Il capitalismo perde il “pelo moderno” ma non il vizio


Pubblichiamo la relazione del Prof. Antonio Martone al decennale de L’Interferenza tenutosi lo scorso 11 Maggio.

  1. Competizione maschile e cooperazione femminile?

Una posizione oggi ricorrente nel dibattito pubblico vorrebbe l’incapacità da parte delle donne di ottenere una reale valorizzazione della propria femminilità a causa della necessità di imitare i modelli maschili.  Secondo questa posizione, molte donne avrebbero ottenuto posti di rilievo nella società soltanto sacrificando la propria femminilità. In altre parole, in nome del successo, le donne avrebbero dato spazio a ira, superbia, lussuria, competizione e magari anche, se si guarda ad alcune donne di potere contemporanee, a cinismo senza scrupoli. In pratica, trattasi proprio di quelle caratteristiche che le donne stigmatizzerebbero negli uomini. Se ciò fosse vero, assisteremmo ad un malinteso concetto di emancipazione capace di produrre una sorta di virilizzazione del femminile: una rinuncia alle proprie prerogative “naturali” – l’empatia, la relazione, la sensibilità – a favore di ruoli modellati su stereotipi maschili.  
Come rispondere a questa tesi? Intanto, dico subito che la questione della femminilità e della sua espressione è complessa e sfaccettata: non esistono prove storiche tangibili che confermino l’esistenza di una forma pura e inespressa di femminilità tale da poter emergere quando le donne non imitino gli uomini, soggettivandosi finalmente in modalità cooperative e relazionali – ciò che si considera, in maniera chiaramente sessista, mero appannaggio ontologico del femminile. Pertanto, sembra a me occorra svolgere un’analisi che non presenti metafisiche della relazionalità e dell’empatia attribuite alle donne o della cattiveria e della competizione che sarebbe invece tipica degli uomini. Per comprendere appieno la questione, è necessario offrire un quadro più completo non tanto del rapporto fra generi quanto dei processi di formazione della soggettività nel tempo del capitalismo post-industriale.

Credo dunque che tale prospettiva sia sbagliata, antistorica oltre che profondamente ideologica e cercherò di dire perché. Contestualmente, utilizzerò la critica di questa posizione per illustrare alcune delle trasformazioni avvenute a ridosso del capitalismo fra la fase moderna e quella attuale.

  • Genealogia

Nella modernità, il genere maschile era competitivo o prevaricante al fine di procurarsi privilegi pubblici e privati tali da imporsi su un genere femminile sottomesso e impossibilitato dal farsi valere? Io direi che porre la questione in questi termini costituisca un esempio di che cosa sia un’ideologia capace di distorcere la realtà. In effetti, piuttosto che di potere maschile ai danni del femminile, io credo si trattasse di una semplice questione di “divisione del lavoro” che tiene conto del dimorfismo di genere: gli uomini naturaliter “fatti” per sostenere l’impatto della guerra e del lavoro, e le donne invece per la cura e la gravidanza. Non andrebbe mai dimenticato che la guerra ha sempre costituito, purtroppo, una drammatica realtà capace di investire uomini di ogni generazione. Inoltre, erano ancor sempre gli uomini a dover sostenere perloppiù il peso del lavoro non domestico, dal momento che lavoravano nei campi, nelle fabbriche, nelle miniere e in altre professioni fisicamente gravose. In realtà, erano soltanto pochissimi gli uomini in grado di assurgere a posizioni di potere – la gran parte ne era ampiamente esclusa, poiché l’appartenenza a una determinata classe sociale, l’educazione, la razza e altri fattori determinavano la possibilità di accedere ai privilegi delle classi dominanti.

Sembrerebbe dunque – nonostante i luoghi comuni oggi diffusi dappertutto – non ci fosse alcun privilegio reale nel nascere uomini. È certo invece ci fosse una logica destinale piuttosto drammatica per i ceti inferiori che non risparmiava alcun genere, poichè gli uomini erano esposti alle durezze della vita insieme alle loro donne, vivendo magari in condizioni di indigenza o di sussistenza: è dunque piuttosto arduo decidere in maniera definitiva se la vita fosse più difficile per gli uomini o per le donne.

Tornando dunque al nostro tema, quando si osserva che le donne mancano l’obiettivo della valorizzazione della propria femminilità poiché imitano gli uomini, di quale maschile stiamo parlando? Dove dovremmo rinvenire cioè quel maschile pregno di prevaricazione e di volontà di potenza? L’ideologia attribuisce il potere al genere maschile nella sua interezza ma non considera la stragrande maggioranza degli uomini che non possedevano nulla se non – appunto – la propria prole, le proprie braccia e il proprio corpo come carne da cannone o da lavoro. Oggi stesso, del resto, nonostante una certa vulgata femminista ami pensare a quello maschile come ad un genere privilegiato, va ricordato che gli uomini sono sottoposti a grandi pressioni quotidiane tese a conformarli a standard lavorativi precisi. Spesse volte, tali standard sono durissimi ed inflessibili, oltre al fatto che risultano a rischio di incidenti – com’è dimostrato dall’altissimo numero delle morti maschili sul lavoro.

In questo quadro, allora, piuttosto che rifugiarsi nell’ideologia, per comprendere come mai il genere femminile – a partire dalle donne di potere contemporanee – sia ben lontano, nella grande maggioranza dei casi, dall’offrire esempi di empatia, cooperazione, solidarietà, sensibilità e pacifismo, piuttosto che chiamare in causa il maschile, credo sia utile porre l’accento sulle trasformazioni epocali avvenute negli ultimi decenni in Occidente – le stesse che hanno implicato una svolta decisiva nei processi di formazione dell’identità e nella determinazione di inedite modalità di divisione del lavoro.

  • Edipo ed Antiedipo

Il complesso di Edipo in Freud descrive una fase dello sviluppo psicosessuale dei bambini in cui essi manifestano desideri erotici nei confronti del genitore del sesso opposto e sentimenti di rivalità verso il genitore dello stesso sesso. La “castrazione” in questo contesto è un meccanismo simbolico attraverso il quale il bambino apprende a rinunciare ai desideri proibiti per evitare le punizioni (ad esempio, la paura di perdere l’amore dei genitori). Per Freud, questo processo è cruciale per l’integrazione delle norme sociali e culturali e per la formazione della coscienza individuale e sociale. Diversi decenni dopo Freud, Foucault, studiando le società moderne, ha affermato che tali società non sono altro che giganteschi dispositivi di disciplinamento. Secondo Foucault, scuole, ospedali, prigioni sono istituzioni che impongono una rigida “normalizzazione” ai membri della società, oltre ad escludere chi tale normalizzazione dovesse rifiutare. Pur nella loro diversità, in entrambi gli autori, pertanto, Freud e Foucault, viene sottolineano il fatto che gli individui devono conformarsi a norme sociali assai stringenti: per entrare nella società, come del resto, avevano già sottolineato i contrattualisti della prima modernità, occorre realizzare un sacrificio.

Ad opporsi frontalmente a quest’idea tipicamente moderna di disciplinamento sono stati in tanti fra i quali  vale la pena ricordare anzitutto Deleuze e Guattari. Secondo questi ultimi, le forme moderne di  disciplinamento – che siano verticali e statali o biopolitiche e governamentali – riflettono una fase della società ormai superata da forme inedite – l’opera dei due autori francesi va contestualizzata nel movimentismo post-sessantottino –  di soggettivazione che comprendono una concettualizzazione molto diversa del desiderio umano. Uno dei principali argomenti esposti in L’anti-Edipo afferma che il modello psicoanalitico freudiano, con la sua ossessione sulla famiglia, non fa altro che ridurre la complessità del desiderio, imponendogli un sistema normativo e autoritario che reprime l’energia vitale e l’individualità in vista della conformità a ruoli predeterminati e a rigide norme sociali.

Per contrastare questo paradigma, i due autori propongono allora un approccio schizoanalitico, teso a liberare l’individuo dalle catene della “normalizzazione”. La schizoanalisi non si limita alla sfera individuale ma si estende anche alla dimensione collettiva, attivandosi contro le strutture di potere istituzionalizzate, promuovendo altresì l’attivazione d’un desiderio costantemente creativo. In questa prospettiva, soggettività metamorfiche significano trasformazioni costanti di identità “nomadiche”.

  • Il polimorfismo identitario e il nuovo Capitalismo

Oltre a Deleuze e Guattari, la temperie che si è attivata nella decostruzione dei processi di disciplinamento a cui la soggettività moderna era sottoposta si compone di numerosi autori e tutti loro hanno avuto – del resto, con buone ragioni – ampio impatto. Per citarne soltanto qualcuno, Vattimo, Lyotard, Derrida si sono vigorosamente attivati per evidenziare le dinamiche attraverso le quali le identità vanno configurate come entità fluide, ontologicamente differenti da sé, plasmate dalle forze del potere e del discorso. Questi pensatori hanno incisivamente criticato le identità monolitiche e le strutture autoritarie, nonché le grandi narrazioni che hanno dominato il pensiero occidentale.

E dunque anche sulla scorta dell’importante lavoro decostruttivo portato avanti dagli autori citati, come appare il contemporaneo? Presto detto. Nel nostro tempo sembrerebbe non esista più una norma che limita ma che, nello stesso tempo, indica direzioni e permetta di appoggiarsi su una qualche “misura” identitaria.  Che cosa rimane? Rimane uno spazio storico-esistenziale complesso, ambiguo, polisemantico – in una parola, labirintico. Se la castrazione paterna rappresentava la precondizione in base alla quale il soggetto veniva introdotto nelle norme della società, nel mondo contemporaneo l’azione umana è libera di svolgersi senza trovare alcuna identificazione simbolica capace di trattenere il desiderio. Ne discende che oggi, sia il femminile, sia il maschile (e più in generale, qualsiasi soggettività) possono muoversi, anzi, sono esortati a farlo, senza alcun freno che non siano le proprie possibilità economiche.

Nella modernità edipica vigeva un senso di direzione – di cui ovviamente non si tratta di essere nostalgici – una ricerca di nuovi territori da esplorare e conquistare – ciò che chiamo il mito della Frontiera. Nel contemporaneo, invece, questi limiti diventano sfumati, ambigui, rarefatti e il senso della storia si perde in un infinito presente dove le percezioni e le identità si costruiscono e decostruiscono continuamente, in assenza di ruoli o, al limite, con ruoli flessibili. Un’identità simile – ciò che altrove ho definito identità del clic – non può che sentirsi “sballata”, precaria, mutevole, senza essenza e priva di sostanza, destinata a muoversi all’interno d’una realtà acefala, spesso grottesca, necessariamente nichilista.

In questo quadro, che cosa significa allora lo slogan che attraversa l’inconscio dell’intera visione del mondo contemporaneo: “vivi il presente?”. Tale slogan intende semplicemente che bisogna lasciare il maggiore spazio possibile allo scatenamento del desiderio. E di quale desiderio si parla se non di quello che pretende di esaurire il mondo e sé stessi, sotto la spinta del sistema capitalistico, considerando, in egual misura, cose, natura, uomini e sentimenti come beni di consumo da bruciare incessantemente?

Vivere il presente comporta l’erosione di qualsiasi identità. E infatti: l’identità di partito è cancellata da tempo; l’identità familiare è sempre più labile; quella nazionale (almeno quella italiana) è superata dalla globalizzazione; l’identità sessuale va dissolvendosi. Gli esseri umani – è questo il progetto in via di realizzazione – dovranno divenire uno spazio liscio senza alcuna asperità capace di ostacolare la presa del potere. Essi dovranno essere prevedibili sempre, costantemente aperti alla colonizzazione da parte di vecchie e nuove abitudini di consumo, docili e conformi a modelli pre-confezionati dai media, dai pubblicitari, dai format delle piattaforme elettroniche, dall’ingegneria robotica e cibernetica. In un mondo simile – già presente ma che diventerà ancor più strutturato domani -, le carte di credito e i contatori di cassa suoneranno l’estrema colonna sonora di un mondo dove gli uomini sono diventati superflui. Sentiamo distintamente questa musica anche ora, ma dobbiamo essere consapevoli che la melodia diverrà sempre più forte: la colonna sonora del nulla costituisce la marcia funebre del legame comunitario e dell’uomo così come lo abbiamo finora conosciuto. Nel nostro tempo, il valore – anche quello di un uomo – è stato quasi del tutto cancellato dal mondo. Al suo posto, è subentrato il prezzo. Tutto, quasi tutto oggi, può avere il suo corrispettivo in denaro. Di conseguenza, tutto, quasi tutto oggi, ha solo e soltanto un prezzo.

Proprio per questo, disporre di Capitale (la vera divinità di questo tempo), comporta una sensazione di salvezza mentre, al contrario, perderlo significa dannazione. Disponendo di Capitale, io sono salvo nella misura in cui una quota di mondo mi appartiene e tale appartenenza costituisce il connotato precipuo della mia identità. Se tutto questo è vero, ne consegue che in un mondo secolarizzato e post-religioso quale quello in cui viviamo, l’unica realtà sacra rimasta è il Capitale ed è soltanto rispetto a quest’ultimo che un’identità umana, altrimenti sfuggente, può riservarsi stabilità e connotati caratterizzanti.

Attraverso la produzione incessante di modelli, immagini e ideali, il capitalismo inscena ogni giorno una vera e propria “rappresentazione mitologica”, diversissima da quella che spiegava l’origine del mondo e la sua struttura fondamentale, e pure parecchio lontana da quella legata al dispositivo moderno costruito sul trinomio Dio-Patria-Famiglia, e tuttavia parimenti capace di “mitologizzare” il quotidiano.

I “miti d’oggi” – per riprendere la formula di Roland Barthes – s’impongono con forza non minore di quelli della modernità disciplinare, poiché sono dettati da celebrità, influencer, marchi e stili di vita. I miti contemporanei modellano una realtà sempre più effimera e mutevole, costituita da flussi di personaggi, immagini, simboli che si cancellano senza lasciare impronte durature nella coscienza collettiva. La velocità con cui i miti emergono e scompaiono riflette la natura stessa della società contemporanea, caratterizzata da impulsi dromologici e macchinali atti a consumare il mondo e sé stessi in maniera compulsiva.

Va notato, peraltro, che le forze politiche non fanno eccezione a questo schema – anzi, di quest’ultimo, esse rappresentano un vero e proprio archetipo. Le ideologie politiche, i leader carismatici e le promesse di cambiamento possono sì suscitare entusiasmo e fervore, ma sono ineluttabilmente destinati a svanire assai rapidamente. Il fenomeno dello stato d’eccezione eretto a condizione normale del sistema, pertanto, mette ulteriormente in discussione la stabilità e la coerenza del panorama politico, azzerando la lungimiranza, e contribuendo alla sensazione di incertezza e disillusione diffuse nella società. Tutto passa. Soltanto il meccanismo di funzionamento del sistema appare immutabile e la sua “naturalizzazione” è solo un trucco atto a far credere che l’avidità predatoria sia la legge inevitabile della natura umana.

  • La Reificazione come nuova legge del Capitale

Nel contesto della mercificazione, le persone vengono oggettivate attraverso l’iper-sessualizzazione dei media, la promozione di ideali di bellezza irrealistici e la produzione di modelli umani di successo venduti come oggetti sessuati desiderabili. In modo particolare, il corpo delle donne è commercializzato come oggetto di desiderio – venduto sia sul piano sessuale, sia come prodotto che serve a vendere altre merci. E’ chiaro che molte donne ricavano grandi vantaggi, economici e di prestigio sociale, da tutto questo e tante fra esse tendono a favorire questo sistema, spacciandolo per difesa della donna e della sua libertà. Esse giocano questa partita in modo spregiudicato, prendendosi cinicamente tutti i benefici proprio mentre ostentano patetiche pose emancipatrici. Non deve stupire che esistano donne di questa indole, proprio come esistono uomini di indole assai affine. E va detto anche che l’Occidente politicamente corretto al servizio dell’ideologia neoliberale e del tecno-capitalismo incoraggia con decisione l’emergere e il proliferare di questi modelli.

Il sentirsi “merce” implica una vulnerabilità specifica che può significare manipolazione e trattamento insensibile da parte di altri, i quali possono decidere arbitrariamente di “buttare via” l’individuo, una volta che non serva più ai propri scopi o desideri. Si tratta di un vero e proprio “territorio di scarto” che coinvolge le persone medesime: sono tanti, infatti, nel nostro contemporaneo gli ambiti sociali, i territori, gli individui, i ceti, e perfino interi paesi, esposti all’utilizzo e allo sfruttamento e, alla fine, all’abbandono.

Se ciò che sono andato dicendo finora ha qualcosa di vero, allora, se ne deduce che la capacità dispotica del contemporaneo sia decisamente più forte di quella moderna. La legge disciplinare costituiva pur sempre una norma “esterna” e dunque, in quanto tale, le si poteva in qualche modo resistere. Il potere contemporaneo, invece, viene introiettato e si sa che non esiste giudice più inflessibile del proprio despota interno.

Il capitalismo ha saputo costruire abilmente un simbolico che tutti sono chiamati ad imitare: non più basato su una legge paterna universale ma su una produzione di significato che serve gli interessi dell’oligarchia mercatistica, dei suoi sacerdoti e dei suoi chierichetti. Siamo evidentemente intrappolati in un labirinto di aspettative e desideri imposti in maniera sistemica e l’identità umana, maschile o femminile che sia, è diventata – appunto – merce fra le merci. Sia le donne, sia gli uomini sono guidati da meccanismi sottili e complessi che utilizzano – fra le altre – ideologie come il femminismo, il transumanesimo tecnofilo, il globalismo dei diritti umani e della democrazia liberale per perpetuare e consolidare un (bio)potere di formazione e di controllo della psico-sfera umana che si realizza perloppiù attraverso un’intensificazione della visione del mondo secondo cui there is no alternative to capitalism.

La reificazione degli esseri umani è divenuto del tutto onnipervasivo nel tardo capitalismo di stampo neo-liberista. Il neoliberismo – esteso ormai in maniera tale da impregnare di sé, fino ad appiattirli, tutti i raggruppamenti politici, sia di destra sia di sinistra – diffonde in maniera capillare e martellante una  propaganda fintamente libertaria volta, in realtà, a creare immagini che “producono” coscienze ed emozioni alimentando il biopotere tecnocratico. Lo stesso conflitto di genere, del resto, è attivato allo scopo preciso di frammentare e diffondere antagonismi rivendicativi, in maniera tale da disinnescare la possibile presa di coscienza –  di donne e uomini insieme – della situazione di manipolazione e di controllo a cui entrambi i generi sono sottoposti se non appartenenti alla sempre più ristretta oligarchia globalista.

In questo contesto, l’impegno nei confronti della diseducazione all’autodeterminazione democratica è evidente. E si comprende bene perché: l’avvio di processi cognitivi volti a comprendere il proprio posizionamento socio-economico potrebbe sollevare dissenso – ciò che deve essere invece deliberatamente evitato. La società tardo-capitalista si dice inclusiva ma non pone mai il problema di una reale inclusività, poiché parte dal presupposto che l’unica esclusione davvero giustificata e legittima vada esercitata contro chi non è in grado di usare con la giusta disinvoltura la carta di credito. In fondo, vale sempre lo stesso discorso: tutti siamo liberi e uguali, ma chi è seduto al posto giusto, è più libero e uguale degli altri.

Nel mondo globalizzato, le merci viaggiano liberamente ma il movimento delle persone è guardato con sospetto e, quando possibile, impedito. Sembrerebbe dunque che stiamo sperimentando un nuovo apartheid: il capitalismo richiede una forza lavoro “libera”, eppure controlla i movimenti dei popoli. Viene in evidenza qui un’altra contraddizione decisiva: libertà per il capitale, restrizioni per le persone! E quanto alla contraddizioni di sistema di cui non bisogna occuparsi, come non ricordarsi dell’immane tragedia dei morti sul lavoro la cui grande maggioranza sono uomini? Ogni anno, circa mille vite di lavoratori vengono spente solo in Italia. Queste morti dovrebbero toccare la sensibilità di tutti. Sembra invece che non riescano a provocare clamore, non suscitino scandalo mediatico, non generino marce o prime pagine comparabili alle morti che riguardano il genere femminile. Eppure, si tratta di esseri umani che non fanno ritorno a casa, i cui sogni e speranze si infrangono in fabbriche, cantieri, campi e uffici. Non vi è dubbio che ogni forma di violenza, ogni minaccia per la vita debba costituire un urlo degno di trovare ascolto nello spazio pubblico. Ma perché questa disparità di attenzione? Perché il lavoratore che perde la vita sotto il peso di macchinari non adeguati, di norme di sicurezza trascurate o di ambienti di lavoro pericolosi non attiva allo stesso modo l’indignazione pubblica? Forse gli uomini sono un genere sacrificabile? Forse dei morti sul lavoro non si parla perché altrimenti il sistema dovrebbe mettere in discussione sé stesso? Forse è più facile dividere i lavoratori in generi di appartenenza e metterli gli uni contro gli altri? Si divide orizzontamente il campo degli oppressi: in fondo, nient’altro che il vecchio e sempre valido divide et impera.

  • Il rapporto ECity/NoCity: un nuovo sguardo

Per affrontare i dilemmi di questo tempo, ritengo dovremmo anzitutto pensare all’interno d’una logica di sistema. Se adottassimo uno sguardo capace di tenere insieme la realtà sociale e la sua eterna capacità di produrre contraddizioni, noteremmo allora che non c’è alcuna distanza fra la ECity e la NoCity, e cioè fra la città elettronica, rutilante e patinata, e la NoCity, ossia la città degli scarti e degli esclusi: esse costituiscono l’una il rovescio dell’altra e non si può ammettere l’una senza doversi assumersi la responsabilità dell’esistenza dell’altra. Quanto al rapporto inestricabile di connessione sistemica fra Ecity e NoCity, allora, come ignorare che il globo è ricoperto da discariche che non si sa più come reintegrare all’interno del ciclo produttivo. È probabile che il nostro tempo, se verrà ricordato per qualcosa, sarà per la sua immane capacità di produrre spazzatura comune, tossica, nucleare, culturale. Il mondo patinato e smart della ECity, costantemente popolato da desideri di consumo sempre vivi, è destinata ad arretrare progressivamente sotto l’urto delle distese sconfinate di rifiuti eruttati dalla perversa macchina da guerra del mondo globale. Se non si provvede con rapidità e tempestività, un giorno non lontanissimo, come già annunciato da alcune grandi opere dell’arte distopica, la ECity sarà soltanto una piccola isola, precariamente vivibile, senza più alcuna possibilità di evitare di sprofondare nell’oceano di una NoCity estesa sull’intero globo terraqueo. Insomma, perifrasando un’espressione celebre di un autore che molti di noi amano, possiamo dire che uno spettro oggi si aggira per il mondo: lo spettro della discarica!

Una discarica che si concretizza in varie manifestazioni. Per esempio, un disastro ambientale che ha provocato deforestazione, inquinamento, perdita di biodiversità e aumento esponenziale delle emissioni di gas serra. Inoltre, un’esplosione senza precedenti di disuguaglianze, ossia crescente concentrazione di ricchezza e possibilità di vita, istruzione e cura, nelle mani di un piccolo segmento della popolazione globale. Legato a queste due profonde contraddizioni, infine, è la lotta geopolitica per le risorse scarse – segnatamente quelle energetiche – ciò che sta vieppiù esacerbando le tensioni globali e regionali tanto che, dopo diversi decenni, il mondo sembra di nuovo sulla soglia di una catastrofe bellica planetaria.

In conclusione, se volessimo ridare una quota di equilibrio ad una storia che oggi appare “scardinata” e vorrei dire perfino “sballata”, allora dovremmo adottare uno sguardo totalmente nuovo rispetto alla nostra attuale situazione storica. Forse abbiamo bisogno di uno sguardo simile, sebbene profondamente diverso, a quello verticale della simbologia sacra delle cattedrali gotiche; forse abbiamo bisogno di una nuova visione del mondo che sia capace, nello stesso tempo, di andare oltre il verticalismo del cristianesimo e l’orizzontalità tipica dei prometeismi moderni, poiché entrambi sembrano ormai nient’altro che “voli di Icaro” destinati a cadere miseramente, più o meno fragorosamente, nell’Egeo.

Soltanto un nuovo sguardo sulla realtà – uno sguardo tutto da costruire – potrà fornirci qualche possibilità di affrontare l’ideologia tanatologica del Capitale. Quell’ideologia  che spaccia l’asservimento per libertà, pagando il potere dei pochi con la sottomissione di tutti.

Antonio Martone (maggio 2024)

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