Una delle necessità
non più rimandabili, in un momento storico caratterizzato dalla cultura della
cancellazione-riscrittura della storia, “è
ridare voce” a testi che hanno scritto la controstoria dell’Occidente.
La storia presentata da manuali e dai media ufficiali ha il suo focus sui “grandi”; la storia sembra
essere il campo di battaglia di eroi, manager e imprenditori che con la loro
azione hanno condotto i popoli verso la
libertà. In tale cornice ideologica il popolo e i ceti subalterni sono solo
soggetti passivi che attendono di essere agiti. È il modo più efficace per eternizzare
il presente e santificare l’uomo-imprenditore. La restante parte dell’umanità è
solo un mezzo nelle fatali mani dei “grandi”. Si addestrano le classi
subalterne del nostro tempo a diventare plebi che attendono la soluzione dei
“grandi”. Devono adattarsi ad una realtà, in cui sono solo materia grezza che
attende il Demiurgo-imprenditore.
La controstoria,
invece, pone in evidenza senza dogmatismi o idealizzazioni che la storia è lo
spazio e il tempo della resistenza di popoli e dei gruppi oppressi. Le
sconfitte sono imputabili al deficit politico. Nessun progetto di cambiamento è
realizzabile senza un’organizzazione stabile e una chiara visione dei fini
politici da realizzare. Capire le ragioni della lotta e delle sconfitte è la
modalità con cui comprendere gli errori del presente e, specialmente, significa
non cadere nella trappola del fatalismo. Uomini e donne che ci hanno preceduto
hanno lottato e il loro sacrificio non è stato vano, se la loro testimonianza
ci è d’ausilio per resistere al pessimismo che la montante ideologizzazione
della storia sta mettendo in atto.
Il testo di J. Hobsbawm,
I Ribelli Forme primitive di rivolta
sociale, ricostruisce i movimenti di resistenza evidenziando che il popolo
e gli oppressi nella storia sono stati protagonisti. Le sconfitte non
cancellano la traccia di libertà di coloro che hanno lottato per la giustizia.
Il solco resta, è il segno che la storia nel suo grembo cela esperienze che
possono insegnare a noi contemporanei a non piegarci alle verità-menzogne di
sistema, ma ad ascoltare i fermenti che scorrono in essa:
“C’è solo una risposta a queste obiezioni: è ormai tempo che movimenti
del genere trattati in questo libro non vengano più considerati
semplicisticamente come una serie incoerente di curiosità individuali, quasi
un’appendice storica, ma siano approfonditi come fenomeni di importanza generale
e di peso considerevole nella storia moderna. Quanto Antonio Gramsci disse dei
contadini dell’Italia meridionale del 1920 si adatta a molti gruppi sociali e
regionali del mondo moderno. Essi sono «in perenne fermento ma incapaci, come
massa, di dare una espressione unitaria alle proprie aspirazioni e ai propri
bisogni»”[1].
Mob
Nel testo di J. Hobsbawm i ribelli sono innumerevoli come le
esperienze che mettono in campo per mutare le condizioni sociali. Una delle
modalità di opposizione è il mob,
ovvero assembramenti improvvisi nei quali si chiedeva a piena voce di non
essere carne da cui estrarre profitto, specie, con una tassazione iniqua. I mob diffusi in Inghilterra come in
Francia e in Italia meridionale si caratterizzavano per la velocità con cui si
materializzavano, ciò non significa che essi fossero privi di idee politiche,
mancavano piuttosto di organizzazione
stabile, per cui l’autocoscienza collettiva era solo parziale e ciò contribuiva
alla sconfitta del movimento. Le manifestazioni avevano in comune l’eterna
aspirazione alla giustizia che nessun sistema politico e nessun capitalismo del
controllo potrà mai eliminare. Dove vi è umanità, c’è la richiesta di
riconoscimento e di giustizia:
“Il fatto che il mob sia un fenomeno prepolitico non significa
necessariamente che esso sia privo di idee politiche esplicite o implicite. È
vero che spesso si insorgeva «senza alcuna idea», vale a dire, in generale,
contro la disoccupazione e per una diminuzione del costo della vita – dato che,
nell’epoca preindustriale prezzi da carestia e disoccupazione tendevano
normalmente a coincidere – e, di conseguenza mercati, commercianti, e tributi
locali come, ad esempio, i dazi, ne costituivano, in tutti i paesi, gli
obiettivi naturali e quasi immutabili. I napoletani, che, durante la
rivoluzione del 1647, cantavano:
Sui viveri non ci fu mai gabella
non ci fu mai né dazio né dogana
esprimevano un’aspirazione alla
quale quasi tutte le classi indigenti delle città avrebbero fatto eco[2]”.
L’assembramento è sempre vissuto come una minaccia dai
potenti. La folla che si unisce per delle comuni richieste ha già in questo la
consapevolezza di essere la maggioranza e che i dominatori sono solo un numero
minimo a confronto di essa. L’autocoscienza di essere forza politica potenziale
è espressa nello stare assieme e nell’organizzare le richieste che
corrispondono a comuni necessità e
richieste. Nei mob, fenomeni di resistenza
e di ribellione cittadina, manca la
continuita nel tempo delle manifestazioni e la capillare organizzazione che
consente di elaborare progetti politici a lunga scadenza:
“Nelle sue manifestazioni, infatti, si ritrovavano in genere almeno due
– o forse tre – altre idee. In primo luogo il mob chiedeva di esser preso in
considerazione. In genere, il mob non insorgeva soltanto per protesta, ma
perché sperava, così facendo, di ottenere qualche cosa. Esso presumeva che la
rivolta avrebbe impressionato le autorità, e che forse le avrebbe indotte a
fare qualche concessione immediata; poiché il mob non era un puro e semplice
assembramento di persone raccolte a caso per il perseguimento immediato di un
fine particolare, ma una entità permanente in quanto riconosciuta, benché di
rado fosse stabilmente organizzata come tale[3]”.
Limiti dei mob
Nelle grandi città il contatto diretto con i sovrani e le
corti sviluppa una relazione di dipendenza. Tale relazione naturalmente diventa
un limite ai processi di consapevolezza del popolo, il quale chiede alle classi
dirigenti protezione. Le richieste popolari con i mob incontrano il loro limite
nella consapevolezza polita, i rivoltosi si percepiscono come dipendenti
dai potenti. Non vi è stato un percorso
strutturato di consapevolezza di classe, pertanto la rivolta ha ambiguità che
pongono le condizioni per il suo fallimento. Con i mob si contrasta il tradimento
delle classi dirigenti che dovrebbero paternalisticamente proteggere i
sussunti ed invece li saccheggiano:
“Gli esempi più caratteristici di questa tradizione cittadina sono
rappresentati da città come Roma, Napoli, Palermo, e forse anche Vienna o
Istambul, grandi città fino da tempi remoti, che sempre furono governate da un
principe. In tali città il popolino viveva con i suoi governanti in uno strano
rapporto, in cui confluivano in parti uguali elementi di parassitismo e di
ribellione. Il loro modo di pensare, se tale è la definizione esatta, può
essere enunciato con chiarezza nel modo seguente. È compito del sovrano e della
sua aristocrazia provvedere al sostentamento del popolo, sia col fornirgli
lavoro, ad esempio proteggendo gli artigiani locali, spendendo generosamente e
facendo elargizioni come si conviene a un principe o a un gentiluomo, sia
attirando nuove fonti di lavoro e di lucro, come, ad esempio, il movimento dei
turisti e dei pellegrini. Ciò è tanto più necessario, in quanto questi centri
di corti principesche non sono, in genere, delle città industriali, essendo
spesso troppo grandi perché le industrie locali forniscano lavoro sufficiente;
infatti, come spesso è stato osservato, le più grandi città preindustriali
erano in genere così vaste in quanto centri amministrativi e residenza di una
corte. Naturalmente, come nel caso di Roma, il popolino poteva spingersi fino
ad avversare l’industrializzazione, poiché i suoi componenti la consideravano
al di sotto della loro dignità di cittadini, e preferivano non avere
un’occupazione fissa[4]”.
Il popolo non era sovrano, ma conosceva la sua forza
persuasiva, pertanto premeva sui sovrani e affini, affinchè ponessero in essere
il loro sacro dovere di governare per il benessere del popolo. I dominatori
d’altra parte dominavano, ma erano sottoposti alla perenne minaccia che
contraeva i processi di deresponsabilizazione e derealizzazione dei sovrani. Vi
era una relazione diretta tra le due parti, poiché il potere era identificato
in figure con le quali si era in contatto per tradizione, si stabiliva un
legame di dipendenza figliale. Il legame era, dunque, ambivalente, si dipendeva
e si minacciava. Il popolo era un
soggetto politico immaturo, ma nel medesimo tempo il mob svelava le potenzialità antisistema in esso presenti, che le
corti dovevano scongiurare con il rapido intervento:
“Purché, dunque, il sovrano compisse il suo dovere, la plebe era pronta
a difenderlo con ardore. In caso contrario, continuava a fare sommosse finché
quel dovere non fosse stato adempiuto. Di tale meccanismo erano ben conscie
ambedue le parti; e finché il normale attaccamento del popolo alla città e ai
governanti non fu sostituito da un altro ideale politico, o finché il mancato
adempimento del loro dovere da parte dei governanti fu soltanto temporaneo, ciò
non fece sorgere gravi problemi politici, a parte qualche sporadica distruzione
di proprietà. La perpetua minaccia di ribellioni faceva sì che i governanti
controllassero i prezzi, dessero lavoro ed elargizioni, e prestassero ascolto
al loro fedele popolo anche su altre questioni. Poiché le rivolte non erano
dirette contro il sistema sociale, l’ordine pubblico poteva rimanere, rispetto
a quello odierno, straordinariamente rilassato[5]”.
La sovranità rappresentava il popolo, il popolo si
identificava con essa e con la Chiesa. L’ambiguità si palesa maggiormente,
qualora il regno sia minacciato, in questi casi il popolo si stringeva intorno
al re, perché rappresentava essi stessi. Il corpo del re era il corpo del
popolo:
“In primo luogo, il sovrano (o una istituzione come la Chiesa)
simbolizza e rappresenta in un certo senso il popolo e il suo modo di vivere,
così come può apparire ad una pubblica opinione incolta. Può essere malvagio,
corrotto o ingiusto, o piuttosto, tale può essere il sistema di governo che
rappresenta; ma finché la società sulla quale esercita il potere rimane stabile
nelle sue tradizioni, esso rappresenta la norma di vita. Questa legge, tranne
che in circostanze particolarmente fortunate, non è certo molto favorevole alla
massa del popolo; carestia, epidemie, pestilenze, guerre, assassini, morti
improvvise, miseria e ingiustizia sono sempre presenti o in agguato dietro l’angolo;
pure, questo è il destino dell’uomo. Tuttavia, se questo ordine stabilito, per
quanto duro e ingrato, veniva a essere minacciato dall’esterno o dall’interno,
il popolo, a meno che il sovrano avesse causato o tollerato in una misura
maggiore del consueto la miseria, le ingiustizie e i lutti (e a meno che,
secondo il detto cinese «il mandato del cielo fosse scaduto»), gli si stringeva
intorno, in quanto egli rappresentava, in un senso simbolico e quasi magico,
«loro stessi» o almeno la personificazione dell’ordine sociale[6]”.
Flash mob
Il mob rappresenta una fase prepolitica
della ribellione. Esso è scomparso, ma è
tra di noi con la formula del flash mob. Differente
nelle motivazioni e nell’organizzazione è espressione del vuoto politico del
nostro tempo. Non si tratta solo dell’assenza di una reale rappresentanza
politica, il vuoto attuale si caratterizza per forme di contestazione mediante
assembramenti veloci per protestare contro i diritti negati violati. Il flash mob esprime un livello di
consapevolezza più immatura rispetto al mob
tradizionale. Lo spettacolo prevale sul programma e sull’obiettivo. Gli
assembramenti trasformano strade e piazze in modo improvviso in un palcoscenico
nel quale gli assembranti si esibiscono, mentre i passanti all’improvviso
divengono spettatori dello spettacolo in
fieri, il messaggio è perso nello spettacolo. Ci si concentra
sull’esibizione e non certo sul “concetto”.
I “contestatori”
dimostrano ancora una volta una forte dipendenza dal potere politico, essi
chiedono alle classi dirigenti un intervento immediato su tematche quali il
clima o i diritti individuali. Non chiedono la trasformazione del sistema, ma
dei correttivi e le stesse richieste sono amorfe. Dopo l’esibizione
l’assembramento si scioglie e non ha seguito. I flash mob dunque non riescono come i vecchi mob a fare pressione
reale sulle classi dirigenti, poiché la protesta è curvata sullo spettacolo, esso
diventa per non pochi uno strumento di affermazione. Non sono sorretti da un
processo politico di coscienza collettiva, per cui essi si disfano velocemente e il potere non li
teme, ma li guarda quasi con simpatia. La società dello spettacolo alimenta
queste forme immature di contestazione e le usa per affermare che il diritto
alla libertà è preservato e vissuto dalle nuove generazioni. Naturalmente
nessuna di queste manifestazioni-assembramenti ha favorito la prassi.
Il male “nel postmodernismo”
Ripercorrere la
controstoria è esercizio di consapevolezza per concettualizzare il presente.
Senza attività politica nessun cambiamento è possibile e le forme di ribellione
patinate e modaiole sono solo la pallida imitazione delle forme di ribellione
prepolitiche che si sono materializzate nella storia. Per tornate ad essere “Ribelli
consapevoli” la storia è oggi più preziosa che mai. L’analisi della storia
messa volutamente in ombra dal dominio, non può che donarci categorie per
decodificare il presente e offrirci la consapevolezza del lungo lavoro politico
che ci attende. Bisogna smascherare con le categorie marxiane le false forme di
opposizione che il sistema capitale favorisce per poter celare la conservazione
che si annida nelle manifestazioni politicamente corrette. Riannodare le fila
dei movimenti di opposizione con le loro faglie e con i loro punti di
continuità significa ricostruire la storia contemporanea alla luce degli uomini
e delle donne che non hanno accettato supinamente il loro tempo. La storia non
è trasmissione di informazioni, essa è esperienza di libertà e di
emancipazione. Riconquistare la storia e strapparla dall’oblio del
totalitarismo della cultura della cancellazione significa riappropriarsi della
propria umanità attraverso l’esperienza degli uomini che hanno detto “no”
all’oppressione.
Nel nostro tempo
l’individualità può formalmente tutto, ciò
malgrado dietro la patina di libertà il soggetto può solo obbedire alle
decisioni politiche ed economiche dettate da una oligarchia irraggiungibile e
sfuggente. La storia dunque ci mostra e dimostra che solo la resistenza al
dominio e la lotta solidale rende l’essere umano libero. La prassi necessita di
un processo di consapevolezza strutturato senza il quale ogni gesto di
opposizione rischia di perdersi nel nichilismo dell’impolitico. La “narrazione
minima della storia” ridotta dopo il postmodernismo ad un campo da giochi per i
potentati, bisogna contrapporre il fine che scorre al suo interno, che tra
regressioni e avanzamenti, resta la giustizia sociale e la libertà. La
controstoria ha tra i suoi scopi la sollecitazione a ripensare la storia da una
prospettiva disorganica al sistema per rilevare la finalità oggettiva dal
totalitarismo liberista. La narrazione minima della storia del postmodernismo
con il suo nichilismo senza prospettive inaugura l’accettazione passiva della
violenza oligarchica e l’adattamento fatalistico. Se la storia non ha un senso
ed è solo il campo di forza, in cui la violenza del più forte è l’eterna e
inamovibile protagonista, si trasmette
ai sussunti il fatalismo della violenza e l’eternità del presente. Il
postmodernismo è processo di destoricizzzazione, di conseguenza la storia non è
indagata, ad essa non si pongono domande, ma
si constata solo l’inesorabile sconfitta delle ”grandi narrazioni”. Il
postmodernismo con la sua narrazione minima favorisce il consolidamento del
capitalismo assoluto. Il flash mob è
espressione della narrazione minima: gli obiettivi sono minimi e fugaci, per
cui si chiede al sistema di intervenire
per sanare ingiustizie. Nessuna ricostruzione storica e strutturale dei fatti e
nessuna prospettiva storica emergono da tali manifestazioni. Il modo di produzione capitalistico è così
destoricizzato e può ampliare i suoi tentacoli, in quanto non incontra
resistenza, critica radicale e progettualità. In questa cornice inquietante è
necessario “rimettersi in sintonia con la storia” per rispondere
dialetticamente ai processi in atto. Il
postmodernismo dunque contrae la storia al solo presente avulso da ogni
finalità oggettiva, per cui non resta
che il presente con il suo ripetersi ossessivo e nevrotico del presente.
La storia è ridotta a spettacolo, a vetrina nella quale le plebi sono in
vendita al compratore più forte. I popoli sono solo tragiche presenze
folcloristiche.
Il presente ha il suo
senso all’interno del passato e del futuro, senza tali categorie temporali il
presente è solo un’estensione spazio-temporale senza profondità, è un disperato automatismo che polverizza i
popoli nel suo tritacarne nichilista. A
tale logica una delle risposte possibili è la controstoria che dimostra la
capacità di resistenza e avanzamento degli aggiogati e l’implicita presenza di
una finalità oggettiva nella storia occultata dai “padroni del tempo e dello
spazio”. I nuovi padroni del pianeta
ritagliano la storia, la piegano ai loro voleri e occupano gli spazi
rimodellandoli alla logica del profitto. Dovremmo riflettere sulle parole di
Debord per capire che siamo parte di un sistema, in cui come Debord stesso ha già
detto”il vero è solo un momento del falso”. Ripensare alla merce e storicizzarne
la produzione per svelarne le forme di sfruttamento incapsulate in esse è il
modo per ritornare nella storia e ricongiungergi idealmente nel presente alla
corrente sotterranea che ricongiunge il presente con il passato, ma per fare
questo bisogna abbandonare “la società dello spettacolo”:
“42. Lo spettacolo è il
momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale.
Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede altro che quello:
il mondo che si vede è il suo mondo. La produzione economica moderna estende la
propria dittatura estensivamente e intensivamente, Nelle zone meno
industrializzate, il suo dominio è già presente con qualche mercevedette e in
quanto dominio imperialistico presente nelle zone che sono in testa nello
sviluppo della produttività. In queste zone avanzate, lo spazio sociale è
invaso dalla sovrapposizione continua di strati geologici di merci. A questo
punto “della seconda rivoluzione industriale”, il consumo alienato
diviene per la massa un dovere supplementare alla produzione alienata. E’ tutto
il lavoro venduto di una società che diviene globalmente la merce totale, il
cui ciclo deve proseguire. Per fare ciò, bisogna che questa merce totale
ritorni frammentariamente all’individuo frammentario, assolutamente separato
dalle forze produttive operanti come un insieme. E’ dunque qui che la scienza
specializzata del dominio deve specializzarsi a sua volta: ed essa si segmenta
in sociologia, psicotecnica, cibernetica, semiologia ecc., presiedendo
all’autoregolazione di tutti i livelli del processo[7]”.
[1]E.
J. Hobsbawm, I Ribelli Forme primitive di rivolta sociale, Capitolo I
Presentazione, Piccola Biblioteca Einaudi Torino, 1966
[2]Ibidem
CapitoloVII: I mob cittadini.
[3]Ibidem
[4]
Ibidem
[5]
Ibidem
[6]
Ibidem
[7] Guy Debord, La società dello spettacolo, La merce come spettacolo paragrafo 42,