Pochi giorni fa mi è capitato di vedere una commedia francese dal titolo “la famiglia Belier” che narra di una ragazza sedicenne, figlia di genitori sordomuti che gestiscono una fattoria in un paese nei pressi di Parigi.
La ragazza, che a differenza dei genitori e del fratello ci sente e comunica perfettamente, frequenta la scuola del paese ma al contempo lavora anche nella fattoria dove è di grande aiuto ai genitori, specie nelle relazioni con gli altri, il pubblico, i clienti, i fornitori, e via discorrendo.
Un bel giorno però, durante l’ora di canto, il suo insegnante di musica, “scoglionato” ma simpatico, con ambizioni frustrate come tanti altri suoi colleghi e “relegato” (pensa lui…) a insegnare in una modesta scuola di campagna, scoprirà il vero talento della ragazza, cioè la sua vocazione per il canto. La fanciulla è infatti un soprano in erba ma non sa ancora di esserlo e quando durante una delle rituali e anche un po’ stanche lezioni di canto la sua voce sublime emergerà improvvisa e imprevista dal coro tra lo stupore dei suoi compagni e soprattutto del professore, lei fuggirà e si rinchiuderà nel bagno sconvolta, come spaventata da questa scoperta destinata a cambiare la sua vita.
Il maestro di musica, a quel punto, che attraverso di lei riscopre anch’egli i suoi talenti sopiti e frustrati ma anche il senso del suo lavoro e del suo ruolo di insegnante (che va ben oltre la mera didattica), la spronerà ad impegnarsi nel canto e a partecipare ad una audizione per entrare in un importante scuola di canto di Parigi. Naturalmente tutto ciò avrebbe richiesto un duro lavoro di preparazione che egli naturalmente si offre di fare a titolo puramente volontario per preparare la ragazza alla prova, ma lei è riluttante perché divisa fra la sua nuova passione e gli obblighi nei confronti della famiglia, al principio contraria, e che invece alla fine la comprenderà e la sosterrà, con forza e con amore, nell’intraprendere il suo nuovo cammino.
Il film, anche se un po’ (troppo…) “buonista” e a lieto fine (la realtà, purtroppo, è spesso un’altra e molto più amara…) ha tante implicazioni che meriterebbero di essere affrontate, a cominciare dalla condizione complessiva dei portatori di handicap e di tutta l’infinita gamma di problematicità che questa condizione comporta non solo per loro ma anche per i loro familiari e amici. E poi, naturalmente, la condizione giovanile, il ruolo della scuola, la relazione fra adolescenti e fra genitori e figli, e tanti altri ancora.
In realtà, però, il tema centrale è un altro. La ragazza, che quando esce da scuola passa il suo tempo a mungere vacche e ad accatastare balle di fieno, scopre del tutto involontariamente il suo talento. Il contesto tenderebbe inizialmente a frustrare la sua vocazione ma alla fine, grazie proprio a quello stesso contesto (il suo insegnante, le sue amiche e i suoi amici, la sua famiglia e la comunità locale che la sosterranno), riuscirà a superare alla grande la prova di ammissione a quella importante scuola di canto della capitale che le spalancherà da lì a breve una nuova prospettiva di vita.
Il film, come abbiamo detto, è una commedia a lieto, anzi, a lietissimo fine, e tale vuole essere nelle intenzioni del regista. E questo è il suo limite, dal mio punto di vista. Ma per chi vuole leggere, come il sottoscritto, dietro le righe, la tematica affrontata va ben oltre la dimensione affettiva (sia pure importante, sia chiaro…) e un poco romantica con cui viene trattata.
Astraendoci infatti dal contesto un po’ bucolico e molto “umanizzato” del paese di campagna dove viene ambientata la storia (ammesso che esistano ancora simili contesti nella società dell’ipercapitalismo), la riflessione che mi è sorta spontanea è la seguente: ci raccontano che la competizione capitalista, con tutte le sue implicazioni, cioè la concorrenza spietata, l’individualismo sfrenato e la corsa affannosa al successo, all’accumulazione di beni e denaro e all’affermazione sociale, favorirebbe, più di qualsiasi altro contesto, l’emergere dell proprio talento e delle proprie vocazioni. In poche parole il famoso “daimon” di socratica memoria, ciò per cui saremmo nati e saremmo al mondo.
Ma le cose stanno veramente in questo modo?
Il film, pur nel suo approccio “buonista”, sembrerebbe volerci dare un’altra interpretazione e un’altra possibile prospettiva, anche se molto probabilmente non era quella l’intenzione dell’autore.
Pur dopo molte difficoltà e e resistenze di vario genere, sono infatti proprio la solidarietà e l’amore del maestro, della famiglia e della comunità che aiutano la ragazza a far emergere il proprio talento e ad affermarsi – nel senso di realizzarsi, cioè di sviluppare il proprio “Se” più profondo – e non la competizione sfrenata che il più delle volte ingenera solo stress, angoscia, ansia da prestazione e frustrazione, qualora l’obiettivo, come molto spesso succede e per le più disparate ragioni, non venga raggiunto. E sappiamo che ciò accade nella grande maggioranza dei casi. Del resto la logica che sta alle fondamenta di questo modo di intendere il mondo e la vita è quella “dell’uno su mille ce la fa”, come recita una vecchia canzone. Ammesso anche che fossero dieci o cento o anche più a “farcela”, la sostanza del discorso non muterebbe.
Ma la domanda da porci è anche un’altra: è proprio vero che è la competizione capitalista che ci aiuta a riconoscere, a far emergere e a ottimizzare i nostri talenti?
Anche qui i dubbi sono molti, per quanto mi riguarda. La necessità della competizione e dell’affermazione sociale, costi quel che costi, del far parte della schiera dei vincenti e non di quella dei perdenti o peggio dei falliti (nel film è emblematica la figura del professore di musica che si considera egli stesso un fallito perché non è riuscito ad entrare in questa o in quell’accademia di prestigio e si è “ridotto” ad insegnare in uno sperduto liceo di provincia a figli di contadini e bottegai…), condiziona infatti pesantemente la vita di tutti noi e il più delle volte ci fa imboccare delle strade che in realtà non sono le nostre, ci obbliga in qualche modo a fare delle scelte che ci allontanano proprio da quelle che sono le nostre vocazioni, le nostre più profonde e autentiche passioni. Ed è così che invece di diventare dei musicisti, degli archeologi o degli entomologi, oppure anche degli apicoltori o dei viticoltori, ci ritroviamo a fare, se e quando ci va bene, i consulenti in marketing e comunicazione o finanziari (cioè dei venditori…) oppure, se siamo veramente “tosti” e abbiamo un bel po’ di pelo sullo stomaco e una gran voglia di salire i gradini della scala sociale, i manager in qualche azienda, magari lavorando dieci o dodici ore al giorno, se è il caso anche aiutandoci con l’assunzione di sostanze varie, dormendo quattro ore per notte, e aguzzando ciò che resta del nostro ingegno e della nostra creatività per fare le scarpe a qualche collega che ha le nostre stesse aspirazioni.
Salvo poi cadere in depressione qualora non riuscissimo a raggiungere i “nostri” obiettivi. E naturalmente anche questo accade e anzi deve accadere molto spesso, perché tutto questo complesso ma in fondo anche semplice (e, mi permetto di aggiungere, rozzo, primitivo e impoverente) meccanismo si fonda sul fatto che c’è chi ce la fa e chi non ce la fa. Se tutti ce la facessimo il tutto non avrebbe più senso di essere e ci troveremmo a vivere in un’altra dimensione esistenziale,ovviamente tutta ancora da scoprire e da inventare.
Tutti gli altri che per una ragione o per l’altra (di natura sociale, ambientale o personale) sono impossibilitati a prendere parte alla (folle) corsa, finiscono ad ingrossare le fila degli “invisibili”, degli “spettatori” del “successo” (vero o presunto) altrui, condannati ad un’ esistenza grigia e subalterna, trascorsa tra le quattro mura di un ufficio, di una fabbrica o di qualsiasi altro luogo di “detenzione” sociale. La funzione di questi ultimi, la grande maggioranza, oltre a quella di consumare, è di alimentare il meccanismo proprio in virtù della loro stessa esistenza di subordinati. “Vincenti” e “perdenti” diventano quindi come due specchi che riflettono vicendevolmente la propria immagine.
Ed è così che talenti, energie, vocazioni, passioni, potenzialità, emozioni, desideri, intelligenze, finiscono ingoiati e frantumati per sempre in quel grande tritacarne che è ciò che chiamiamo Mercato e competizione capitalistica, cioè la società attuale.
Ce lo spacciano come il migliore dei mondi possibile. Io, per la verità, trovo che sia, oltre che profondamente ingiusto, di una povertà esistenziale e spirituale spaventosa.