabilizzano intere regioni e mietono un’infinità di vittime; dopo aver
individuato i nemici da sopprimere conia per loro e i rispettivi popoli epiteti
infamanti e criptorazzisti (anche se la discriminante non è più la “razza”, ma
l’adesione ai “principi democratici”: cambia poco, siamo pur sempre “il
giardino circondato dalla giungla”, per dirla con l’atlantosocialista Borrell);
impone alle masse a colpi di slogan una visione del mondo che, seppur
posticcia, non ammette critiche né distinguo. Certo, a singoli predicatori
senza seguito è ancora permesso proferire “eresie”, ma solo perché le loro voci
si perdono nella torre di babele social – e l’acuirsi dell’emergenza, sanitaria
o bellica che sia, restringe comunque anche questi fittizi spazi di “libertà”.
Il “fascismo neoliberale” preferisce l’elegante doppiopetto
ad orbace e camicia bruna; quanto alle aule parlamentari (si pensi a quella di
Strasburgo, dove si inneggia alla superiorità morale dell’Occidente senza
decidere in concreto alcunché), sono oramai ridotte a un bivacco di affaristi,
procuratori e perdigiorno – è per questo che larghi strati della popolazione
rinunziano stabilmente al diritto di voto.
D’altro canto, la Storia recente ci insegna che l’ostinata
avversione ai fascismi vantata dalle potenze sedicenti democratiche appartiene
alla mitologia: Benito Mussolini fu stimato e corteggiato a lungo
dall’establishment angloamericano, che pure ben conosceva i misfatti del suo
regime (omicidio Matteotti in primis), e nel dopoguerra la NATO non ebbe
remore ad accogliere fra i suoi membri Portogallo e Spagna, cioè altrettante
dittature reazionarie e fascistoidi. Gli americani, dal canto loro, ispirarono
colpi di stato “fascisti” in mezzo mondo, sostenendo delinquenti come Pinochet
e – finché fece comodo – la Giunta militare argentina, Noriega e Saddam
Hussein. La Seconda Guerra Mondiale non fu una lotta fra il Bene e il Male,
come viene dipinta dalla propaganda (che “dimentica” il mancato e pur promesso
ausilio alla Polonia invasa nel ’39), bensì un normale scontro tra
potenze determinate a spartirsi il mondo. Furono commesse atrocità da ambo le
parti: il bombardamento terroristico di Dresda e l’atomica “ammonitrice” su
Nagasaki furono crimini contro l’umanità rimasti impuniti. The winner takes
it all.
Ben meno ambigua e accondiscendente fu la condotta tenuta
nei confronti del comunismo, elevato a nemico mortale e sempre spietatamente
combattuto: l’Unione Sovietica appena nata fu aggredita da una coalizione
internazionale che – a proposito di ipocrisia nominalistica – battezzò
l’operazione “cordone sanitario” e l’ostilità non si attenuò con il passare del
tempo, anche se esigenze contingenti condussero a un’innaturale alleanza contro
Hitler che non sopravvisse alla fine del conflitto. Che gli statunitensi
intendessero nel primo dopoguerra atomizzare l’URSS è cosa nota, anche se poco
pubblicizzata: per fortuna i sovietici riuscirono a replicare la bomba,
stornando la minaccia. Andò peggio a parecchi regimi di ispirazione marxista (e
pure al guatemalteco Arbenz, che marxista non lo era affatto) che subirono le
attenzioni “democratiche” di USA e servitù atlantica, oltre che a numerosissimi
cittadini processati negli States per reati di opinione.
Insomma, il liberalcapitalismo occidentale e il fascismo
nelle sue varie declinazioni sono parenti stretti, anche se la somiglianza è
oggigiorno più evidente di quanto non fosse in passato: perciò – e mi spiace
per chi finge di non accorgersene – un Macron vale una Le Pen e un Draghi una
Meloni, fermo restando che il primo e il terzo sono meglio inseriti nel sistema.
Detto ciò, non minimizzo affatto i rigurgiti schiettamente
fascist(eggiant)i avvertibili nel nostro Paese e in mezza Europa, essendo ben
consapevole che un’agguerrita manovalanza mobilitabile rappresenta per il
regime atlantista un’eccellente risorsa. La pedina non va però confusa con il
giocatore: cinquecento anni fa Xitocencatl, condottiero tlaxcalano, attaccò
nottetempo con le sue truppe gli spagnoli di Cortés, che ebbero però facilmente
la meglio sugli assalitori anche grazie all’impiego di feroci e ben
addestrati cani da guerra.
Asserire che la minaccia autoritaria è oggi impersonata dai “manipoli” di Acca Larenzia o dalle curve nord equivale a sostenere che la Repubblica di Tlaxcala si arrese ai mastini.
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